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LA PREVIDENZA DEI LIBERI PROFESSIONISTI TRA CASSE GESTIONE SEPARATA: LE ACTIONES FINIUM REGUNDORUM

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di Carlo Alberto Nicolini

1. – Le pretese dell’INPS nei confronti dei liberi professionisti.

- Le pretese che, a seguito della cosiddetta “Operazione Poseidone”, l’INPS ha avanzato nei confronti di molti soggetti esercenti attività libero-professionali,reclamando la contribuzione al-la Gestione separata sui redditi non assoggettati o assoggettati solo in parte alla contribuzione in favore delle casse di categoria, hanno generato un nutrito contenzioso, sul quale la giurisprudenza di merito si è divisa. La Corte di cassazione, invece,ha ritenuto che la ratio sottesa all’istituzione di detta Gestione imponga l’accoglimento delle pretese dell’Istituto. Giova dunque verificare se tale autorevole arresto abbia definitivamente segnato l’esito del contenzioso o se, al contrario, alcuni rilevanti interrogativi rimangano, a tutt’oggi, aperti.

2. –Gestione separata e universalizzazione della tutela.

- L’art.2, co. 26, l. n. 335/1995, ha istituito la Gestione separata al dichiarato fine dell’«estensione dell’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti»alle attività di lavoro non subordinato, rimaste escluse sia dai regimi pensionistici all’epoca operanti, sia da quelli che sarebbero stati di lì a poco istituiti, con la creazione dei nuovi enti, in attuazione della delega legislativa contenuta nel precedente comma 25: la norma, dunque, senz’altrosi ispira a una«logica universalistica» . In realtà, tale logica è stata perseguita dal legislatore con modalità tutt’altro che lineari, mediante un metodo efficacemente definito in dottrina dell’ “universalismo per sommatoria”. La struttura pluralistica che caratterizza il sistema previdenziale, invero, vede i singoli regimi definire i rispettivi ambiti di applicazione con parametri diversi (natura giuridica del rapporto di lavoro o del relativo reddito, tipologia del datore di lavoro o committente, contenuti dell’attività professionale, etc.), spesso tra loro mal coordinati. Le disposizioni che hanno inteso progressivamente estendere la tutela a tutte le forme lavorative sussumibili nell’art. 38, co. 2, Cost., dunque, hanno finito per creare un complesso puzzle, le cui tessere non di rado si incastrano a fatica, rischiando sia di creare sovrapposizioni, sia di lasciare spazi vuoti. Al riempimento di tali spazi – che, nel variegato universo del lavoro non subordinato, nel 1995 risultavano assai ampi –ha appunto inteso provvedere la legge n. 335, la quale, come appena ricordato, all’istituzione della Gestione separata ha affiancato la delega contenuta nell’art. 2, co. 25, poi attuata con il d.lgs. n. 103/1996. Quest’ultimo ha imposto a tutte le categorie di professionisti, la cui attività è subordinata all’iscrizione in albi o elenchi, e che all’epoca fossero prive di tutela, di assoggettarsi ad un regime pensionistico: a tal fine, l’art. 3 del decreto ha consentito ai rispettivi enti esponenziali di scegliere se istituire nuovi enti previdenziali,ovvero confluire negli enti già esistenti, o nell’ente pluricategoriale di cui al successivo art. 4 o infine nella Gestione separata; con la fondamentale precisazione che, in mancanza di tale scelta, la confluenza nella Gestione si sarebbe(e in effetti per alcune categorie si è) realizzata ex lege.

3. – La definizione “per sottrazione” dell’ambito di applicazione della Gestione separata.

– Nella logica dell’universalizzazione legislatore affida dunque a detta Gestione un ambito di applicazione residuale, in funzione di “chiusura” di sistema. Il rilevo di tale funzione è determinante per l’esatta delimitazione delle due principali categorie ricomprese nella Gestione, che il citato art. 2, co.26, l. n. 335/1995, rispettivamente individua: in coloro che esercitano «per professione abituale, ancor-ché non esclusiva, attività di lavoro autonomo»,come tale qualificata dal testo unico delle imposte sui redditi, exart. 49, co. 1, oggi art. 53, co.1, d.p.r. n. 917/1986, e dunque anche (e soprattutto) nei liberi professionisti; nonché nei collaboratori coordina-ti e continuativi, anch’essi identificati dalla disciplina fiscale dei relativi redditi, ex art 49, co. 2, lett. a), oggi art. 50, co. 1, lett. c-bis) del medesimo decreto. Entrambe le fattispecie vanno infatti concretamente definite per sottrazione:e cioè escludendo dalle due macro-categorie identificate dalle norme fiscali tutte le aree ri-cadenti nell’ambito di applicazione di altri regimi pensionistici. Con riferimento ai professionisti, tale“sottrazione”è espressamente confermata dall’art. 18, co. 12, d.l. n. 98/2011, conv. l. n. 111/2011, il quale ha autenticamente interpretato il suddetto comma 26 «nel senso che i soggetti che esercitano per professione abituale, ancorché non esclusiva, attività di lavoro autonomo tenuti all'iscrizione presso l'apposita gestione separata INPS sono esclusivamente i soggetti che svolgono attività il cui esercizio non sia subordinato all'iscrizione ad appositi albi professionali [e per i quali, dunque, non vengono istituite casse di previdenza] ovvero attività non soggette al versamento contributivo agli enti di cui al comma 11 [e cioè alle casse di previdenza di diritto privato ex d.lgs. n. 509/1994 e n. 103/1996] in base ai rispettivi statuti e ordinamenti (…)». La disposizione esclude altresì i «soggetti di cui al comma 11», e cioè i titolari di pensioni erogate da detti enti di diritto privato,i quali, se ancora esercitano la professione percependone redditi, devono comunque rimanere iscritti al regime di categoria e pagare un contributo soggettivo non inferiore alla metà di quello ordinario . Si conferma dunque che le attività libero professionali si sottraggono all’INPS qualora ricadano nell’ambito di operatività di una cassa, risultando«soggette al versamento contributivo» in favore di questa. Sul significato da attribuire a tale fondamentale riferimento si tornerà. Sin d’ora, invece, si rileva come analoga regola valga per le collaborazioni continuative e coordinate che, pur non nominate dall’art. 18,egualmente si sottraggono all’INPS, se risultino assoggettate ad un regime di categoria (es. INPGI e ENPAM). Perseguono, infine, la stessa finalità di colmare le lacune del sistema le norme che hanno esteso l’operatività della Gestione ad ulteriori categorie di soggetti, quali gli incaricati di vendite a domicilio ,gli associati in partecipazione con apporto di lavoro ,coloro che hanno prestato lavoro accessorio o che oggi svolgono attività in base alle discipline del contratto di lavoro occasionale o del libretto famiglia , i fruitori di borse di studio e assegni di ricerca . Nonostante qualche contraddizione , quindi, negli anni il legislatore ha confermato la vocazione universalistica della Gestione, alla quale l’art. 25, d.lgs. n. 116/2017, ha da ultimo affidato anche la tutela previdenziale dei magistrati onorari. La norma non ha però mancato di “sottrarre” all’INPS quella significativa componente della categoria costituita dagli avvocati, per i quali è stata prevista la contribuzione alla Cassa forense: la scelta è coerente con il criterio interpretativo che-considera di competenza delle casse tutte le attività che comunque richiedano– co-me, per gli avvocati,l’attività di giudice onorario effettivamente richiede– l’utilizzazione del bagaglio culturale proprio della professione . E’ noto, infine, come la spinta verso l’universalizzazione non abbia interessato soltanto l’assicurazione invalidità, vecchiaia e superstiti, ma abbia coinvolto anche le assicurazioni “minori” per malattia, maternità, assegni per il nucleo familiare e disoccupazione, anch’esse progressivamente introdotte in favore degli iscritti alla Gestione,pur con differenziazioni e limiti significativi .

4. – La dimensione (anche) “oggettiva” dell’universalizzazione.

– Le Sezioni Uni-te hanno a suo tempo osservato (e l’osservazione, come si vedrà, incide fortemente sulla recente giurisprudenza della Suprema Corte) che, a differenza di quanto previ-sto per le altre gestioni dell’INPS,«caratterizzate da una definizione compiuta del proprio campo di applicazione, corrispondente all’attività lavorativa svolta», nell’art. 2, co. 26, l. n. 335/1995, «il riferimento è invece eteronomo e supportato esclusivamente dalla norma fiscale», per cui«nella Gestione separata l’obbligazione contributiva è basata sostanzialmente sulla mera percezione di un reddito» .Con la necessaria precisazione che, come già detto,non deve trattarsi di un reddito qualsiasi, bensì di un reddito qualificato, oltre che dall’elemento positivo della sussumibilità nelle discipline fiscali richiamate, anche dall’elemento negativo della non riferibilità ad attività comprese nel campo di applicazione di altro regime di categoria. Tale rilievo ha portato ad osservare come l’operazione di universalizzazione vada intesa non solo in senso soggettivo, e cioè come rivolta a chi era completamente privo di tutela, ma anche – e soprattutto – in senso oggettivo, e cioè come riferita ai redditi non assoggettati altrimenti a contribuzione previdenziale, ancorché fruiti da soggetti già iscritti ad altra gestione, come confermato anche dall’art. 6, d.m. n. 281/1996, che sottrae agli obblighi nei confronti della Gestione soltanto«i redditi già assoggettati ad altro titolo a contribuzione previdenziale obbligatoria». Si evidenzia, in tal modo, come, accanto al finalità di estendere la tutela, il legislatore persegua in maniera non meno incisiva quella di ampliare la base imponibile e dunque, come egualmente rilevato dalle Sezioni unite, di incrementare le entrate contributive. Sull’imposizione si concentralo stesso art. 18, co.12, d.l. n. 98/2011, che, intervenendo successivamente sia al decreto n. 281, sia alla citata pronuncia delle Sezioni unite, sembra tuttavia introdurre un elemento di novità, giacché abbandona il riferi-mento al reddito, per richiamare, più genericamente, le «attività non soggette al versamento contributivo»: rimane così aperta la possibilità di affermare (si vedrà poi se e con quanto fondamento) che anche un’imposizione non calibrata sulla no-zione di reddito, ma comunque riferita agli emolumenti derivanti dall’attività professionale,consenta la “sottrazione” agli obblighi imposti per la Gestione separata.

5. – La doppia iscrizione (e contribuzione) all’INPS e alla cassa di categoria.

- Le Sezioni unite ricordano che, a seguito della scelta del legislatore di assoggettare a contribuzione tutte le attività produttrici di reddito,l’iscrizione alla Gestione INPS può risultare, a seconda dei casi, «“unica”, in quanto corrispondente all’unica attività svolta, oppure “complementare” a quella apprestata dalla gestione a cui il soggetto è iscritto in relazione all’altra attività espletata». Ciò, in realtà, costituisce applicazione del principio generale, in forza del quale lo svolgimento, da parte dello stesso soggetto, di distinte attività, ricadenti nell’ambito di operatività di regimi previdenziali diversi, impone una corrispondente pluralità di iscrizioni e contribuzioni. Tale principio–salva la particolare deroga introdotta in favore degli amministratori degli enti locali – viene espressamente ribadito e regolato dalla disciplina delle-Gestione separata, che applica ai soggetti iscritti ad altre forme di previdenza obbligatoria e ai pensionati un contributo i.v.s.più basso, rispetto a coloro che vantano l’iscrizione unica; e nel contempo li sottrae alle assicurazioni “minori”. L’applicazione di tale principio assume particolare rilevanza per i professionisti iscritti alle casse,per i quali,però,va anche detto che le attività e i corrispondenti emolumenti eventualmente esclusi dal regime di categoria normalmente assumono un rilievo marginale. Di conseguenza, per costoro l’iscrizione “complementare” all’INPS è spesso suscettibile di dar luogo ad accrediti contributivi altrettanto marginali e discontinui,con la conseguenza che la questione dell’“improduttività” ai fini delle prestazioni – già segnalata, in via generale, come una delle problematiche di maggior rilievo poste dalla disciplina della Gestione –si propone in maniera rilevante. A rigore tale circostanza non comporta alcun profilo di illegittimità della disciplina: la Corte costituzionale insegna infatti che il principio solidaristico giustifica l’obbligo contributivo, anche quando l’accesso alle prestazioni sia«altamente improbabile» . Tuttavia, non può non rilevarsi come una simile frammentazione penalizzi i professionisti che contestualmente svolgano attività plurime, sia rispetto a coloro che, a parità di reddito complessivo, possano far confluire tutti i frutti del proprio lavoro nella cassa di riferimento;sia rispetto a chi, per aver svolto le attività estranee alla professione in periodi non coincidenti con quelli di iscrizione alla cassa, possa alla fine valorizzare tutti gli accrediti contributivi grazie agli strumenti del-la ricongiunzione, della totalizzazione o del cumulo gratuito. Se infine si considera che l’ammontare del contributo dovuto all’INPS è negli anni aumentato, in maniera tale da comportare oneri spesso maggiori di quelli derivanti dalla contribuzione alle casse, deve prendersi atto di come, rispetto al passato, l’interesse dei professionisti sia radicalmente mutato: se, infatti, prima della creazione della Gestione separata affermare l’estraneità di determinate attività al campo di applicazione del regime di categoria significava liberare totalmente i relativi emolumenti dall’imposizione, oggi significa invece sottoporli alla contribuzione in favore dell’INPS, con effetti che, non di rado, per il professionista appaiono assai meno favorevoli di quelli che deriverebbero dal versamento al proprio ente.

6. – Il campo d’applicazione della Gestione separata è concretamente determinato dalle discipline dei regimi di categoria.

– Da quanto osservato emerge che, in ultima istanza, per accertare se determinate attività siano o meno assoggettate alla Gestione separata la disciplina davvero rilevante è quella che regola l’ambito di applicazione della cassa alla quale va iscritto il professionista che la esercita . Per individuare tali attività, le più importanti indicazioni da “spendere”nei confronti di eventuali pretese dell’INPS rimangono dunque quelle che provengono dalla giurisprudenza formatasi nel diverso contenzioso che, nonostante tutto, ancor oggi professionisti continuano a promuovere, per sottrarsi alle proprie casse. Nonostante significative oscillazioni , la giurisprudenza ormai maggioritaria– considerata l’evoluzione che ha interessato tutte le professioni, oggi profondamente di-verse, rispetto all’epoca di emanazione delle leggi regolatrici, per contenuti, modalità di esercizio, ampiezza e diversificazione dei servizi offerti, richiesta di competenze multidisciplinari –comprende nella nozione di attività professionale di competenza delle casse,«oltre all'espletamento delle prestazioni tipicamente professionali (ossia delle attività riservate agli iscritti negli appositi albi) anche l'esercizio di attività che, pur non professionalmente tipiche, presentino, tuttavia un "nesso" con l'attività professionale strettamente intesa, in quanto richiedono le stesse competenze tecniche di cui il professionista ordinariamente si avvale nell'esercizio dell'attività professionale e nel cui svolgimento, quindi, mette a frutto (anche) la specifica cultura che gli deriva dalla formazione tipo logicamente propria della sua professione» . Tale nozione,dalla stessa giurisprudenza considerata «valida per tutte le categorie»,è dunque suscettibile di estendere in maniera significativa l’ambito di operatività dei regimi professionali, in maniera tale da escludere solo quelle attività «che non hanno nulla in comune con l’esercizio della professione» assicurata . Ancorché molte fattispecie– tra le quali quella, di notevole rilevanza pratica, dell’amministratore di società – rimangano di incerta qualificazione , è indubbio come tale orientamento, nella misura in cui amplia il catalogo delle attività «soggette a versamento contributivo agli enti (…) in base ai rispettivi statuti e ordinamenti»ex art. 18, co. 12, d.l. n. 98/2011, è suscettibile di realizzare un significativo ampliamento di competenze in favore delle casse, con corrispondente erosione del campo di applicazione della Gestione separata. Tale spostamento dei confini tra le aree di competenza dei regimi di categoria e di quello dell’INPS non contraddice la logica dell’universalizzazione, né nella sua dimensione soggettiva né in quella oggettiva , ed anzi presenta connotazioni positive. Oltre a cogliere con efficacia la realtà attuale delle professioni, esso infatti determina effetti benefici per i regimi di categoria, giacché, giacché, ampliandone le competenza, ne rafforza la stabilità .Nel contempo, tale orientamento spesso con-sente l’accentramento presso la cassa di tutta la posizione previdenziale dell’iscritto, evitando le penalizzazioni che, come ricordato,normalmente accompagnano l’iscrizione “complementare” all’INPS.

7. – Le discipline che prevedono la non iscrizione alle casse, pur in presenza di attività di natura professionale.

– I regimi di categoria, tuttavia, non disciplinano in maniera uniforme le attività riconducibili alla professione: in particolari situazioni, invero, molti di questi consentono agli interessati di non iscriversi e non pagare, ovvero di pagare solo in parte la contribuzione; o addirittura impongono tale esclusione, anche in caso di svolgimento di attività incontestabilmente riferibili alla professione protetta. Gli effetti che tali normative determinano, in termini di possibile(re)inclusione nel campo di applicazione della Gestione separata, costituiscono il principale themade cidendi del contenzioso generato dall’“Operazione Poseidone”. Le fattispecie interessate sono diverse ma, semplificando al massimo, le più ricorrenti possono essere ricondotte a tre tipologie. Un primo gruppo interessa le ipotesi nelle quali la disciplina di categoria prevede la non iscrizione e non contribuzione, ovvero l’iscrizione e contribuzione facoltativa, per i tirocinanti o praticanti, ancorché la relativa attività già sia produttiva di reddito. Non essendo costoro iscritti all’albo professionale, la cassa non li assoggetta ad alcun onere, neppure per contribuzione integrativa . Una seconda tipologia è quella prevista dagli ordinamenti di molte casse, per le ipotesi in cui non si ravvisi la continuità dell’esercizio dell’attività professionale, che si considera esistente solo al raggiungimento di determinati livelli minimi di reddito e/o fatturato, variamente quantificati dalle singole discipline di riferimento (normalmente si procede con delibere degli enti). In questi casi, tuttavia, il professionista “discontinuo”, in quanto iscritto all’albo, deve comunque pagare il contributo integrativo calcolato sul fatturato professionale realizzato . Ad una terza tipologia va ricondotta la disciplina di INARCASSA: l’art. 3, l. n. 179/1958, come sostituito dall’art. 2, l. n. 1046/1971, e l’art. 21, co. 5, l. n. 6/1981, nonché, oggi,l’art.7, co.5 dello Statuto dell’Ente,hanno vietato l’iscrizione agli ingegneri e architetti che, pur iscritti all’albo e regolarmente esercenti la professione, semplicemente vantino l’iscrizione ad un altro regime previdenziale, in ragione del contemporaneo svolgimento di una distinta attività lavorativa. La particolarità di tale esclusione sta nel fatto che essa è imposta solo in ragione di tale contemporanea iscrizione, mentre rimangono del tutto indifferenti sia il carattere continuativo o meno dell’attività svolta, sia ogni altra sua caratteristica, e dunque anche il quantum di reddito o fatturato da questa ricavati . Anche in questi casi è comunque dovuto il contributo integrativo, per solo il fatto dell’iscrizione all’albo. La principale eccezione che, nelle controversie aventi ad oggetto il secondo e terzo gruppo di fattispecie, viene opposta alle pretese dell’INPS, si basa appunto sulla circostanza dell’assoggettamento al contributo integrativo, che dovrebbe far considerare le attività comunque«soggette al versamento contributivo» in favore del regime di categoria,l’art. 18, co, 12, d.l. n. 98/2011, e quindi sottratte alla Gestione se-parata.

8. – La Suprema Cortee i professionisti esclusi da INARCASSA.

– Con una serie di decisioni tra loro conformi, tutte riferite ai professionisti esclusi da INARCASSA, la Cassazione ha tuttavia accolto la contraria tesi dell’INPS . Le pronunce attribuiscono rilievo decisivo alla ratio dell’art. 2, co. 26, l. n. 335/1995, il quale, con l’istituzione della Gestione separata, ha«inteso non solo estendere la copertura assicurativa a coloro che ne erano completamente privi, ma anche a coloro che ne fruivano solo in parte, vale a dire a coloro che, pur svolgendo due diversi tipi di attività, erano assicurati, dal punto di vista previdenziale, so-lo per una delle due, facendo quindi in modo che a ciascuna attività corrispondesse una forma di assicurazione». Secondo la Corte, considerata tale finalità di «estendere la copertura assicurativa», l’interpretazione per la quale l’art. 18, co. 12, del decreto n. 98, consentirebbe di sottrarre anche all’INPS attività già prive di detta copertura nel regime di categoria «finirebbe per tradire la finalità universalistica dell’istituzione delle gestione se-parata e si porrebbe in contrasto con la sua tipica modalità di funzionamento, che, come si è detto, collega l’obbligazione contributiva alla mera percezione di un reddito e mette a capo di una posizione previdenziale che può essere unica oppure complementare a seconda che l’iscritto svolga o meno un’attività lavorativa». Sottolineando come il significato di detta norma di interpretazione autentica debba essere «ricavato per il tramite della sua congiunzione con la disposizione interpretata, ossia la l. n. 335 del 1995, art. 2, comma 26», la Corte ribadisce dunque esse-re«la ratio di quest'ultima ad imporre che l'unico versamento contributivo rilevante ai fini dell'esclusione (…) sia quello suscettibile di costituire in capo al lavoratore autonomo una correlata posizione previdenziale». Dunque, ai fini della “sottrazione” alla Gestione, il riferimento al «versamento contributivo» contenuto dell’art. 18, co. 12,d.l. n. 98/2011, deve intendersi limitato al solo contributo soggettivo e non va, invece, esteso a quello integrativo, che è dovuto «in difetto di iscrizione alla Cassa» e, conseguentemente, «non [può] mettere capo alla costituzione di alcuna posizione previdenziale a beneficio del professionista che è tenuto a corrisponder-lo». Né – prosegue la Corte – ha rilevanza il fatto che il contributo integrativo abbia recentemente acquisito, anche presso INARCASSA, idoneità ad incidere sulla posizione previdenziale: la disposizione che, nel Regolamento dell’ente, ne consente la computabilità sul montante contributivo, è nella specie irrilevante per-ché,presupponendo l’avvenuta iscrizione all’ente,è inapplicabile alla fattispecie. Sul criterio che induce la Corte ad escludere la sussumibilità del contributo integrativo nella nozione di «versamento contributivo» ex art. 18, co.12, d.l. n. 98/2011, va fatta chiarezza. Non sembra, invero, che la decisione attribuisca a detto contributo natura «mera-mente … fiscale», come pure ritenuto in dottrina, a commento delle decisioni in esame : una simile qualificazione– alla quale la Corte non accenna in alcun modo – va d’altronde contestata, dovendo riconoscere al contributo integrativo natura di vero e proprio contributo previdenziale, al pari di quello soggettivo. Entrambe le tipologie di contribuzione, invero, perseguono la medesima finalità di «contribuire esclusivamente agli oneri finanziari del regime previdenziale categoriale» , esattamente colta dalla Corte anche per il contributo integrativo : entrambe, dunque,sono estranee alla logica e al campo di applicazione dell’art. 53 Cost.. Né natura fiscale può essere attribuita al contributo integrativo, per distinguerlo da quello soggettivo, in relazione al fatto che esso dà luogo ad un «versamento “sterile”», che non incide sulla posizione pensionistica dell’interessato, adempiendo ad una mera funzione solidaristica : detta funzione, invero, è propria di ogni contribuzione previdenziale, e dunque anche del contributo soggettivo, il quale, peraltro, può egualmente risultare “sterile”, non solo in via di fatto, come avviene quando il lavoratore non raggiunge i requisiti minimi per la pensione, ma anche in ragione di discipline che,in determinate circostanze ne precludono a priori anche la mera potenzialità di costituire accrediti utili; ciò accade, in particolare,quando detto contributo si trasforma in apporto di mera solidarietà, risultando imposto, in misura mino-re rispetto a quella ordinaria, sui redditi eccedenti il massimale imponibile. Nel contempo, anche la species contributo integrativo è suscettibile di dar luogo ad accrediti sulla posizione previdenziale, come conferma, prima ancora che la disciplina di INARCASSA, l’art. 8, co.3, d.lgs. n. 103/1996,modificato dalla l. n. 133/2011, che consente a tutti gli enti previdenziali di diritto privato di destinare una quota parte di detto contributo all’incremento del montante individuale. D’altronde, lo stesso legislatore espressamente include la contribuzione integrati-va tra le materie oggetto di potestà normativa di detti enti: inclusione che, invece, sarebbe ben difficile da giustificare, qualora l’obbligazione avesse natura fiscale. Ed ancora, nessuno dubita della devoluzione al giudice del lavoro delle relative controversie, che,in ipotesi di riconosciuta natura fiscale, sarebbero invece destina-te alla giurisdizione tributaria. Le osservazioni sulla natura del contributo integrativo potrebbero continuare. In questa sede interessa tuttavia rilevare che le decisioni della Corte si fondano-non su considerazioni relative a detta natura, ma solo sul fatto che,nel caso di specie, il contributo integrativo «non possa mettere capo alla costituzione di alcuna posizione previdenziale»,non consentendola «copertura assicurativa»: le sentenze considerano cioè determinanti gli effetti che,nel caso concreto, il contributo integra-tivo realizza, o meglio non realizza, in termini di accrediti su una posizione previdenziale,almeno«potenzialmente» utili ai fini pensionistici.

9. – Alcuni interrogativi aperti. Sull’interpretazione letterale …

-Dette sentenze valorizzano dunque il profilo, per così dire, più nobile dell’operazione attuata dal legislatore, costituito appunto dalla logica dell’universalizzazione della tutela; le stesse, tuttavia, lasciano aperti importanti interrogativi, che riguardano, in primo luogo, il significato letterale dell’art. 18, co.12, d.l. n. 98/2011, conv. l. n. 111/2011. Si è osservato come la norma abbia individuato le fattispecie da sottrarre all’INPS facendo riferimento non più all’imposizione sui redditi prodotti, ma alle «attività non soggette al versamento contributivo», senza altra specificazione. Appare in effetti difficile affermare che la contribuzione integrativa–gravante non sul reddito netto, bensì sul fatturato lordo e quindi sull’intero emolumento– non possa essere egualmente qualificata in termini di assoggettamento a contribuzione delle «attività»da tale emolumento retribuite. L’utilizzazione del sintagma «attività non soggette al versamento contributivo» –che il comma 12 dell’art. 18 inserisce senza riferimenti né alla tipologia della contribuzione, né alla sua utilità fini delle prestazioni, marcando così una netta differenza rispetto a quanto invece previsto dal precedente comma 11, che espressamente nomina il solo contributo soggettivo –costituisce dunque argomento per assumere che il legislatore non ha inteso distinguere tra le varie tipologie di contribuzione . A meno che non si voglia negare al contributo integrativo natura di «versamento contributivo», e cioè di contributo previdenziale: il che, però, come già visto, non sembra affatto sostenibile, né viene sostenuto dalla Suprema Corte. Se così è, viene anche meno la certezza con la quale le sentenze affermano che dal riconoscimento della pretesa dell’INPS non discenderebbe «alcuna duplicazione di contribuzione», affermando il contributo integrativo «è ripetibile nei confronti del beneficiario della prestazione professionale e dunque è in realtà posto a carico di terzi estranei alla categoria professionale ». Quella avente ad oggetto il pagamento del contributo integrativo, invero,è e rimane un’obbligazione imputata al solo professionista, unico soggetto passivo ed unico responsabile del pagamento.La facoltà di ripetere l’importo dal cliente, infatti, opera soltanto sul rapporto contrattuale di prestazione d’opera, ed è quindi ininfluente sull’obbligazione contributiva, che rimane ferma anche se detta facoltà non viene concretamente esercitata.Sotto tale profilo, dunque, il contributo integrativo finisce per costituire null’altro che una componente economica del costo della prestazione, al pari di quello soggettivo: con l’unica differenza che, per il primo, è con-cessa al professionista la possibilità di evidenziarne l’importo in fattura. Si rilevi, peraltro, tale modalità di recupero dei costi previdenziali è esattamente la stessa con la quale l’iscritto alla Gestione separata può ripetere dal cliente quota parte dell’unico contributo che,impostogli sul reddito, è utile ai fini pensionistici esattamente come il contributo soggettivo destinato alle casse . Se, dunque, neppure il profilo della ripetibilità è a rigore suscettibile di escludere la sussumibilità del contributo integrativo nella nozione di «versamento contributi-vo», bisogna ammettere che la soluzione offerta dalla Corte effettivamente provoca una doppia imposizione sull’attività svolta. Si aggiunga che l’utilizzazione, nella stessa norma di interpretazione autentica, dell’avverbio «esclusivamente», riferito agli obblighi verso la Gestione Separata, suggerisce un’interpretazione tesa a restringere non la nozione di «versamento contributivo», come quella accolta dalle sentenze in commento, bensì l’ambito di applicazione del regime INPS. L’interpretazione letterale fornisce dunque seri argomenti per discostarsi dalla soluzione accolta dalla Corte.

10. – … e sui limiti dell’universalizzazione.

– Ulteriori rilievi vanno svolti con rifeimento sulla ratio della disciplina: l’universalizzazione della tutela, intesa come copertura previdenziale di tutte le attività, costituisce infatti un principio certamente di portata generale, che tuttavia non è assoluto. Dalla stessa disciplina della Gestione separata emergono invero due evidenti limiti all’applicazione di detto principio, i quali operano, per così dire, rispettivamente verso il basso e verso l’altro. Il limite verso il basso è segnato dal carattere di abitualità, già richiesto dalla norma fiscale richiamata dall’art. 2, co. 26, l. n. 335/1995, e ulteriormente specificato dall’art. 44, co. 2, sesto periodo, d.l. n. 269/2003, conv. l. n. 326/2003, che esclude dagli obblighi di iscrizione e contribuzione i lavoratori autonomi occasionali che percepiscano un «reddito annuo derivante da tali attività»sino a 5.000 euro. Il limite verso l’alto, invece, è tracciato dal massimale di reddito imponibile e pensionabile,ex art. 2, co. 18, l. n. 335/1995,applicabile a tutti gli iscritti alla Gestione. L’affermazione per la quale sarebbe ormai«difficilmente giustificabile l’idea che residuino attività di lavoro generatrici di reddito non inciso da contribuzione volta ad alimentare posizioni contributive potenzialmente destinate a “produrre” prestazioni» va dunque contestata:i limiti a quell’imposizione, invero, sono iscritti nella stessa disciplina della Gestione INPS, che individua attività non gravate da contribuzione potenzialmente fruttuosa;anzi non gravate affatto da oneri contributivi. Nelle gestioni amministrate dalle casse professionali operano limiti per molti versi-simili, ancorché modulati con criteri in parte diversi. Molte discipline, invero, pongono un limite verso il basso, individuandolo nel carattere di continuità dell’attività professionali: in tali casi, però, come già ricordato,sul professionista “discontinuo” grava comunque il contributo integrativo. Ma le discipline di categoria tracciano anche il limite verso l’alto, consistente, anche in questi casi, nella previsione di un massimale di reddito imponibile ai fini del contributo soggettivo.Tuttavia, normalmente neppure i redditi eccedenti detto massimale rimangono esenti da contribuzione, ma si vedono gravati da un’aliquota di solidarietà, e dunque da un contributo che, pur configurato come soggettivo, è del tutto “infruttuoso” ai fini della pensione; rimane, altresì,pienamente operante il con-tributo integrativo, applicabile all’intero fatturato. L’operazione di universalizzazione rivela,in tal modo, tutti i suoi limiti. Se intesa nel senso di necessaria copertura di tutte le attività con accrediti contributivi almeno potenzialmente utili,essa evidenzia infatti temperamenti in tutti i sistemi, compreso quello dell’INPS. Se intesa in senso strettamente oggettivo, e più precisamente come assoggettamento al dovere di solidarietà di tutti i redditi prodotti,addirittura quell’operazione vede la sua compiuta attuazione soltanto nel regime delle casse: le quali – a differenza di quanto praticato per la Gestione INPS –impongono contribuzioni anche alle attività che si collocano oltre i limiti, inferiori e superiori,di operatività della contribuzione “fruttuosa”. Ciò va detto, lo si ribadisce, anche con riferimento all’imposizione del contributo integrativo, che non solo, come osservato, costituisce prelievo contributivo a tutti gli effetti, ma che, a differenza di quello soggettivo, opera su una base imponibile più ampia, costituita non dal reddito netto, bensì dai ricavi lordi; e dunque, in ultima istanza, addirittura prescinde dall’an e dal quantum dell’effettivo godimento, da parte del lavoratore, di un reddito propriamente inteso. Quanto appena rilevato sembra fornire ulteriori, validi argomenti a sostegno dell’interpretazione per la quale il combinato disposto dell’art. 2, co. 26, l. n. 335/1995 e dell’art. 18, co. 2, d.l. n. 98/2011, sottrae all’INPS anche le attività assoggettate alla sola contribuzione integrativa. Oltre alla sua aderenza al dato letterale, essa sembra infatti meglio armonizzarsi al disegno complessivo del legislatore, che attua l’universalizzazione con una serie di temperamenti, evidenti già – e soprattutto –nella disciplina della Gestione separata. In tale prospettiva, l’art. 18, co.12, d.l. n. 98/2011, ha dunque (anche) la funzione di far salvi gli analoghi temperamenti operanti nelle singole discipline di categoria, la cui permanente operatività – in coerenza con i margini di autonomia normativa ri-conosciuti dal legislatore alle casse – viene, non a caso, espressamente ribadita, ag-giungendo però un elemento in più. La norma infatti impone che a tali temperamenti il singolo regime accompagni comunque l’imposizione di un versamento contributivo, e dunque un dovere di solidarietà: in tal modo, alle attività che, per il loro con-tenuto professionale, rientrano nell’ambito di competenza delle casse, viene addirittura imposto un onere in più, rispetto a quelle che, prive di tale contenuto, rientrano invece ex se nel campo di applicazione della Gestione separata.

11. – Gli effetti delle due possibili interpretazioni sul contenzioso in corso.

–Sussistono, dunque, seri argomenti per sostenere una lettura del combinato disposto degli artt. 3, co. 26, l. n. 335/1995 e 18, co. 12, d.l. n. 98/2011, conv. l. n. 111/2011, alternativa a quella fatta propria dalla Corte di Cassazione.Appare pertanto ancor oggi utile verificare le conseguenze che, a seguito dell’accoglimento dell’una o dell’altra opzione interpretativa,potranno realizzarsi nel contenzioso relativo alle principali fattispecie ancora sub iudice. In ipotesi di attività escluse dall’obbligo di iscrizione e pagamento del contributo soggettivo alla cassa di categoria – normalmente prevista in ragione della mancanza di continuità professionale –, ma nel contempo assoggettate al contributo integrati-vo, le pretese dell’INPS potranno accogliersi solo applicando il principio enunciato dalla Suprema Corte.Tale accoglimento, tuttavia, non potrà essere automatico, poi-ché la pretesa dell’INPS rimarrà in ogni caso condizionata alla dimostrazione del superamento del limite della occasionalità ex art. 44, co. 2, d.l. n. 269/2003. Entrambe le opzioni interpretative, invece,portano a concludere per l’assoggettamento alla Gestione (salva sempre la verifica sulla non occasionalità)delle attività svolte, con profitto, nei periodi di tirocinio o praticantato, per i qua-li il regime di categoria non impone neppure la contribuzione integrativa. Tuttavia, tali discipline possono attribuire all’interessato la facoltà (da non confondere con il riscatto) di richiedere,a seguito dell’iscrizione all’albo,anche l’iscrizione alla cassa con effetto retrodatato, e dunque di versare, ora per allora, la contribuzione. Sembra di dover ritenere tale iscrizione retrodatata come una sorta di condizione risolutiva che, con corrispondente effetto retroattivo,fa venir meno l’originaria obbligazione in favore della Gestione separata.Poiché tale contribuzione è “fruttuosa” ai fini pensionistici, alla stessa conclusione sembra doversi pervenire, anche accogliendo l’opzione interpretativa fatta propria dalla Suprema Corte. Rimane da definire il destino dei versamenti che, nel frattempo, possano essere stati effettuati dall’interessato all’INPS: a rigore se ne dovrebbe affermare il sopravvenuto carattere indebito; a meno che non si ritenga che l’ultimo periodo dell’art. 18, co. 12, d.l. n. 98/2011,il quale fa «salvi i versamenti già effettuati», abbia introdotto non una disposizione transitoria, ma una regola ancora operante.

12. – I “non iscrivibili” a INARCASSA: una questione aperta?

– L’interpretazione alternativa a quella accolta dalla Suprema Corte non sembra, tuttavia, rimediare al vulnus determinato dalla disciplina di INARCASSA,che sembra effettivamente confliggere con la ratio dell’operazione di universalizzazione voluta dal legislatore. Si è visto come le regole che, presso altri regimi, limitano l’obbligo di iscriversi e di pagare contributi “fruttuosi”, pur in presenza di attività professionale, rimangano comunque all’interno della logica sottesa a tale operazione, considerata nel suo complesso e, quindi,comprensiva anche dei suoi ragionevoli limiti: tali dovendo considerarsi le discipline che danno rilevanza all’esiguità dei compensi (mancanza dell’ esercizio continuativo dell’attività) o alla precarietà o temporaneità della con-dizione dell’interessato (attività prestata, pur con profitto, nel periodo di praticantato). L’esclusione prevista per INARCASSA,invece, si fonda esclusivamente sulla circostanza dell’iscrizione del professionista ad altro regime previdenziale: quella disciplina , oggi contenuta nell’art. 7, co. 2, dello Statuto dell’Ente, ha infatti accolto una nozione di continuità dell’esercizio dell’attività, alla quale è subordinata l’iscrizione, che fa riferimento solo ai due requisiti positivi dell’iscrizione all’Albo e del possesso di partita IVA, e alla circostanza negativa della non iscrizione ad al-tra forma di previdenza obbligatoria. A tal fine, dunque, non assumono rilievo alcuno le reali caratteristiche dell’attività svolta, e cioè elementi quali il periodo di esercizio, la sua effettiva continuità, l’eventuale prevalenza rispetto all’altro lavoro,il fatturato e i redditi prodotti.Tale disciplina è così suscettibile di imporre l’iscrizione per attività che, per la loro esiguità, non potrebbero realmente definirsi “continuative”; e nel contempo di vietarla per altre che, invece,possono assumere rilevanza notevole, in termini sia di impegno professionale, sia di redditi e fatturati prodotti. Un tale assetto, dunque,non solo confligge con la logica universalistica che ispira le discipline introdotte dalla l. n. 335/1995 e successive, ma risulta anche – ed ancor prima – caratterizzata dall’irrazionalità e dall’irragionevolezza del criterio utilizzato per escludere gli ingegneri e gli architetti dal proprio regime professionale. Non si può concordare con chi ritiene che il problema posto da tali norme non sarebbe «molto diverso dalla questione che si è posta allorché un professionista iscritto a un albo professionale e alla relativa cassa previdenziale di categoria svolga un’attività non rientrante tra quelle tipiche della professione» . Al contrario: tale normativa prima di tutto discrimina gli esclusi rispetto a tutti i col-leghi che, svolgendo la medesima professione, magari traendone redditi e ricavi esigui, sono invece iscritti a pieno titolo al regime di categoria: sembra cioè di dover individuare in questi ultimi – e non in chi va iscritto all’INPS per attività diverse, o in altre categorie di professionisti (v. infra) –il tertiumcomparationis, rispetto al quale si evidenziano i profili di irrazionalità e irragionevolezza, che portano seria-mente a sospettare di illegittimità costituzionale l’esclusione imposta delle norme in esame. Né, oggi, sembrano più proponibili le motivazioni con le quali, in riferimento all’art. 3, co. 2, l. n. 179/1958, una risalente sentenza della Corte costituzionale aveva ritenuto di far salva detto criterio di esclusione . Innanzitutto, infatti, in quell’occasione il tertiumcomparationis era stato individuato nella diversa categoria degli iscritti alla Cassa forense, per i quali non esiste analoga disciplina;di conseguenza, la Corte avevari tenuto che, consideratele diver-sità esistenti tra i regimi,«il confronto con altre categorie professionali non conduce a una constatazione di disparità di trattamento». All’epoca, peraltro, l’ordinamento era ben lungi dall’aver attuato il principio universalistico: principio che invece oggi risulta attuato nell’intero ambito del lavoro non subordinato, pur con limitazioni che, però, devono essere giustificate da razio-nalitàe ragionevolezza. Tale giustificazione non sembra potersi riferire ad un criterio che, come già visto, esclude l’iscrizione, prescindendo del tutto dalle reali caratteristiche dell’attività svolta. Con riguardo a tale profilo, sembra peraltro di dover riconsiderare anche l’ulteriore osservazione svolta dalla citata sentenza dellaCorte costituzionale,per la quale l’esclusione sarebbe giustificata dalla finalità di evitare a INARCASSA squilibri finanziari, in quanto«nella maggior parte dei casi gli ingegneri impegnati in al-tre forme di attività, a causa della conseguente marginalità dell'esercizio professionale, ridurrebbero il loro apporto alla Cassa al contributo minimo»: poiché, in-fatti, come già visto il criterio di esclusione prescinde da qualsiasi verifica dell’effettiva “marginalità”dell’attività, sembra che attribuire alla norma censurata la finalità suddetta contribuisca, in ultima istanza, solo a rimarcarne l’irragionevolezza. Sulla scorta di tali considerazioni appare utile, anche in questo caso, valutare quali conseguenze sulle controversie ancora pendenti con l’INPS possano derivare dall’accoglimento dei due diversi modi di interpretare l’art. 18, co. 2, d.l. n. 98/2011. Se, come sopra auspicato,si attribuisce a tale riferimento un significato ampio, tale da comprendere anche le attività assoggettate a contributo integrativo, la pretesa dell’INPS va semplicemente rigettata, e dunque il problema segnalato non si risolve. Se, infatti, l’imposizione del contributo integrativo, che è comunque previsto per i soggetti esclusi, è sufficiente a sottrarre la fattispecie agli obblighi nei confronti dell’INPS, il profilo di illegittimità appena evidenziato rimane irrilevante nel contenzioso con l’Istituto . Tuttavia, bisogna ancora domandarsi se, qualora invece si accolga l’orientamento della Suprema Corte, la conseguenza ultima sia davvero quella dell’iscrizione del professionista alla Gestione separata. Si è visto come, ai fini dell’applicabilità degli obblighi verso la Gestione,le norme rilevanti siano quelle che disciplinano l’iscrizione e la contribuzione alla cassa di categoria, le quali – statuisce la Cassazione – sottraggono il professionista all’INPS solo qualora impongano iscrizione e contribuzione “fruttuosa”. In tale prospettiva, però, anche l’eventuale illegittimità di dette norme assume diretta rilevanza nella controversia con l’INPS: se, infatti, la disposizione che sancisce l’esclusione del professionista dal regime di categoria dovesse cadere, in ragione di detta illegittimità, questo risulterebbe integralmente assoggettato agli obblighi di iscrizione e contribuzione “fruttuosa” nei confronti di INARCASSA; con conseguente sicura esclusione da qualsiasi obbligo verso la Gestione separata. Sembra, quindi, di poter affermare che, qualora si voglia interpretare l’art. 18, co. 12, d.l. n. 98/2011 nel senso indicato dalla Corte di cassazione, l’ingegnere o archi-tetto destinatario della pretesa dell’INPS abbia il concreto interesse ad eccepire, nella causa con detto l’Istituto, l’illegittimità della sua esclusione da INARCASSA, sancita dall’art. 7 dello Statuto dell’ente. Va, peraltro, posta particolare attenzione alle modalità con le quali, in sede giudiziaria, tale illegittimità può essere fatta valere. L’esclusione della quale si discute, invero, non è più prevista da norme di legge(per le quali la questione di illegittimità costituzionale avrebbe potuto essere rilevata in corso di causa, anche d’ufficio, con conseguente rimessione degli atti alla Consul-ta), ma dall’art. 7 dello Statuto. Si è pertanto realizzata quella «sostanziale delegificazione» a seguito della quale, sempre secondo l’insegnamento della Suprema Corte, il sindacato norma statutaria è rimesso al giudice ordinario,al quale dunque spetta dichiararne l’eventuale illegittimità,anche per contrasto con le norme costituzionali. In tal caso, però il giudice non può pronunciarsi d’ufficio, giacché è necessario che l’interessato formuli, espressamente e tempestivamente, specifica domanda . Giova, infine,ricordare che anche altre discipline di categoria prevedono ipotesi di esclusione, in conseguenza della contemporanea iscrizione ad altro regime: le fattispecie sono simili a quella operante per INARCASSA, giacché non danno rilevanza alle concrete caratteristiche dell’attività professionale svolta; a differenza di quanto previsto per gli ingegneri e architetti, però, in tali casi non viene sancito un divieto, ma si prevede soltanto la facoltà, per il professionista, di iscriversi o non iscriversi . Se si accoglie l’opzione interpretativa qui proposta, l’assoggettamento al contributo integrativo esclude l’obbligo verso l’INPS anche in tali fattispecie.

Se, però, si accoglie la tesi della Suprema Corte, pare ben difficile che l’interessato possa sottrarsi alle pretese dell’INPS, eccependo l’illegittimità delle discipline, giacché le stesse, come appena ricordato, nulla gli vietano: cosicché, in ultima istanza, la mancata iscrizione e il mancato versamento della contribuzione “fruttuosa” alla cassa di riferimento dipendono esclusivamente da una sua scelta.


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