{{elencoDettaglioArticolo.categoria}}

Virtù e vizi dell’avvocato da un’enciclopedia medievale (arbor bona, arbor mala)

{{elencoDettaglioArticolo.sottoTitolo}}

Giacomo Alberto Donati

Il 6 maggio scorso, le ottocentesche volte e le aeree arcate dell’Aula Magna dell’Università degli Studi di Pavia hanno assistito (assieme ad un nutrito ed attentissimo pubblico) alla presentazione dell’ultima fatica editoriale di Remo Danovi, efficacemente intitolata Il diritto degli altri.

Storia della deontologia [DANOVI 2022]: se l’autore non ha certo bisogno di particolari presentazioni, merita invero alcune glosse di invito alla meditata lettura questa sua opera di storia della cultura giuridica. Di vera e propria cultura giuridica, per vero, è possibile discorrere a pieno titolo, giacché l’A. non si è limitato, nella confezione del libro, ad una disamina (pur approfondita) delle fonti scritte tradizionalmente ricomprese nel fenomeno giuridico (legge, dottrina e giurisprudenza) ma ha altresì allargato la visuale e lo scopo della propria indagine anche a testi che potrebbero far storcere il naso a sensibilità ancora troppo ancorate a «mitologie» [G ROSSI 2007] positivistiche.

Poche scelte, infatti, come rammentato anche da Antonio Padoa Schioppa in prefazione al volume, potrebbero essere più metodologicamente scorrette, qualora ci si proponga un esame disteso della storia giuridica che va dalla tarda Antichità e passa per tutto l’Evo Medio sino al Moderno, di un setaccio contenutistico che escluda (invero arbitrariamente) dal novero delle fonti esaminate gli insegnamenti, ad esempio, di canonisti, teologi e maestri di vita spirituale [PADOA S CHIOPPA 2003]: ciò, infatti, equivarrebbe a sospendere al puro etere istituti vivi e operanti nella quotidiana pratica del diritto, sradicandoli completamente dal sostrato storico che li ha generati e condannandoli, quindi, ad un inconsapevole (e quindi limitato) utilizzo (un esempio è offerto dal principio della colpevolezza oltre ogni «ragionevole dubbio»[W HITMAN 2016], sorto in ambito moralistico-teologico).

Per tutte queste ragioni, non può che accogliersi sollecitamente d’idea di spendere qualche parola di commento sull’immagine che l’A. ha voluto destinare alla copertina del proprio libro, e ciò proprio per i motivi suesposti, ossia che essa non sembra condividere, di primo acchito, alcun legame con l’argomento deontologico nell’ordinamento giuridico forense.

Il Liber Floridus di Ghent

I due alberi raffigurati in copertina, infatti, son tratti da quella che è, forse, la più celebre «enciclopedia» [D E - ROLEZ 1998] d’età medievale, quel Liber Floridus che, grazie allo stilo del canonico Lambert del monastero di Saint-Omer nell’Artois (da non confondersi con un omonimo abate contemporaneo dello stesso monastero [D EROLEZ 2015]), ha conservato alla posterità, oltre a miniature di commovente bellezza (peraltro liberamente accessibili online), una summa del sapere erudito dell’epoca (il Liber venne composto tra la fine dell’XI e l’inizio del XII secolo, escerpendo passi ed insegnamenti da una considerevole quantità di opere precedenti).

Per le pagine di questo manoscritto, conservato presso la libreria universitaria di Ghent (con copie posteriori anche alla Bibliothèque Nationale di Parigi e alla Herzog August), si rinvengono quindi non solo una cronologia universale che, dall’origine del mondo, narra i fatti salienti della storia dell’umanità sino all’anno di composizione ma anche, col gusto appunto erudito che presiedeva all’opera, diverse cartine geografiche (tra cui un mappamondo) e miniature di ragguardevole pregio raffiguranti soggetti biblici, astronomici, apocalittici e naturalistici.

L’immagine proposta in copertina a Il diritto degli altri, da questo punto di vista, un soggetto d’argomento biblico – difficile, infatti, non riandare con la mente alle celeberrime parole di Gesù, che colorano tutto lo sfondo concettuale della rappresentazione: «se prendete un albero buono, anche il suo frutto sarà buono; se prendete un albero cattivo, anche il suo frutto sarà cattivo: dal frutto infatti si conosce l’albero» (Mt 12, 33) – raffigurato entro schemi formali botanici: si tratta infatti, da una parte (f. 231v), di un albero nel pieno rigoglio, viride, che porta molti frutti; dall’altra parte (f. 232r), invece, di un tronco sì anch’esso con molti rami che si distendono verso il cielo, però irrimediabilmente secco, spento, senza alcun frutto.

Arbor mala: il fico sterile

Questo arbusto (l’arbor mala, come è identificato nel manoscritto, l’albero cattivo) rappresenta il fico (ficulnea sono per l’appunto denominati tutti i suoi rami) del quale parlano i Vangeli sinottici: Matteo e Marco quando rammentano di come Gesù vi passasse accanto e, non trovandovi alcun frutto, lo fece seccare per insegnare ai discepoli l’importanza della fecondità nell’apostolato ed il valore della preghiera (Mt 21, 19-22; Mc 11, 12-14; 20-25); Luca, invece, allorché tramanda la parabola del padrone della vigna che non trova frutti sul proprio fico e della pazienza che egli usa nei confronti di esso, nella speranza che finalmente corrisponda alle grazie ricevute (Lc 13, 6-9).

Per rappresentare questa infruttuosità, Lambert (facendo eco alle parole puntualmente segnalate di Giovanni Battista, secondo le quali «già la scure è posta alla radice degli alberi: ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco» [Mt 3, 10]) disegnò una coppia di asce intente a troncare il fusto dell’albero cattivo, non disdegnando però di indagare più in profondità le origini di tale sterilità. A questo proposito, il cuore pulsante dei vizi (in una prospettiva, quindi, tutt’altro che ignara delle miserie del mondo) è rappresentato dalla cupiditas ovvero dall’avarizia, la quale genera (come si legge nel tondo posto al centro del tronco) rovine, truffe, menzogne, spergiuri e violenze di ogni sorta, nonché infinite inquietudini per chi si lasci da essa dominare.

A partire da questa cattiva radice, il monaco di Saint-Omer enumerò una serie di vizi da essa discendenti, sottolineando però come, a propria volta, ciascuno di questi, proprio come nella germinazione ramificata delle appendici di un albero, fosse causa di altri mali: così, dal tronco dell’attaccamento smodato ai beni terreni (ossia dall’avarizia) si originano, tra le altre, l’ira (che dà vita a sua volta a risse, paure, contumelie, mormorazioni, indignazione e blasfemie); l’invidia, la quale è occasione di discordia, presunzione, testardaggine; anche scandali dagli oggetti più immediatamente materiali, come l’omicidio o la lussuria, vengono comunque riguardati in rapporto alle ricadute nefaste sul piano spirituale, rammentando come la morte altrui generi orrore e disperazione in colui che l’ha causata e come lo squilibrio delle passioni comporti cecità per le facoltà intellettive, incostanza, precipitosità, disprezzo per le cose dello spirito e afflizioni per i sensi.

Il punto di scavo più profondo e penetrante tra le pieghe dell’animo umano, però, Lambert sembra raggiungerlo allorché propone una definizione di disperazione (desperatio), quel male spirituale nel quale si attorcigliano le spire di tristezza, malizia, rancore, indolenza e torpore verso le cose del cielo e del mondo.

La perdita della speranza, in effetti, conclude l’autore del Liber, porta inevitabilmente alla «vagatio mentis circa illicita» (f. 232r), al vagolare del cuore per sentieri proibiti.

Arbor bona: l’albero della Sapienza

Il contrasto dell’arbor bona, dell’albero buono che dà molti frutti, con l’albero cattivo, non potrebbe essere più stridente: tanto spento il verde che caratterizza quest’ultimo quanto vibrante il pigmento di quello. Rossi i suoi fiori, numerose le gemme che qui e là si distendono al sole ed illuminate con colori lucenti (blu e giallo) le miniature che raffigurano le virtù che viaggiano a mo’ di robusto organo cardiocircolatorio per i suoi rami.

Anche i richiami biblici che lo contraddistinguono, di conseguenza, risultano parimenti positivi: il più consono è quello alla prima lettera di Giacomo, ove si dice che «la sapienza che viene dall’alto è […] piena di misericordia e di buoni frutti» e che «un frutto di pace viene seminato nella pace per coloro che fanno opera di pace» (Gc 3, 17-18).

Il tronco dell’albero della sapienza risulta vivificato anzitutto dalla carità (karitas nel manoscritto): «così come», infatti, «da una sola radice provengono molti rami, da un solo atto d’amore prendono origine molte virtù» – la citazione è tratta dalle omelie di Gregorio Magno [PL 76] al vangelo di Giovanni (ripreso verbatim al folium 231v, nell’angolo basso a sinistra) –.

In maniera speculare all’arbor mala, poi, è la speranza il frutto più ubertoso (non è un caso che la miniatura rappresentata all’interno del tondo denominato «spes» mostri il ventre al lettore, a significare la propria fecondità) di questo albero: essa, infatti, dà vita alle tre virtù della pazienza, della castità e della gioia piena.

Sempre dal tronco della carità, del resto, si originano, al lato superiore del folium, la continenza, la fede (coronata di gloria), la longanimità e la mansuetudine; al lato inferiore, invece, la sobrietà, la modestia, la bontà e la pace. È di tutta evidenza come questo catalogo di buoni costumi, confezionato da un monaco medievale, sia calato in profondità entro la cornice, potentemente venata di cristianesimo, nel quale è stato redatto: ciononostante, esso ha l’indubbio merito, proprio per tale ragione di fondo, di essere caratterizzato da una armoniosa unità sostanziale, nella quale ogni manifestazione di bene è saldamente ancorata al valore centrale della caritas, non a caso cantata da Paolo di Tarso (anch’egli invocato nell’arbor) con molti degli attributi testé enumerati («non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia») e come la virtù che «non avrà mai fine» (1 Cor 13, 4-5; 8).

Arbor bona, arbor mala: le virtù quali mezzi per il conseguimento del fine comune.

Oltre che in copertina, il contenuto, testé succintamente tratto dalle pagine del Liber floridus, è dall’A. de Il diritto degli altri proposto in chiusura alle proprie riflessioni: dopo aver rammentato come «la simbologia e la simmetria dei due alberi» rappresenti efficacemente «la contrapposizione esistita, e ancora esistente» tra i moti più nobili e quelli più vili dell’animo umano (ma senza concessioni a deleteri manicheismi, anzi, semplicemente constatando, con sano realismo, come tale sia la natura delle cose) [DANOVI 2022, 339-340], l’A. conclude individuando il senso più profondo del sistema dei doveri (non solo deontologici), ossia quello di fungere da argine al comportamento vietato, al vizio che gli si contrappone.

Non è però solo una funzione puramente difensiva quella che l’A. concepisce per questo vero e proprio ordinamento giuridico [R OMANO 2018] ma altresì, per così dire, ‘offensiva’ o positiva: l’armonico coordinamento tra virtù e doveri, infatti, è necessario «per conseguire il fine comune» [DANOVI 2022, 341], ossia la giustizia, dall’A. riguardata anche nel suo significato più autentico di ordo, ordine universale che passa per «il riconoscimento e il rispetto che riflettono il se stesso e l’altro» [DANOVI 2022, 342].

Sulla scorta di queste considerazioni, può anche comprendersi ora più a fondo il senso di sottoporre all’attenzione del lettore il contenuto di una lontana raffigrazione medievale come quella dei due arbores: lungi dal rappresentare il sintomo di un gusto erudito dell’A., la scelta di quest’immagine gode invece dell’indubbio merito di avere non solo efficacemente messo in luce il rapporto esistente (ma oggi non più ancillare) della deontologia con la morale e l’etica ma, altresì, di aver illuminato, per il più vasto pubblico, la continuità di un’esperienza come quella della cultura giuridica occidentale, la quale, dalle radici di un Medioevo ora non poi così distante, si è organicamente evoluta sino ai giorni nostri, arrivando a coprire con la propria ombra (a volte portatrice di refrigerio, a volte di oscurità, come l’A. insegna) tutto il mondo.

BIBLIOGRAFIA DANOVI 2022:

R. Danovi, Il diritto degli altri. Storia della deontologia, Milano, Giuffrè Francis Lefebvre, 2022. D EROLEZ 2015:

A. Derolez, The Making and Meaning of the Liber Floridus, A Study of the Original Manuscript, Ghent, University Library, MS 92, Turnhout, Brepols, 2015.

D EROLEZ 1998: A. Derolez, The autograph manuscript of the Liber Floridus. A Key to the Encyclopedia of Lambert of Saint-Omer, Turnhout, Brepols, 1998.

G ROSSI 2007: P. Grossi, Mitologie giuridiche della moder- nità, Milano, Giuffrè, 2007.

PADOA SCHIOPPA 2003: A. Padoa Schioppa, Italia ed Europa nella storia del diritto, Bologna, Il Mulino, 2003. PL 76: Gregorius Magnus, Homiliae XL in Evangelia, in J. P. Migne (cur.), Patrologia latina, LXXVI, Paris, 1857, p. 1205.

ROMANO 2018: S. Romano, L’ordinamento giuridico, Macerata, Quodlibet, 2018. WHITMAN 2016: J. Q. Whitman, The Origins of Reasonable Doubt. Theological Roots of the Criminal Trial, New Haven (CT), Yale University Press, 2016.


Note

Argomenti correlati

Categoria