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Sul principio di autonomia nel rapporto previdenziale*

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1. - Volendo rappresentare con poche parole l’essenza della relazione che intercorre tra il contratto di lavoro e la relativa disciplina previdenziale, si può far ricorso ad un’immagine: il rapporto previdenziale è compagno di strada del rapporto di lavoro.

Come è pregio delle metafore, l’immagine dà conto con immediatezza, quasi visivamente, di caratteristiche essenziali e, insieme, elementari dell’oggetto o del concetto che si intende evocare: in questo caso, l’elemento di comunanza – il tratto, più o meno lungo, di comune percorso, che allude ad un occasionale sodalizio, indotto da una medesima, ideale destinazione – e, di contro, l’elemento di distinzione, quale è inevitabilmente quel- lo rappresentato dalle due diverse, concluse identità, in momentanea relazione.

In effetti, nel relazionarsi al rapporto di lavoro, la situazione cui ci si riferisce con il sintagma “rapporto previdenziale” presenta caratteristiche che, seppur espressive del collegamento tra i due distinti rapporti giuridici, allude anche alla reciproca autonomia. Il che, come è scontato, comporta effetti non sempre preventivabili, e non necessariamente di ridotto rilievo.

2. - Al proposito, il primo dato che si impone all’attenzione è rappresentato dal fatto che l’obbligazione previdenziale, nucleo dell’omonimo rapporto, pur relazionandosi al contratto di lavoro, non può essere considerata componente specifica di quel contratto. Per intenderci, non può essere considerata alla stessa stregua dell’obbligazione di sicurezza, e, dunque, come componente del corrispettivo (insieme alla retribuzione) della prestazione lavorativa: e infatti non costituisce “espressione” del contratto sottoscritto tra le parti, né può dirsi conseguenza del patto stesso, ai sensi dell’art. 1374 c.c.. Il rapporto di lavoro è semmai il presupposto che giustifica l’insorgenza del rapporto giuridico che ha come contenuto l’obbligazione contributiva; quest’ultima prescinde da qualsiasi atto di autonomia negoziale, imponendosi in via automatica.

L’automatismo è criterio regolatore della costituzione delle relazioni giuridiche di natura previdenziale, fonte di uno status, a sua volta espressione della logica stessa dell’intervento sociale: quella della tutela di un interesse dalla connotazione pubblicistica, quindi non subordinato ad un atto di autonomia privata.

In sostanza, va dato atto che vi è una ideale correla- zione tra l’automatismo del rapporto previdenziale (e dello status ad esso connesso) sia con il principio di indisponibilità – obbligatorietà della tutela assicurati- va garantita dalla cosiddetta assicurazione sociale, sia con il principio secondo il quale il profilo oggettivo del diritto alla tutela previdenziale gode della garanzia costituzionale solo fino al limite in cui quella tutela attinga la soddisfazione di bisogno avente il carattere della rilevanza sociale: dove il riferimento alla “rilevanza sociale” riguarda non soltanto la tipologia del bisogno (o, meglio, le circostanze fattuali che quel bisogno determinano: l’elencazione di cui all’art. 38, comma 2, Cost., pur non avendo il carattere della tassatività, ne è una valida rappresentazione), ma anche il “livello” stesso di ciascun singolo, specifico bisogno.

3. - Un secondo dato, particolarmente significativo per il corretto apprezzamento della relazione in riferimento è che il rapporto previdenziale, pur risultando funzionalmente legato al rapporto di lavoro durante l’intero, comune percorso (per proseguire nella metafora), è destinatario di una regolamentazione rispondente a logica che non coincide (sempre e puntualmente) con quella cui si richiama, invece, la regolamentazione del rapporto di lavoro, ma da essa si differenzia: una differenziazione scontata, se si considera che gli interessi coinvolti dai due rapporti non sono coincidenti.

In effetti, per più aspetti quel rapporto segue regole sue proprie anche in riferimento, in ipotesi, ad una medesima situazione: si pensi, ad esempio, alle differenze che intercorrono tra il concetto di retribuzione rilevante nella disciplina del contratto di lavoro, e il concetto di retribuzione valido ai fini dell’imponibile contributivo.

Un altro caso emblematico è rappresentato dalla transazione: il negozio transattivo tra datore e lavoratore, diretto a dirimere, ad esempio, aspetti controversi del trattamento retributivo risolve, sì, quella vertenza, ma non tocca il diritto di credito dell’ente previdenziale; è quanto implica l’art. 2115, comma 3, c.c. che sanziona con la nullità i patti diretti ad eludere gli obblighi previdenziali.

Parimenti emblematico, al medesimo proposito, è anche quella manifestazione di automatismo qui si riferisce l’art. 2116, comma 1, c.c., ai sensi del quale le prestazioni previdenziali sono dovute al lavoratore anche quando l’imprenditore non abbia versato regolarmente i contributi, salve diverse disposizioni di legge. E, ancora, si potrebbe ricordare il licenziamento illegittimo seguito da sentenza di reintegra: nel periodo intermedio il rapporto di lavoro è quiescente, mentre resta operativo il rapporto previdenziale e le conseguenti obbligazioni contributive.

4. - Anche il percorso durante il quale i due compagni di strada procedono appaiati, d’altra parte, non copre necessariamente l’intero, ideale tragitto. Innanzitutto, va considerato che non può ritenersi regola assoluta la coincidenza del punto di partenza del tragitto stesso. Non sempre il momento costitutivo del rapporto previdenziale, infatti, coincide con il momento costitutivo del rapporto di lavoro. Specie nell’ambito del lavoro autonomo la norma può richiedere, perché il rapporto previdenziale si instauri, anche che l’attività lavorativa abbia determinati connotati: ad esempio, che non sia meramente occasionale e di limitato rilievo economico (come la legge prevede appunto per il lavoro occasionale); che sia in grado di produrre un reddito annuale non inferiore ad un determinato importo (come è previsto nei regimi previdenziali di alcune libere professioni); che non sia prestato in funzione di finalità di natura estranea alle logiche dello scambio (come avviene nei casi del volontariato o del lavoro prestato per l’assistenza a familiare inabile); che non sia richiesto e prestato, esso stesso, come forma primaria di tutela sociale, e, come tale, sottratto al carico degli oneri previdenziali (come avviene, ad esempio, per talune fattispecie di la- voro in zone disagiate).

E ancora, come già la destinazione pensionistica del rapporto previdenziale (nella sua componente “erogatoria”) evidenzia, neppure la rispettiva destinazione finale del percorso coincide; né è detto che, durante il comune percorso, alle “soste” dell’uno corrisponda un sostare anche dell’altro. Anzi è più probabile che alla “sosta” dell’uno corrisponda una più intensa attività del compagno di strada.

È quanto si verifica, in particolare, nel caso in cui alla sospensione del rapporto di lavo- ro faccia da contraltare l’intervento di quel particolare rapporto previdenziale che ha ad oggetto le prestazioni integrative del salario con l’intervento della cassa integrazione. Non è da escludere neppure che, durante il comune percorso i due viandanti non possano trovarsi, di fatto, su posizioni di reciproco, sostanziale contrasto.

Al proposito, la casistica è ricca: dalla situazione, più risalente e frequente, nella quale venga in discussione la qualificazione giuridica del rapporto di lavoro, ritenuta di una certa natura dalle parti, ma contestata dall’ente previdenziale, e dalla cui soluzione dipende non solo l’entità della contribuzione, ma anche profili relativi alle prestazioni, fino alla casistica di più recente emersione, quale, ad esempio, quella (sempre più frequente) dell’artata induzione da parte del lavoratore (attraverso l’espediente di una prolungata assenza dal lavoro, senza fornire giustificazione alcuna) del licenziamento disciplinare, al fine di acquisire il diritto alla prestazione di disoccupazione e alla prestazione accessoria della contribuzione figurativa, diritto che il perseguimento dell’obiettivo dello scioglimento del rapporto di lavoro per la via propria delle dimissioni, allo stato della vigente legislazione non gli garantirebbe.

5. - Una realtà complessa e articolata, dunque, quella che già questi pochi, sommari tratti evocano.

Una realtà che, proprio in ragione di tale complessità, richiede, fuor di metafora, di essere considerata e valutata (tanto a fini speculativi, quanto a fini pratici) nelle sue diverse sfaccettature; inclusa tra queste quella riferibile alla vicenda storica che è all’origine di quel complesso di regole e istituti, i cui sviluppi ben presto avrebbero dato vita ad una nuova branca dell’ordinamento giuridico: il diritto della previdenza sociale.

L’allusione è trasparente. Ci si riferisce al fenomeno che, sul finire del XIX secolo, ha indotto lo Stato ad intervenire, dapprima marginalmente e poi sempre più intensamente, negli ambiti delle discipline del lavoro: la cosiddetta “questione sociale”. Come risaputo, tale è la denominazione con la quale ci si riferisce a quel complesso di vicende e comportamenti collettivi, di rilevanza sociale, economica ed etica, conseguente alle profonde trasformazioni determinate dalla rivoluzione industriale.

Il percorso verso il progresso, avviato da quella “rivoluzione” è stato segnato anche dalla diffusione di nuove, estese forme di povertà – quelle indotte dal progressivo inurbamento di grandi masse di lavoratori, che, attratte dalle attività emergenti dell’industria, hanno abbandonato, sconvolgendo storici assetti del tessuto sociale e produttivo, le tradizionali attività agricole e artigianali (soprattutto), per impegnarsi in quella nuova realtà lavorativa e produttiva –, nonché dalla piaga degli infortuni sul lavoro e delle malattie da lavoro, in gran parte frutto, a loro volta, del diffuso, abnorme sfruttamento del lavoro umano.

La gravità del fenomeno, facilitato dallo stato di bisogno delle masse di soggetti in cerca di lavoro in detto nuovo, emergente settore produttivo; la progressiva ingravescenza, con l’intensificarsi dell’uso dei macchinari industriali, del problema sociale e umano indotto dagli infortuni sul lavoro e dai relativi drammatici riflessi sulle famiglie dell’infortunato; il peso assunto dall’opinione pubblica più sensibile ed aperta ai problemi sociali del lavoro; l’influenza morale su quel medesimo problema, dell’affermazione della dottrina sociale cristiana; infine, l’impatto del fenomeno spontaneo dell’associazionismo operaio, con le sue rivendicazioni: si può convenire che siano stati essenzialmente questi eterogenei, ma concorrenti fattori che aver indotto lo Stato ottocentesco ad abbandonare la propria tradizionale posizione di neutralità in materia, e ad intervenire attraverso norme dirette a garantire un nucleo basilare di tutele, a favore di chi viva esclusivamente del proprio lavoro, e, dunque, a porre un argine, per tal via, alle spinte prorompenti del capitalismo.

È in tale contesto che si sviluppano i primi embrioni di quella “legislazione sociale”, che rappresenta l’antesignana dell’attuale diritto del lavoro.

Ma in quella stessa vicenda va ricercata anche la matrice della particolare realtà giuridica, nella quale trova il suo fondamento quanto destinato ad essere designato con l’espressione di “rapporto previdenziale”. Senonché, in relazione a questo secondo profilo regolativo, lo Stato non ha ritenuto di intervenire direttamente, come ha fatto invece nell’altro settore attraverso disposizioni direttamente regolatrici del rapporto di lavoro.

Ha scelto di rivolgersi, piuttosto, ad un diverso strumento contrattuale: il contratto di assicurazione, reso, per l’occasione, obbligatorio, e opportunamente modulato sulle specifiche esigenze di tutela sociale.

È a tale originaria matrice che risale uno dei connotati della specifica situazione giuridica, destinato a condizionarne la relazione con il contratto di lavoro, nei suoi svolgimenti: il connotato assicurativo.

6. - Può essere utile accennare, a questo punto, alle circostanze che hanno favorito, nel loro complesso, la scelta di detto modello assicurativo, piuttosto che altra pur possibile soluzione. Un ruolo di rilievo, al proposito, va riconosciuto, innanzitutto – è bene sottolinearlo –, a un fattore di or- dine tecnico economico: il perfezionamento da poco raggiunto, grazie all’introduzione del calcolo attuariale, dagli studi statistici dell’epoca; perfezionamento che ha reso finalmente possibile calcolare, con maggiore, più soddisfacente approssimazione e su precise basi tecniche, rischi e costi di un’operazione necessariamente di lungo periodo, come è appunto quella di natura assicurativa, notoriamente caratterizzata dall’alto grado di aleatorietà, soprattutto se riferita a vicende della vita umana. Determinanti sono state, in ogni caso, le caratteristiche dello strumento prescelto.

Il fatto che la tutela sociale, una volta esercitata l’opzione a favore dello strumento assicurativo, potesse realizzarsi sostanzialmente all’interno delle regole proprie del commercio, ha rappresentato un connotato vincente: la partecipazione al relativo finanziamento degli stessi soggetti interessati (imprese e lavoratori dipendenti), tenuti pro quota a versare premi e contributi, ha consentito non solo che quel modello assicurativo venisse subito apprezzato per la sua economicità, ma ha generato consenso anche perché non destinato a rappresentare fattore di turbamento della disciplina economica liberista dell’epoca. Due concorrenti circostanze, che hanno consentito di acquisire e alimentare un durevole, diffuso apprezza- mento nei confronti di detto modello di realizzazione della protezione sociale.

Né sono state estranee al processo che ha favorito la scelta in questione ragioni di carattere politico ideo- logico. Ha giocato un ruolo di rilievo l’apprezzamento del fatto che, attraverso l’assicurazione, quale tipico strumento di autoprotezione (anche nella sua versione “sociale”), i soggetti destinatari della tutela venissero, sì, socialmente assistiti, ma non deresponsabilizzati. Per altro verso, la “fortuna” che lo strumento, nonostante i mutamenti degli assetti, anche istituzionali, ha incontrato nel tempo – e che gli ha consentito di passare indenne dall’ordinamento liberale all’ordinamento corporativo, per mantenersi vitale (almeno fino ad oggi) anche nell’ordinamento repubblicano –, va posta in relazione con la particolare “duttilità tecnica”.

È sufficiente un semplice, agevole “ritocco” (al variare delle condizioni socio-economiche o delle contingenti scelte di politica sociale da parte delle forze di governo del momento),di uno, o più, dei requisiti richiesti per la maturazione del diritto alla prestazione, per far sì che il relativo impiego da parte dei pubblici poteri abbia potuto, e possa, svolgere anche il ruolo di incisiva, anche se non troppo appariscente, forma di controllo sociale.

7. - Nel nostro paese, l’introduzione dell’assicurazione sociale non ha seguito, però, l’identico percorso seguito nel paese, la Germania, che per primo vi ha fatto ricorso. A determinare la diversificazione ha contribuito l’esistenza, da noi, di una preesistente esperienza di auto- protezione: quella rappresentata dalle società di mutuo soccorso, la cui funzione ha trovato il suo completa- mento nell’opera di promozione e protezione del risparmio dei lavoratori, svolta dalle casse di risparmio. L’esigenza di un diretto controllo pubblico sul settore ha avuto modo di imporsi soltanto in seguito all’entrata in crisi (essenzialmente per ragioni demografiche) di quell’esperienza. Sono state ragioni di urgenza politico-sociale, strettamente legate al processo di industrializzazione, che hanno indotto il legislatore nazionale a prescegliere, come destinatario del primo intervento, il settore industriale: la legge n. 80 del 1898, impositiva dell’assicurazione contro gli infortuni dei dipendenti delle imprese industriali, sostanzialmente segna la data ufficiale dell’introduzione delle assicurazioni sociali in Italia.

Meritevole (anche per i successivi sviluppi) di essere anch’esso ricordato nel presente excursus, è l’espediente concettuale attraverso il quale è stato reso accetta- bile tale innovativo, importante intervento eteronomo in rapporti fino a quel momento retti esclusivamente sulla base di atti di autonomia privata, decretando nel contempo il definitivo accreditamento della tecnica assicurativa prescelta. Si tratta della teorizzazione del cosiddetto rischio professionale, cioè di criterio di imputazione della responsabilità civile fondato, anziché sulla colpa e sul dolo, sul criterio “oggettivo” dell’accollo del danno in capo a chi trae i maggiori vantaggi dall’attività economica, in relazione al cui esercizio il danno si produce, secondo il noto brocardo cuiuscommodaeius et incommoda.

Una prospettazione di “rottura”, rispetto alla risalente, consolidata concezione “soggettivistica” della responsabilità civile, la suddetta – che non poteva non allarmare chi aveva motivo di tenere gli effetti di quel criterio oggettivo di imputazione della responsabilità. Un criterio, infatti, di per sé idoneo a far ricadere sull’imprenditore non soltanto i danni dei quali fosse possibile dimostrare, secondo le regole ordinarie, la sua responsabilità diretta o, eventualmente, per il fatto colposo o doloso di proprio dipendente, bensì tutti i danni comunque subiti dal lavoratore nello svolgimento della attività lavorativa, e, dunque, in via di principio, anche se imputabili a caso fortuito o forza maggiore o a colpa dello stesso lavoratore. Comprensibili, dunque, le forti resistenze che detta soluzione ha subito incontrato.

8. - Si può affermare, tuttavia, che sia stata proprio la concreta prospettazione di tale ipotesi regolativa a funzionare da “grimaldello” per il successo dell’iniziativa in riferimento. Pur di evitare che la soluzione che il legislatore si accingeva a individuare potesse essere la suddetta, da parte degli imprenditori è stato accettato di buon grado, quale “male minore”, la soluzione della socializzazione del rischio: cioè, l’assoggettamento all’assicurazione obbligatoria in questione e al paga- mento dei relativi premi.

Nei fatti, dunque dato che il criterio della responsabilità civile per rischio professionale, al di là delle teorizzazioni della dottrina, non è mai stato realmente accolto, né prima, né dopo l’introduzione delle assicurazioni sociali (nonostante alcune, peraltro assai risalenti, indirette espressioni di quella, quali le fattispecie regolate dagli artt. 2049, 2050 e 2110 c.c.), si può affermare che, nel momento stesso in cui si attribuiva la suddetta giustificazione dell’obbligo di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, le teorie che si pronunciavano a favore dell’accoglimento di quel più avanzato criterio di imputazione della responsabilità, trovavano, sì, sostanziale legittimazione, ma venivano, al tempo stesso, neutralizzate nei loro effetti pratici e teorici, in quanto il datore restava comunque sollevato dalla responsabilità, e l’effetto innovativo poteva ritenersi limitato all’imposizione di detto obbligo assicurativo.

Comunque sia, la soluzione tecnica di stampo assicurativo, prescelta, è valsa anche ad accreditare la conce- zione degli eventi produttivi di infortunio sul lavoro (e, successivamente, di malattia professionale) come costo sociale inevitabile, destinato a controbilanciare i benefici dello sviluppo industriale e del progresso tecnologico; così come è valsa ad accreditare il carattere sostanzialmente transattivo della soluzione prescelta: per la precisione una scelta, destinata a durare, per effetto della quale il datore di lavoro sopporta, per il tramite, appunto, dell’assicurazione obbligatoria, il rischio del caso fortuito e della forza maggiore, ma i lavoratori, in cambio della maggior tutela, ricevono una tutela di carattere indennitario (in pratica, il ristoro soltanto parziale del danno subito).

9. - L’impostazione assicurativa dell’origine ha indubbiamente favorito che la specifica situazione venisse configurata in termini di “rapporto giuridico di valenza trilaterale”: cioè, di rapporto diretto a coinvolgere in un medesimo vincolo lavoratore assicurato, imprenditore assicurante e istituto assicuratore, e caratterizzata dalla interdipendenza tra obbligo contributivo e diritto alle prestazioni, secondo il proprium, appunto, delle assicurazioni commerciali. Tale concezione, comunque – ne va dato atto –, ha potuto trovare un aggiuntivo, non secondario supporto in quel basilare testo di legge che era (ed è) il codice civile del 1942: innanzitutto, per effetto dell’art. 1886, a termini del quale, in mancanza di norme speciali, è previsto che anche alle assicurazioni sociali si applichi la disciplina di diritto privato; ma anche per effetto dell’art. 1996, che espressamente richiama il diritto di surroga dell’assicuratore; o degli artt. 2117 e 2123, che prescrivono il vincolo di destinazione dei fondi speciali per la previdenza e assistenza.

A tale impostazione concettuale, peraltro, con l’avvento dell’ordinamento repubblicano ha avuto modo di contrapporsi, alimentata dai nuovi valori, incardinati nella Carta costituzionale del 1948, la configurazione di quel medesimo rapporto essenzialmente in termini di “servizio pubblico”; cioè di un servizio finalizzato alla tutela sociale, in presenza di situazioni generatrici non di situazioni di bisogno di qualsiasi genere o entità, ma solo in presenza di situazioni di bisogno socialmente rilevante.

E, tuttavia, anche dopo le modifiche apportate dalla legislazione ordinaria (in primis, il principio di automaticità), e dopo la nuova impostazione, impressa dalla Costituzione, la vischiosità della concezione tradizionale ha conservato un suo credito, potendo contare sul fatto che l’impianto assicurativo tradizionale continua a costituire parte dell’ossatura del sistema.

10. - Oggi, comunque, più di un fattore concorre a giustificare il superamento di quel risalente modello di tutela sociale: un modello calibrato, infatti, su esigenze e caratteri del mercato del lavoro, che, nel tempo, hanno progressivamente perduto gran parte del loro puntuale riscontro con l’attualità; ma soprattutto calibrato sul tipo di contratto di lavoro – quello, tradizionale di natura subordinata, a tempo pieno, continuativo – che non ha più il carattere di assoluta centralità che aveva in precedenza.

D’altra parte, la disciplina previdenziale che a tale storica tipologia di rapporto di lavoro si raccorda, è calibrata su un criterio selettivo essenzialmente meritocratico: basato, cioè, sull’entità dell’apporto tanto lavorativo, quanto contributivo del soggetto assicurato.

La conseguenza di tale concorso di fattori è che soggetti dediti ad attività di lavoro intermittenti, perché intervallate da più o meno frequenti periodi di disoccupazione (quali sempre più diffusamente sono quelle che caratterizzano la ormai risalente situazione critica del mercato del lavoro) rischiano di trovarsi di fronte a ridotte possibilità di tutela pensionistica o ad acquisire trattamenti economici di entità ridotta.

Per altro verso, i nuovi scenari socio-economici (globalizzazione, decentramento produttivo, invecchiamento demografico, eccetera) e, con essi, l’incremento, sempre meno sostenibile, dei costi di funzionamento del sistema, prospettano l’esigenza di ricalibrare impegni e funzioni dello Stato sociale.

11. - In tale problematico, contrastato contesto lo stori- co modello di welfare “assicurativo”, per sua stessa natura “selettivo”, non ha perso la sua funzione. Esso, tuttavia, appare inevitabilmente proiettato ver- so una dislocazione più periferica rispetto alla tradizionale posizione centrale per così lungo tempo occupata all’interno del sistema di protezione sociale nazionale, e destinata a lasciar spazi per interventi sociali di diversa natura, di fatto aventi carattere surrogatorio. La disciplina delle cosiddette assicurazioni sociali, in effetti, risulta intrecciarsi oggi con altre forme di protezione sociale.

Innanzitutto, con gli interventi, di diverso genere e provenienza – ma di pari essenzialità nella strutturazione del prevedibile, nuovo quadro –, quali quelli espressi dal circuito privato; ma anche attraverso uno “scambio” sempre più intenso tra “previdenza” e “assistenza” tanto pubblica, quanto privata.

Il futuro sembra aprirsi, in altri termini, ad una prospettiva caratterizzata da un sistema di protezione sociale da ricomporre su nuove basi: con ogni probabilità, quale risultante dalla combinazione (in via di massima, nelle miscele più varie) di prestazioni economiche e servizi; di prestazioni “a ristoro” e prestazioni “in prevenzione”; di misure di intervento pubblico, nelle quali il livello statale si combini con quello locale; di forme di protezione affidate all’iniziativa negoziale di privati e formazioni sociali.

12. - Così tratteggiato lo sfondo della scena, già ad un primo raffronto dei rispettivi ruoli dei due protagonisti (per avvalersi ancora una volta di una metafora) può cogliersi (per quanto riguarda la tematiche che interessa la presenta analisi) come il rapporto previdenziale abbia motivo di distinguersi dal rapporto di lavoro almeno sotto due profili essenziali: dal punto di vista strutturale, innanzitutto, stante l’articolazione interna che lo caratterizza; dal punto di vista funzionale, in secondo luogo, quel rapporto essendo “programmato” per una operatività destinata a trascendere temporalmente (almeno per quanto riguarda le tutele pensionistica, antinfortunistica, per la disoccupazione involontaria) la stessa durata del rapporto di lavoro. Quanto al primo aspetto, alcune preliminari puntualizzazioni risultano imposte già dallo stesso dato terminologico.

Nel linguaggio corrente, infatti, con l’espressione “rapporto previdenziale” suole farsi riferimento non già ad una situazione unitaria. Con tale espressione, piuttosto, si allude cumulativamente a un complesso di situazioni – attive e passive, strumentali o finalistiche, a efficacia immediata o a efficacia differita, reciprocamente interconnesse, coinvolgenti anche più soggetti –, le quali, pur non essendo diretta espressione del rapporto di lavoro o della disciplina giuridica dell’attività lavorativa in genere, nello svolgimento dell’attività lavorativa trovano la loro sostanziale giustificazione.

Si tratta di situazioni che, seppur distinte l’una dall’altra, risultano comunque collegate da un unico obiettivo: la tutela di chi, esercitando un lavoro – non importa se di natura autonoma, associata o subordinata –, possa trovarsi impedito, per effetto di un fatto pregiudizievole sopravvenuto e da lui indipendente, nel normale proseguimento della propria attività lavorativa, o, comunque, nel ricavare da essa il reddito normalmente destinato al sostentamento proprio e della propria fa- miglia.

Il mutamento di prospettiva determinato dalla Costituzione repubblicana, impone anche il riconoscimento, per coerenza, di una sostanziale divaricazione, all’in- terno del cosiddetto rapporto previdenziale, tra quanto attiene al profilo contributivo e quanto attiene, invece, al profilo che riguarda l’erogazione delle prestazioni.

E, infatti, è la parte attinente all’erogazione delle prestazioni quella che realizza concretamente l’obiettivo finale del servizio alla collettività, secondo i dettami costituzionali, mentre la parte di quel medesimo complesso, che riguarda in generale l’apprestamento delle risorse finanziarie necessarie perché l’erogazione delle prestazioni sia concretamente possibile, può considerarsi concettualmente non allo stesso livello: se non altro per la ragione che detto apporto finanziario delle parti può, in via di principio, essere surrogato, in tutto o in parte, da altre fonti di finanziamento (senza pregiudiziali, necessitate conseguenze, in ipotesi, sul regime delle prestazioni).

13. - Va preso atto, allo stregua di quanto sopra, che l’espressione terminologica correntemente in uso, “rapporto giuridico previdenziale”, ha una valenza semantica imprecisa, in quanto unitariamente riferibile a una realtà giuridica, che unitaria in realtà non è.

Tale realtà è, piuttosto, la risultante di due ben distinte situazioni, e tuttavia entrambe essenzialmente della stessa natura, tanto che quella stessa terminologia può essere indifferentemente (e correttamente) utilizzata per indicare sia l’uno che l’altro nucleo di quella stessa, complessa, polifunzionale realtà giuridica.

Il fatto che il “rapporto giuridico previdenziale”, dotato di una indiscutibile ideale prevalenza e centralità nel sistema, sia quello che intercorre tra gli enti previdenziali e i soggetti destinatari dell’erogazione delle prestazioni, non esclude, l’appartenenza alla medesima categoria concettuale anche del rapporto che ha ad oggetto l’obbligazione contributiva.

Quest’ultimo, infatti – sebbene abbia, nella maggior parte dei casi, un ambito soggettivo di riferimento più ampio (nel settore del lavoro subordinato soggetti contribuenti sono sia il datore di lavoro che il lavoratore), e con l’altro sia legato da un nesso, che solo apparentemente è di stretta interdipendenza giuridica (stante il principio di automaticità delle prestazioni, di cui all’art. 2116, comma uno, c.c.) –, incontrovertibilmente condivide il medesimo fine; e la concreta interferenza dell’entità dell’apporto contributivo sia con l’an, che con il quantum delle prestazioni ne è la prova tangibile.

Dunque, due distinte situazioni previdenziali elementari, ma in condizioni di innegabile, reciproca interrelazione – un “rapporto contributivo” e un “rapporto erogativo”, per dar loro, opportunamente, una distinta denominazione –, che solo apparentemente si instaurano in momenti diversi.

E, invero, il rapporto tra l’ente previdenziale e il soggetto protetto, nonostante quanto possa apparire a prima vista, non si instaura nel momento stesso in cui maturano i requisiti del diritto alle prestazioni destinate al predetto. Occorre distinguere, infatti, tra il “vincolo” (significativo di instaurazione del rapporto) e i relativi “effetti, tra i quali si colloca quell’effetto “tipico”, rappresentato dalla maturazione del diritto alla prestazione.

In realtà, come dimostrano proprio questi ultimi, il vincolo si instaura ben prima dell’effetto finale (la maturazione del diritto alle prestazioni).

Conseguenza di quel medesimo vincolo sono, infatti, già quelle situazioni in cui la legge riconosce al soggetto potenziale destinatario delle prestazioni, la titolarità di specifiche posizioni giuridiche attive, sicuramente strumentali, cui si contrappone correlata e specifica disciplina degli enti previdenziali.

Basti pensare agli obblighi di comunicazione, e alla responsabilità contrattuale che grava sull’ente, nel caso in cui fornisca informazioni inesatte; o al diritto del lavoratore a che l’ente previdenziale si attivi nei suoi confronti, affinché il proprio credito contributivo non si prescriva, e così via. D’altra parte, rispetto al rapporto di lavoro, il rapporto previdenziale – la cui componente “erogativa”, per la sua stessa natura, può operare sia in corso che (come si ricava dal suo fondamentale aspetto pensionistico, ma non solo), dopo la cessazione del rapporto di lavoro – può svolgersi, nella sua componente “contributiva” (ed è questa la seconda delle suaccennate particolarità), anche quando il rapporto di lavoro si sia risolto: è quanto stanno ad indicare istituti o complessi di regole, come la prosecuzione volontaria di assicurazione obbligatoria, la contribuzione volontaria, della ricongiunzione.


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