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PATERNITÀ E LAVORO

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di Irene di Spilimbergo

1. Una nuova percezione del ruolo paterno.

Il tema della genitorialità e rapporto di lavoro, ed in particolare quello di paternità e lavoro, è di grande attualità. Nell’ultimo ventennio, il ruolo paterno si è radicalmente modificato: al tradizionale stile paterno autoritario si è contrapposto un padre più partecipe fisicamente, ma soprattutto emotivamente, allo sviluppo psico-fisico del figlio sin dalle primissime fasi della vita. I padri di oggi sono più attivi e coinvolti dal loro ruolo, la nascita di un figlio è diventata una scelta sempre più consapevole e deliberata della coppia, di conseguenza entrambi i genitori sono più disponibili e desiderosi di prendersene cura. La consapevolezza dell’importanza della figura paterna nel processo di sviluppo cognitivo e affettivo dei bambini è cresciuta. Nei paesi occidentali, anche le politiche sociali riflettono, incoraggiano e incentivano una maggiore presenza dei padri nella vita familiare e nella cura dei figli, da cui l’attribuzione del diritto ai congedi nei primi anni di vita del bambino. La partecipazione del padre alle cure del bambino non è più considerata un’imitazione o una sostituzione della madre, ma un modo differente e al pari necessario di essere accanto al figlio. La descrizione del “padre di oggi” contiene elementi che, forse, non hanno nulla in comune con quelli del “padre di ieri”. Il nuovo padre, è diventato quindi, un padre affettivo, empatico, “da signore della guerra a padrone del significato degli affetti e dei conflitti, donatore di senso agli stati confusi ed enigmatici della vita interiore: un donatore di senso, un accompagnatore nel labirinto della crescita, una guida, una presenza empatica.” Nel 1975, la riforma del diritto di famiglia ha sancito il principio della parità giuridica dei coniugi e della potestà congiunta; ma in quegli anni, caratterizzati da grandi conquiste per le donne lavoratrici e madri (si pensi alle leggi n. 1204 del 1971 e n.903 del 1977), manca ancora una valutazione del padre lavoratore come partecipante alla cura dei figli, al di fuori del profilo strettamente economico di percettore di un reddito per tutto il nucleo familiare. Il termine “conciliazione” tra vita familiare e lavorativa appare per la prima volta nei documenti ufficiali dell’UE alla fine degli anni ‘80 del secolo scorso, tra le righe della Carta Comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori del 1989, nella parte in cui recita “è altresì opportuno sviluppare misure che consentano agli uomini e alle donne di conciliare meglio i loro obblighi professionali e familiari” . Oggi, parlare di “paternità” all’interno del diritto del lavoro, il cui principio cardine è la tutela del lavoratore, riflette il cambiamento.

2. Il Testo Unico del 2001 e profili giurisprudenziali.

Il legislatore ha recepito tali cambiamenti: il decreto legislativo n. 151 del 2001 e le successive modificazioni sanciscono ormai il diritto per entrambi i genitori di astenersi dal lavoro per la cura dei figli, nell’ottica di una responsabilità condivisa . Più specificamente, all’art. 28 del testo unico del 2001, per congedo di paternità (erroneamente chiamato anche permesso) si intende l’astensione dal lavoro da parte del lavoratore padre per tutta la durata del congedo di maternità o per la parte residua che sarebbe spettata alla lavoratrice madre in determinati casi specifici. Per tale congedo viene attribuita un’indennità pari all'80% della retribuzione e spetta nei seguenti casi: Morte o grave infermità della madre. La morte della madre dev’essere attestata mediante compilazione dell’apposita dichiarazione di responsabilità predisposta nella domanda telematica; la certificazione sanitaria comprovante la grave infermità va presentata in busta chiusa al centro medico legale dell’Inps, allo sportello oppure a mezzo raccomandata postale; Abbandono del figlio da parte della madre. L’abbandono (o mancato riconoscimento del neonato) da parte della madre dev’essere attestato mediante compilazione dell’apposita dichiarazione di responsabilità predisposta nella domanda telematica; Affidamento esclusivo del figlio al padre (art. 155 bis cod. civ.). L’affidamento esclusivo può essere comprovato allegando alla domanda telematica copia del provvedimento giudiziario con il quale l’affidamento esclusivo è stato disposto oppure comunicando gli estremi del provvedimento giudiziario ed il tribunale che lo ha emesso; Rinuncia totale o parziale della madre lavoratrice al congedo di maternità alla stessa spettante in caso di adozione o affidamento di minori. La rinuncia è attestata dal richiedente mediante compilazione dell’apposita dichiarazione di responsabilità predisposta nella domanda telematica. L’art. 28 del testo unico giunge oltre vent’anni dopo la sentenza n. 1 del 1987 della Corte Costituzionale, che, come è noto, aveva sancito l’illegittimità costituzionale dell’ art. 7 della legge n. 1204 del 1971, nella parte in cui non prevedeva il diritto all’astensione dal lavoro anche in favore del padre lavoratore, ove l’assistenza della madre al minore fosse divenuta impossibile per decesso o grave infermità . Si riteneva che la funzione dell’istituto dell’astensione dal lavoro non fosse solo quella di garanzia della salute della madre, ma anche e soprattutto di tutela del minore. Secondo la Corte, infatti, già la legge n. 903 del 1977, nel consentire l’astensione dal lavoro anche alle lavoratrici che avessero adottato oppure ottenuto in affidamento preadottivo, avrebbe operato uno «sganciamento dell'astensione dal lavoro dal fatto materiale del parto», per cui la funzione complessiva dell'istituto «viene ormai ad incentrarsi anche (ove dell'astensione benefici la madre naturale) od esclusivamente (ove si tratti invece di madre adottiva o affidataria) su quell'interesse di peculiare pregio costituzionale che […] è la tutela del minore». Pertanto, posto in primo piano «il bisogno del bambino ad una più intensa presenza della madre per la necessaria assistenza», sarebbe irragionevole «negare al padre – che proprio in funzione di tale assistenza può valersi della stessa astensione facoltativa – il diritto di avvalersi altresì, in caso di mancanza o grave malattia della madre, della astensione cosiddetta obbligatoria nei primi tre mesi».

3. Le più recenti riforme dell’istituto.

La legge n. 92 del 2012, riforma Fornero, pur non modificando il T.U. del 2001, aggiunge un congedo di paternità obbligatorio di due giorni, sicuramente non più derivato o alternativo, ma “proprio” ed autonomo, e tuttavia innegabilmente solo simbolico e certamente inadeguato. Il decreto legislativo n. 80 del 2015 raddoppia il numero dei giorni da due a quattro, ma le medesime perplessità rimangono. Tuttavia, ciò che caratterizza positivamente la riforma del 2015 sul fronte della tutela del padre è la progressiva parificazione di trattamento tra padre lavoratore subordinato, autonomo e libero professionista . Va ricordato che l'art. 5, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 80 del 2015, ha introdotto nell'art. 28 d.lgs. cit. il comma 1-bis, ai sensi del quale «le disposizioni di cui al comma 1, si applicano anche qualora la madre sia lavoratrice autonoma avente diritto all’indennità di cui all’articolo 66». I padri lavoratori iscritti alla gestione separata hanno diritto al congedo di paternità in presenza di condizioni analoghe a quelle previste per i padri lavoratori dipendenti. I lavoratori autonomi, per effetto della recente riforma di cui all’art. 66 T.U. maternità/paternità (ossia artigiani, commercianti, coltivatori diretti, coloni, mezzadri, imprenditori agricoli a titolo principale, pescatori autonomi della piccola pesca marittima e delle acque interne), da giugno 2015, possono beneficiare di una tutela economica in misura uguale a quella prevista per le lavoratrici autonome appartenenti alle stesse categorie. I padri lavoratori autonomi hanno diritto all’indennità di paternità in presenza di condizioni analoghe a quelle previste per i padri lavoratori dipendenti, con una eccezione: a differenza di quanto previsto per le altre categorie di padri lavoratori, la tutela non è prevista se la madre è lavoratrice iscritta alla gestione separata oppure non lavoratrice. La durata dell’indennità di paternità coincide con i periodi di congedo di maternità oppure di indennità di maternità non fruiti, rispettivamente, dalla madre lavoratrice dipendente o lavoratrice autonoma. La misura è analoga a quella prevista per le madri autonome (80% di un reddito giornaliero che varia in base alla tipologia di attività autonoma svolta: artigiano, commerciante, e così via), ed è corrisposta se il lavoratore è in regola con il pagamento dei contributi nel periodo stesso. Analogamente alle lavoratrici autonome, non vi è obbligo di astensione dal lavoro nei periodi indennizzati. Pertanto, qui il congedo di paternità si configura come un diritto che sorge al verificarsi di determinate condizioni, in via sussidiaria e non pienamente alternativa al congedo di maternità.

4. La tutela per i liberi professionisti.

L’art. 70 del d.lgs. n. 151 del 2001 recita: «alle libere professioniste, iscritte ad un ente che gestisce forme obbligatorie di previdenza di cui alla tabella D allegata al presente testo unico, è corrisposta un’indennità di maternità per i due mesi antecedenti la data del parto e i tre mesi successivi alla stessa» . La Corte Costituzionale, con sentenza n. 385 del 14.10.2005, aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma nel punto in cui non prevedeva che il padre libero professionista, affidatario di un minore, non potesse percepire in alternativa alla madre l’indennità di maternità, sottolineando il principio di non paritaria posizione tra madre e padre nel caso di filiazione biologica . La sentenza riguardava, però, un caso di adozione; ma se il fine ultimo dell'estensione piena del beneficio al padre era, come detto, «rappresentato dalla garanzia di una completa assistenza al bambino nella delicata fase del suo inserimento nella famiglia», il mancato riconoscimento del diritto del padre all'indennità avrebbe costituito «un ostacolo alla presenza di entrambe le figure genitoriali». Per quanto riguarda la filiazione biologica, dopo alcune pronunce, anche contrastanti, nella giurisprudenza di merito , è stato comunque affermato dalla Corte che non esiste una posizione paritaria tra madre e padre. Nel 2010, infatti, la sentenza della Corte costituzionale n. 285 ha respinto la questione di legittimità costituzionale dell’art. 70 del testo unico, nella parte in cui, nel fare esclusivo riferimento alle «libere professioniste», esclude il diritto del padre libero professionista di percepire, in alternativa alla madre biologica, l'indennità di maternità . A giudizio della Corte «l'uguaglianza tra i genitori è riferita a istituti in cui l'interesse del minore riveste carattere assoluto o, comunque, preminente, e, quindi, rispetto al quale le posizioni del padre e della madre risultano del tutto fungibili tanto da giustificare identiche discipline». La tutela della filiazione biologica, invece, a parere della Consulta, «oltre ad essere finalizzata alla protezione del nascituro, ha come scopo la tutela della salute della madre nel periodo anteriore e successivo al parto, risultando, quindi, di tutta evidenza che, in tali casi, la posizione di quest'ultima non è assimilabile a quella del padre». Ed infatti, l’art. 28, non assimila la posizione del padre naturale dipendente a quella della madre, «potendo il primo godere del periodo di astensione dal lavoro e della relativa indennità solo in casi eccezionali e ciò proprio in ragione della diversa posizione che il padre e la madre rivestono in relazione alla filiazione biologica». Sulle conclusioni della Corte costituzionale del 2010 è tornata recentemente la sentenza della Corte di Cassazione n. 8594 del 2016 che ha escluso (sempre in caso di paternità biologica) il diritto del padre avvocato di percepire, a carico della Cassa nazionale di previdenza ed assistenza forense, l’indennità di maternità ex art. 70 del d.lgs. n. 151 del 2001 in luogo della moglie. Qui la Suprema Corte ha affermato che, nonostante la fattispecie in oggetto abbia tratti di similitudine con la decisione della Corte Costituzionale del 2005, quella pronuncia non potrebbe considerarsi “auto-applicativa”, essendo «necessario un intervento del legislatore volto a delineare il punto di bilanciamento tra principio di parità di trattamento tra coniugi, diritti del bambino e protezione specifica della salute e dell’integrità psico-fisica della madre in ordine a tutte le provvidenze che sono connesse all’evento “nascita biologica”». In questo quadro incerto e discordante è intervenuto, con un’interpretazione restrittiva, l’art. 18, comma 1, del d.lgs. n. 80 del 2015, che ha inserito all’art. 70 del d.lgs. n. 151/01 il comma 3-ter, ai sensi del quale l’indennità di maternità prevista al comma 1 «spetta al padre libero professionista per il periodo in cui sarebbe spettata alla madre libera professionista o per la parte residua, in caso di morte o di grave infermità della madre ovvero di abbandono, nonché in caso di affidamento esclusivo del bambino al padre». Ai sensi, invece, dell’art. 72, comma 1, del testo unico, «in caso di adozione o di affidamento, l’indennità di maternità di cui all’articolo 70 spetta, sulla base di idonea documentazione, per i periodi e secondo quanto previsto all’articolo 26». Questa disposizione pone interessanti spunti di dibattito sui principi di parità, fungibilità e alternatività tra coniugi. Infatti, come si diceva, la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 385 del 2005, aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 72 del testo unico, non prevedendo che il padre libero professionista, in caso di affidamento di un minore, non potesse percepire, alternativamente alla madre, l’indennità di maternità/paternità. Secondo la Corte, occorre «garantire un'effettiva parità di trattamento fra i genitori - nel preminente interesse del minore - che risulterebbe gravemente compromessa ed incompleta se essi non avessero la possibilità di accordarsi per un'organizzazione familiare e lavorativa meglio rispondente alle esigenze di tutela della prole, ammettendo anche il padre ad usufruire dell'indennità di cui all'art. 70 del d.lgs. n. 151 del 2001 in alternativa alla madre». Pertanto, occorre domandarsi se sia ipotizzabile la diretta applicabilità della sentenza del 2005, su cui si era dubitato. Secondo una giurisprudenza di merito , la sentenza n. 385 del 2005 era inequivocabile nel riconoscere che in caso di adozione ed affidamento la posizione dei due genitori debba ritenersi identica, in nome della tutela del minore e della libera scelta organizzativa della famiglia adottiva; ma la natura di sentenza additiva avrebbe impedito il riconoscimento del diritto senza l’intervento del legislatore. Tuttavia, in secondo grado la pronuncia è stata riformata, rilevandosi che la sentenza della Consulta si poneva «tra quelle additive di garanzia, ovvero di automatica attuazione in forza del "rinvio" ad una identica, già regolata situazione» . Si inserisce, a questo punto, la sentenza n. 809 del 2013 della Suprema Corte, che chiaramente afferma che la pronuncia della Corte Costituzionale ribadiva la "diretta" operatività ed attuabilità del principio di uguaglianza, alternatività e fungibilità dei due genitori nell'ambito della disciplina dell'indennità di maternità che, come nel caso dell'adozione, sia mirata alla sola tutela della prole. Nella sentenza,tuttavia, il giudice di legittimità nega il diritto del libero professionista ricorrente all'indennità di paternità sul presupposto che il principio di alternatività e fungibilità esclude la possibilità di cumulare l'indennità da parte di entrambi i genitori, anche se uno è libero professionista e l'altro dipendente. Secondo la Cassazione, infatti, nelle adozioni, la disciplina dell’indennità di maternità risponde all’interesse primario della prole, che può ritenersi «adeguatamente tutelato attribuendo ad uno soltanto dei genitori l’indennità in esame».

5. Le “novità” della legge di bilancio 2018.

Da ultimo, va segnalata la legge n. 205 del 27 dicembre 2017, legge di stabilità 2018, nella quale la durata del congedo obbligatorio, prorogato per le nascite dell’anno 2018, per il padre lavoratore dipendente, per l’anno 2018, passa da 2 a 4 giorni, che possono essere goduti anche in via non continuativa. Il congedo obbligatorio è fruibile dal padre lavoratore dipendente entro e non oltre il quinto mese di vita del bambino, Tale congedo si configura come un diritto autonomo e pertanto è aggiuntivo a quello della madre e spetta comunque indipendentemente dal diritto della madre al proprio congedo di maternità. Per i giorni di congedo obbligatorio, il padre lavoratore ha diritto ad un’indennità giornaliera, a carico dell’INPS, pari al 100% della retribuzione. Si ricorda che per l’anno 2018 il padre lavoratore dipendente può altresì astenersi per un periodo ulteriore di un giorno (congedo facoltativo) previo accordo con la madre e in sua sostituzione in relazione al periodo di astensione obbligatoria spettante a quest’ultima. Per il giorno di congedo facoltativo, il padre lavoratore ha diritto ad un’indennità giornaliera, a carico dell’INPS, pari al 100% della retribuzione. È questa la principale novità introdotta nel 2018, dato che fino all’anno precedente i giorni di cui poteva usufruire erano solamente due. Non è prevista alcuna sanzione per il padre che non intende usufruire di questi giorni di congedo e lo stesso vale per l’azienda, a differenza della disciplina legata al congedo di maternità che prevede una sanzione penale per la mancata astensione obbligatoria della madre. Questo congedo, disciplinato come "nuovo congedo di paternità", ha suscitato qualche perplessità sia rispetto alla conformità alle indicazioni comunitarie ed alla comparazione con il panorama normativo europeo, sia per il suo inquadramento teorico e la sua pratica utilità, per come l’istituto è attualmente articolato. In ogni caso, non ci sono, al momento, precedenti giurisprudenziali in materia, anche in ragione del circoscritto interesse verso un beneficio quantitativamente molto modesto, con conseguente scarsa rilevanza economica anche sul piano del contenzioso. Il problema della conciliazione tra lavoro e vita familiare è dunque diventato negli ultimi anni uno snodo fondamentale delle politiche per il lavoro, anche in seguito ai cambiamenti demografici ed economici realizzati negli ultimi venti anni, contrassegnati in particolare dall’aumento dell’occupazione femminile. La maternità, la cura dei figli e il lavoro domestico sono ancora la causa principale dell’abbandono del lavoro da parte delle donne. Ciò dipende da vari fattori, primo fra tutti l’ancora ineguale distribuzione del lavoro di cura tra i partner. Quindi è ancora corretto continuare a considerare la presenza del padre indispensabile, ma soltanto integrativa rispetto a quella materna? L’introduzione di elementi legislativi e contrattuali che favoriscono la responsabilità condivisa nella crescita dei figli risponde ad un duplice scopo. Da un lato favorisce processi di condivisione tra i genitori, dall’altro rende meno “conveniente” il lavoro maschile, in quanto assumendo su di sé parte di quegli elementi di tutela della procreazione tipici del lavoro femminile, lo rende simile ad esso per “costo”.

6. Il “silenzio” della contrattazione collettiva.

A differenza della “movimentata” evoluzione dell’istituto sul piano normativo e giurisprudenziale, la contrattazione collettiva non dà rilevanza al congedo di paternità, così come, d’altra parte, fa più in generale con la tutela della genitorialità. Da un’analisi dei più diffusi e rappresentativi contratti collettivi stipulati per le principali categorie produttive in tema di tutela della maternità, emerge un puro e semplice richiamo da parte dell’autonomia collettiva delle norme di legge applicabili senza l’introduzione di alcuna ulteriore o diversificata tutela. In particolare, il rinvio alla legge è in riferimento al testo unico in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità del 2001, e mai alla normativa specifica recentemente predisposta in materia di congedi di paternità. Al di là delle novità introdotte dall’art. 1, co. 354, l. 11 dicembre 2016, n. 232 che certo non sono ancora inserite nei contratti collettivi non ancora rinnovati, la disciplina specifica sul congedo di paternità, introdotta già con la l. 9 dicembre 1977, n. 903 (art. 6 bis, co. 1 e 2) e più recentemente integrata dall’art. 4, co. 24, lettera a), della l. 28 giugno 2012, n. 92 e dall'articolo 1, co. 205, della l. 28 dicembre 2015, n. 208, non è richiamata neanche nei contratti collettivi appena rinnovati. 7. Un sintetico sguardo conclusivo ad alcuni paesi europei. I padri lavoratori hanno dunque numerose opportunità per condividere con le mamme le gioie e le fatiche della cura dei figli. In molti altri Paesi europei il congedo di paternità è un diritto già da molti anni: - in Danimarca ha una durata di due settimane e va fruito entro le prime 14 settimane di vita del bambino; - in Francia i padri hanno diritto a 11 giorni di congedo di paternità che deve essere fruito entro quattro mesi dalla nascita del bambino; - in Norvegia il congedo parentale è di 54 settimane, di cui nove sono per la madre (equiparabili al congedo di maternità) e sei sono per il padre (quota papà), mentre le restanti 39 settimane sono un diritto che può essere utilizzato da entrambi i genitori; - nel Regno Unito è stato recentemente introdotto un congedo di paternità pari a due settimane delle quali il lavoratore ha facoltà di usufruire in tranche di una settimana, entro 8 settimane dalla nascita del figlio, ricevendo un’indennità fissa o il 90% del reddito medio settimanale, se inferiore; - in Spagna il congedo di paternità è di 15 giorni consecutivi (cui sono aggiunti 2 giorni in caso di nascite multiple) ed è retribuito al 100 %; - in Svezia il congedo per i papà è pari a 10 giorni e viene retribuito all’80%; - in Portogallo i padri hanno diritto a 20 giorni di cui 10 obbligatori; - in Belgio il congedo obbligatorio dura 3 giorni, mentre quello facoltativo arriva fino a 10.


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