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* Il presente contributo è stato sottoposto, in forma anonima, a revisione scientifica.
** Con la collaborazione di Silvia Caporossi.
1. Il termine di prescrizione nella previdenza dei liberi professionisti: un excursus storico.
In via preliminare, al fine di dissipare qualsiasi eventuale dubbio che possa sorgere sul punto, si precisa che il termine di prescrizione dei contributi dovuti alla Cassa Forense ha natura decennale, come disposto dall’art. 66 L. 247/2012, secondo cui «La disciplina in materia di prescrizione dei contributi previdenziali di cui all’articolo 3 della legge 8 agosto 1995, n. 335, non si applica alle contribuzioni dovute alla Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense».
Invero, all’indomani dell’entrata in vigore dell’art. 3 L. 335/1995, si era registrato in giurisprudenza un contrasto in merito all’applicabilità del termine di prescrizione quinquennale anche alle casse di previdenza privatizzate di cui al D.lgs. 509/1994. Una parte della giurisprudenza, infatti, sosteneva l’inapplicabilità del nuovo termine di prescrizione quinquennale di cui alla legge 335/1995 sulla scorta delle seguenti argomentazioni:
a) le leggi che disciplinano la prescrizione nelle Casse dei liberi professionisti rivestono natura di leggi speciali che hanno inteso regolare in maniera specifica la loro previdenza, stanti le peculiarità di quest’ultima, con la conseguenza che una legge di carattere generale, quale è la legge 335/1995, non può abrogare dette leggi speciali;
b) la relazione al progetto della legge 335/1995 evidenzia il fine perseguito, che è quello di riformare il sistema pensionistico obbligatorio e complementare incidente sulla spesa pubblica ai fini di un suo contenimento, non già di influire sul sistema pensionistico che non incide sulla spesa pubblica;
c) la legge 335/1995 tratta del genus previdenziale dei lavoratori dipendenti, come si evince dalla formulazione letterale dell’art. 3, comma 9, lettera a), laddove fa riferimento alle “contribuzioni di pertinenza del Fondo pensioni lavoratori dipendenti e delle altre gestioni pensionistiche obbligatorie” ed ai “casi di denuncia del lavoratore o dei suoi superstiti”, con la conseguenza dell’inapplicabilità di una siffatta disposizione alla previdenza dei liberi professionisti;
d) la previsione che concerne gli enti previdenziali privatizzati è espressamente contenuta nel 12° comma dell’art. 3 della legge 335/1995, con l’effetto di ritenere inapplicabili a tali enti le altre disposizioni che non si riferiscono esplicitamente ad essi;
e) in generale, la circostanza che alla previdenza forense non si applicano diverse disposizioni al contrario applicabili al regime previdenziale dei lavoratori subordinati.
Orientamento ben diverso era stato invece assunto da altra parte della giurisprudenza di merito, allorché era stato affermato il principio dell’applicabilità della prescrizione quinquennale anche alle Casse previdenziali dei liberi professionisti, sebbene sul solo presupposto che il dato letterale dell’art. 3, comma 9, lettera b), del- la legge 335/1995 avrebbe trattato delle gestioni previdenziali obbligatorie, cui sarebbero appartenute anche le Casse di previdenza privatizzate.
Il menzionato conflitto è stato risolto dall’intervento della Suprema Corte, la quale, muovendo dal dato letterale dell’art. 3 L. 335/1995, ha ritenuto che l’intenzione del legislatore fosse di introdurre una regolamentazione di carattere generale, dal momento che, seppur la lettera a) del comma 9 concerne il solo “Fondo pensioni lavoratori dipendenti e le altre gestioni pensionistiche obbligatorie”, la lettera b), al contrario, con una formulazione omnicomprensiva, si riferisce testualmente a “tutte le altre contribuzioni di previdenza e di assistenza sociale obbligatoria”. «Pertanto per il solo fatto che la previdenza fo- rense abbia carattere (non già facoltativo, ma) obbligatorio, come risulta dall’art. 22 legge 20 settembre 1980, n. 576, secondo cui l’iscrizione alla Cassa è obbligatoria per tutti gli avvocati che esercitano la libera professione con carattere di continuità, trova applicazione il nono comma dell’art. 3 cit. con conseguente abrogazione dell’art. 19 della medesima legge n. 576 del 1980».
Ciò posto, come già accennato in apertura, il contrasto di cui sopra è stato definitivamente superato dall’introduzione dell’art. 66 L. 247/2012, il quale, sottraendo espressamente la Cassa Forense dall’ambito di applicazione dell’art. 3 L. 335/1995, ha comportato la reviviscenza dell’art. 19 L. 576/1980, con conseguente riconduzione del termine prescrizionale a quello ordinario decennale.
Per quanto concerne il dies a quo della decorrenza della prescrizione, le normative delle varie Casse di previdenza dei liberi professionisti dispongono che la prescrizione decorre dalla data di invio alla Cassa, da parte dell’obbligato, della comunicazione reddituale obbligatoria, con la conseguenza che l’omessa trasmissione della comunicazione reddituale viene considerata dal legislatore evento interruttivo della prescrizione e, pertanto, la prescrizione non inizia a decorrere.
In particolare, con riferimento alla previdenza forense, giova rammentare che il termine di prescrizione decennale decorre solamente dalla data di presentazione della dichiarazione a cura dell’obbligato, in conformità al disposto dell’art. 19, comma 2, della legge 576/1980.
Ne discende che, conformemente all’orientamento assunto sull’argomento sia dal Giudice delle leggi che dalla giurisprudenza di merito, la mancata presentazione della dichiarazione non costituisce evento in relazione al quale inizia a decorrere la prescrizione.
2. Disciplina dell’omesso versamento di contributi nell’assicurazione generale obbligatoria.
Ciò premesso, occorre accertare quale sia la disciplina del sistema previdenziale generale in caso di mancato versamento di contributi, siano essi prescritti o meno, nonché, in particolare, come è regolamentato nel sistema previdenziale dei liberi professionisti l’omesso versamento dei contributi e, quindi, chiarire l’ammissibilità del versamento di contributi prescritti.
Sotto un profilo generale, occorre evidenziare che il nostro ordinamento ha previsto che il requisito di contribuzione stabilito per il diritto alle prestazioni di vecchiaia, invalidità e superstiti si intende verificato anche quando i contributi non siano stati effettivamente versati, ma risultino dovuti nei limiti della prescrizione e che tali periodi di contribuzione siano da considerare utili anche ai fini della determinazione della misura delle pensioni (art. 40 della legge 30 aprile 1969, n. 153 ed art. 23 ter della legge 11 agosto 1972, n. 485, in ossequio alle previsioni di cui all’art. 2116, comma 1, c.c.).
Tale principio dell’automaticità delle prestazioni ha trovato attuazione solamente parziale in quanto non è assegnata rilevanza a tutti i contributi non versati, ma solo a quelli che non siano prescritti. Questi ultimi, invero, sono ancora esigibili dagli Istituti previdenziali, per cui la disciplina, pur indubbiamente ispirata anche all’esigenza di realizzare una più intensa tutela dell’interesse dei soggetti protetti, si limita, a ben guardare, a trasferire da questi ultimi all’ente previdenziale il rischio dell’inadempimento del datore di lavoro.
Per quanto concerne, invece, i contributi prescritti, si evidenzia che l’art. 55, comma 2, del R.D.L. 4 ottobre 1935, n. 1827, concernente l’assicurazione generale obbligatoria gestita dall’INPS, stabiliva l’impossibilità di effettuare versamenti, a regolarizzazione di contributi arretrati, dopo che, rispetto a tali contributi, fosse intervenuta la prescrizione, così espressamente non consentendo al datore di lavoro di rinunciare alla prescrizione dei contributi verificatasi in suo favore, né all’INPS di accettare il versamento dei contributi prescritti.
Successivamente, il citato art. 3, comma 9, della legge 335/1995 ha esteso tale principio anche ad altre for-me di previdenza sostitutive dell’assicurazione generale obbligatoria, disponendo che le contribuzioni di previdenza e di assistenza sociale obbligatoria, una volta prescritte, non possono essere versate; orbene, prima di tale legge, nella previdenza dei dipendenti pubblici non esisteva il divieto di versare contributi prescritti, tant’è che gli enti pubblici provvedevano a regolarizzare le posizioni contributive dei dipendenti presso gli enti di previdenza del Ministero del Tesoro a distanza di vari anni, ben oltre i limiti della prescrizione.
Senonché, va rilevato che, per quanto concerne la previdenza generale obbligatoria, gli effetti negativi della prescrizione sono stati, in un certo senso, superati – per la parte riguardante la regolarizzazione della posizione assicurativa obbligatoria con piena e completa tutela del relativo diritto del lavoratore – dall’art. 13 della legge 12 agosto 1962, n. 1338.
Infatti, tale disposizione statuisce che il datore di lavoro che abbia omesso di versare contributi per il prestatore di lavoro ai fini dell’assicurazione obbligatoria di invalidità, vecchiaia e superstiti e non possa più versarli per intervenuta prescrizione, possa chiedere all’INPS di costituire una rendita vitalizia reversibile pari alla pensione o quota di pensione adeguata all’assicurazione obbligatoria che spetterebbe al lavoratore dipendente in relazione ai contributi omessi.
Il lavoratore, peraltro, qualora non possa ottenere dal datore di lavoro la costituzione della rendita di cui innanzi, può egli stesso sostituirsi al datore di lavoro, salvo il diritto al risarcimento del danno ex art. 2116, comma 2, c.c. e sempre che sia in grado di fornire all’ente previdenziale la prova dell’esistenza e della durata del rapporto di lavoro, nonché della misura della retribuzione percepita.
Pertanto, se il pagamento di contributi prescritti costituisce un indebito versamento, per cui essi non possono essere mai computati agli effetti del perfezionamento del diritto alla pensione obbligatoria e della misura di essa, ma sono rimborsabili al datore di lavoro anche per la quota trattenuta al lavoratore, al quale deve es- sere restituita, quegli stessi periodi di contribuzione, purché accreditati ai sensi del citato art. 13 della legge 1338/1962 a seguito della costituzione della rendita vitalizia, sono invece valutati, a tutti gli effetti, nell’ambito dell’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti.
Essi, quindi, sono equiparati ai contributi obbligatori, si collocano temporalmente nei periodi cui si riferiscono e sono utili ai fini del perfezionamento del diritto a pensione obbligatoria e della determinazione della relativa misura, ai fini del diritto alla prosecuzione volontaria, ai fini dell’accreditamento dei contributi figurativi, nonché ai fini dell’indennità una tantum dovuta ai superstiti.
Cosicché, la costituzione della rendita vitalizia in conformità all’art. 13 della legge 1338/1962 si risolve nel fatto che il datore di lavoro o il lavoratore od i superstiti di quest’ultimo sono ammessi a versare all’INPS la riserva matematica calcolata in base a tariffe determinate con decreto del Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale. La riserva matematica dà luogo all’attribuzione, a favore del soggetto protetto, dei contributi corrispondenti, per valore, a quelli considerati ai fini del calcolo della rendita.
Dal quadro normativo finora esposto si evince come la legge consenta, di fatto, la regolarizzazione della posizione assicurativa del lavoratore anche per i periodi per i quali sia intervenuta la prescrizione con effetti non solo sui requisiti assicurativi e contributivi richiesti per il conseguimento del diritto a pensione obbligatoria, ma altresì sulla determinazione della misura di quest’ultima. In sostanza, l’inadempimento contributivo del datore di lavoro ha natura contrattuale, per quanto concerne il rapporto intercorrente con il prestatore, il quale ultimo vanta nei confronti del datore un vero e proprio diritto soggettivo alla regolare posizione assicurativa.
3. L’omesso versamento di contributi nella disciplina della previdenza forense.
Ciò premesso, occorre accertare quale sia la disciplina del sistema previdenziale forense in caso di mancato versamento di contributi, siano essi prescritti o meno, nonché, in particolare, i riflessi sul diritto al trattamento pensionistico, e, quindi, chiarire l’ammissibilità del versamento di contributi prescritti.
Sotto un profilo generale, si osserva che l’art. 2 della legge 576/1980 prescrive che la pensione di vecchiaia è corrisposta “a coloro che abbiano compiuto almeno sessantacinque anni di età dopo almeno trenta anni di effettiva iscrizione e contribuzione alla Cassa”; parimenti, l’art. 3 della legge 576/1980, in tema di pensione di anzianità, prescrive il requisito del compimento di “almeno 35 anni di effettiva iscrizione e contribuzione alla Cassa”.
Tali requisiti di età e di anzianità di iscrizione e contribuzione sono stati negli anni gradualmente aumentati sicché, a partire dal 1° gennaio 2021, il diritto alla pensione di vecchiaia – e anche di anzianità – si matura al raggiungimento dei settanta anni di età e di almeno trentacinque anni di effettiva iscrizione e integrale contribuzione alla Cassa. In proposito, si rileva che l’Ente ha costantemente interpretato la locuzione “effettiva contribuzione” nel senso di “integrale contribuzione dovuta”, con la conseguenza che il versamento solo parziale e irregolare, per qualsiasi motivo si sia verificato, della contribuzione è stato ritenuto ostativo all’inclusione dell’intero anno di riferimento nell’anzianità contributiva nonché nel conteggio del trattamento pensionistico.
Sul punto, il Consiglio di Amministrazione della Cassa Forense, già con delibera n. 530 del 21 dicembre 1984, aveva escluso dal computo degli anni utili ai fini del pensionamento quelli per i quali veniva eccepita la prescrizione delle somme eccedenti il contributo minimo, ritenendo che non potessero essere considerati anni di effettiva contribuzione quelli per i quali i contributi dovuti non fossero stati integralmente versati, concludendo che il mancato integrale pagamento degli stessi per maturata ed eccepita prescrizione non consentisse di prendere in considerazione l’anno o gli anni per i quali la prescrizione fosse stata eccepita, in quanto detti anni, per tale fatto, non venivano coperti dall’intera contribuzione per essi dovuta. Successivamente, con delibera del 1° dicembre 1989, il Consiglio di Amministrazione della Cassa Forense dispose che il mancato pagamento, per eccepita prescrizione, di una parte dei contributi dovuti, non potesse incidere sulla effettività della iscrizione e contribuzione alla Cassa ai fini del calcolo degli anni utili per la pensione, ma solamente sull’ammontare dei redditi da prendere in considerazione ai fini del calcolo della pensione, assumendosi per la determinazione della pensione solo quella parte di reddito per la quale fosse stato corrisposto il contributo.
Più di recente il Consiglio di Amministrazione della Cassa Forense, con delibera del 15 marzo 2002, ha stabilito che “nel caso in cui l’omissione contributiva, totale o parziale, riguardi anni per i quali sia intervenuta prescrizione, né l’anno di iscrizione né il reddito professionale dichiarato ai fini IRPEF verranno considerati ai fini della determinazione dell’importo di pensione. Nel caso in cui l’anno o gli anni per i quali c’è inadempimento contributivo rientrino nel periodo di riferimento, ai fini del calcolo della pensione verrà assunto quale reddito professionale <0>”.
Tale principio è stato, peraltro, espressamente enunciato nel “Regolamento per la costituzione di rendita vitalizia reversibile in caso di parziale omissione di contributi per i quali sia intervenuta prescrizione” – deliberato dal Comi- tato dei Delegati del 16 dicembre 2005 e approvato con delibera interministeriale del 24 luglio 2006, entrato in vigore il 1° agosto 2006 –, successivamente modificato in “Regolamento per i1 recupero di anni resi inefficaci a causa di parziale versamento di contributi per i quali sia intervenuta la prescrizione” – deliberato dal Comitato dei Delegati del 23 settembre 2011 e approvato con delibera interministeriale del 27 dicembre 2011 –, ove, all’art. 1, è testualmente prescritto che “sono considerati inefficaci ai fini del riconoscimento del diritto a pensione, nonché per il calcolo della stessa, gli anni di iscrizione alla Cassa per i quali risulti accertata un’omissione, anche parziale, nel pagamento di contributi che non possono più es- sere richiesti e versati per intervenuta prescrizione”, prevedendo, quale istituto per recuperare ai fini pensionistici gli anni con contribuzione omessa, la costituzione di una rendita vitalizia previa corresponsione di un importo pari alla riserva matematica, calcolata secondo le indicazioni contenute nel medesimo regolamento.
Da ultimo, nel recente “Regolamento unico della previdenza forense” – adottato con delibera del Comitato dei Delegati del 23 novembre 2018, come modificata in data 21 febbraio 2020, e approvato con delibera ministeriale del 21 luglio 2020, pubblicato sulla G.U. Serie Generale n. 200 dell’11 agosto 2020 – all’art. 44 è stato espressamente inserito l’aggettivo “integrale” allo scopo di qualificare la contribuzione utile in ordine al raggiungimento dell’anzianità contributiva minima richiesta. Ciò posto, occorre rilevare che, alla luce del dettato normativo e dell’interpretazione maturata in seno al Consiglio di Amministrazione della Cassa Forense, il diritto alla pensione sorge solamente nel concorso dei due requisiti richiesti dalla legge e cioè dell’iscrizione e dell’effettiva contribuzione, oltre che del dato temporale.
Talché, l’eventuale omissione e prescrizione dei contributi, se necessari per l’acquisizione del diritto a pensione, non può non riflettersi sull’an e sul quantum del diritto stesso; il che, se può lasciare margine a perplessità dal punto di vista sociale, non pare possa essere facilmente contestato 7 . Infatti, interpretando rigorosamente il dettato normativo, non soltanto non possono essere computati gli anni per i quali la contribuzione è prescritta, ma nemmeno quelli per i quali i contributi (non prescritti) risultano dovuti ma non versati, in quanto nel sistema previdenziale dei liberi professionisti, come concorde- mente riconosciuto da dottrina e giurisprudenza 8 , non vige il principio dell’automaticità delle prestazioni di cui all’art. 2116 c.c. 9 , secondo cui l’ente previdenziale deve corrispondere al lavoratore le prestazioni anche quando il datore di lavoro non abbia provveduto regolarmente al versamento dei contributi presso l’ente previdenziale stesso.
Invero, tale principio – nell’interpretazione fornitane dalla Corte Costituzionale (sentenza n. 374 del 1997) – costituisce regola generale nell’ambito di tutte le forme di previdenza ed assistenza obbligatorie per i lavoratori dipendenti e, come tale, trova applicazione – nel- lo stesso ambito – a prescindere da qualsiasi richiamo esplicito, essendo semmai necessaria una disposizione esplicita per derogare al principio stesso.
Al contrario, il menzionato principio non trova applicazione nel rapporto fra lavoratore autonomo (anche libero professionista) ed ente previdenziale – in difetto di specifiche disposizioni di legge (o di legittima fonte secondaria) in senso contrario – con la conseguenza che il mancato versamento dei contributi obbligatori impedisce, di regola, la stessa costituzione del rapporto previdenziale e, comunque, la maturazione del diritto alle prestazioni, senza che rilevi in contrario la circostanza dell’iscrizione al relativo albo professionale, ancorché questa possa dar luogo, con l’iscrizione all’ente previdenziale, alla possibilità per il medesimo ente, che ne consegue, di attivarsi per la riscossione degli stessi contributi.
Del resto, tale interpretazione trova conferma anche nel dato testuale dell’art. 59, comma 19, della legge 27 dicembre 1997, n. 449, il quale esclude espressamente l’applicazione ai lavoratori autonomi dell’art. 67 del D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, che prevede il diritto alle prestazioni da parte dell’Istituto assicuratore anche nel caso in cui il datore di lavoro non abbia adempiuto agli obblighi a suo carico.
Ne discende che, come avvalorato da autorevole dottrina, “il principio dell’automaticità delle prestazioni non trova invece applicazione rispetto al lavoro autonomo”.
D’altra parte, è assolutamente chiara la mancanza, nella disciplina previdenziale forense, della ratio che è alla base dell’automaticità delle prestazioni nel sistema previdenziale dei lavoratori subordinati; infatti, con tale meccanismo si è voluto assicurare che il prestatore di lavoro non subisca un danno per il mancato adempimento di un obbligo non imputabile a lui, bensì al datore di lavoro. Nella previdenza forense, invece, l’obbligato, essendo egli stesso il soggetto protetto, è coscientemente inadempiente e deve dunque imputare a sé stesso l’eventuale mancanza di tutela previdenziale.
La conclusione sopra argomentata risulta, peraltro, l’unica apprezzabile sol che si consideri la particolare natura della Cassa Forense, il cui finanziamento è affidato, in via esclusiva, alla contribuzione degli iscritti – non essendo ammessi finanziamenti statali – e la quale non consente, quindi, l’erogazione di prestazioni in difetto dei contributi corrispondenti, che ne costituiscono, appunto, l’unica fonte di finanziamento.
Né può pretendere, comunque, di beneficiare della solidarietà categoriale – che connota la forma di previdenza obbligatoria gestita dalla Cassa Forense – l’iscritto che, con le proprie omissioni contributive, si sia sottratto all’obbligo essenziale, imposto dalla stessa solidarietà. I principi di cui sopra sono stati ripetutamente afferma- ti dalla Cassazione, la quale ha ritenuto che «sarebbe irragionevole, ossia contrastante col principio di uguaglianza … parificare la situazione del lavoratore dipendente, che perde benefici previdenziali a causa delle omissioni contributive del datore di lavoro e perciò può costituirsi la rendita … e la situazione del professionista, che per un periodo della sua vita professionale omette di contribuire e più tardi vuole recuperare i benefici perduti trasferendo sull’assicuratore, almeno in parte, il costo dell’operazione».
Stante quanto sopra, la maturazione del diritto alla percezione del trattamento pensionistico risulta inscindibilmente legato al raggiungimento, da parte dell’iscritto, di un determinato numero di anni di “effettiva iscrizione e contribuzione alla Cassa”, con la conseguenza che anche il solo parziale omesso versamento dei contributi comporta l’esclusione integrale dell’anno dal computo dell’anzianità contributiva.
Invero, sul punto si è registrato un orientamento giurisprudenziale di segno opposto, il quale, muovendo dal presupposto che manca, nell’ordinamento previdenziale forense, una norma che preveda la perdita o la riduzione dell’anzianità contributiva e dell’effettività di iscrizione a seguito di parziale omissione del versamento dei contributi, potendosi rinvenire un aggancio normativo esclusivamente nell’art. 2 L. 576/1980, come sostituito dalla L. 11 febbraio 1992, n. 141, art. 1, laddove statuisce che la pensione di vecchiaia «è pari, per ogni anno di effettiva iscrizione e contribuzione, all’1,75 per cento della media dei più elevati dieci redditi professionali..», ha affermato che «gli anni non coperti da integrale contribuzione concorrono a formare l’anzianità contributiva e vanno inseriti nel calcolo della pensione, prendendo come base il reddito sul quale è stato effettivamente pagato il contributo».
Infatti, secondo tale indirizzo giurisprudenziale, l’interpretazione del termine “effettivo” nel senso di “integra- le” incontrerebbe un ostacolo nella comune accezione del termine stesso, che non fa alcun riferimento ad una “misura”. «L’aggettivazione usata sta invece ad indicare che la pensione si commisura sulla base della contribuzione “effettivamente” versata, escludendo così ogni automatismo delle prestazioni in assenza di contribuzione, principio che vige invece per il lavoro dipendente e che è ovviamente inapplicabile alla previdenza dei liberi professionisti, in cui l’iscritto e beneficiario delle prestazioni è anche l’unico soggetto tenuto al pagamento della contribuzione».
Il menzionato orientamento giurisprudenziale, oltre a non tenere in debito conto i regolamenti citati nei precedenti capoversi – e a far riferimento ad annualità risalenti –, risulta oramai superato a seguito dell’introduzione dell’art. 44 del Regolamento Unico della Previdenza Forense, il quale prevede testualmente che «la pensione di vecchiaia è corrisposta a coloro che abbiano maturato i seguenti requisiti: (…) b) dall’1 gennaio 2021, settanta anni di età e almeno trentacinque anni di effettiva iscrizione e integrale contribuzione alla Cassa».
Peraltro, già prima della suddetta modifica normativa, parte della giurisprudenza aveva avanzato perplessità in ordine alla fondatezza di tale interpretazione ermeneutica, osservando che «la sentenza (Cass. n. 5672/2012, n.d.r.), non priva di critiche in dottrina, aveva comunque sollevato qualche dubbio in ordine agli evidenti effetti che una tal situazione poteva avere: in primo luogo, il favorire l’“evasione” contributiva degli iscritti che, al di là delle sanzioni, non avrebbero subito alcun danno pensionistico; in secondo luogo, la compromissione del sistema solidaristico della Cassa, presso la quale peraltro non opera certamente il principio di automaticità delle prestazioni ex art. 2116 c.c.».
Inoltre, con riferimento al menzionato “Regolamento per la costituzione di rendita vitalizia reversibile in caso di parziale omissione di contributi per i quali sia intervenuta prescrizione” – che, si rammenta, prescrive all’art. 1 l’inefficacia ai fini pensionistici degli anni di iscrizione alla Cassa per i quali risulti accertata un’omissione, anche parziale, nel pagamento di contributi che non possono più essere richiesti e versati per intervenuta prescrizione – alcune pronunce successive in materia di prescrizione di debiti contributivi nei confronti della Cassa per annualità particolarmente risalenti hanno riconosciuto l’applicabilità dell’art. 1 del predetto regolamento a fattispecie maturatesi successivamente alla sua entrata in vigore, così implicitamente ammettendo l’operatività del principio dell’esclusione integrale dell’anno per il quale si registra una parziale irregolarità contributiva dal computo dell’anzianità contributiva.
In proposito, la Corte di Cassazione, con sentenza n. 7621/2015, pur riaffermando il medesimo principio già sostenuto nelle pronunce n. 6752/2012 e n. 26962/2013, ha incidentalmente precisato che “del pari inammissibile è la questione riguardante l’applicabilità, alla fattispecie in esame, del detto regolamento (“Regolamento per la costituzione di rendita vitalizia reversibile in caso di parziale omissione di contributi per i quali sia intervenuta prescrizione”, n.d.r.), approvato con decreto ministeriale nel luglio del 2006 ed entrato in vigore “dal 1 giorno del mese successivo a quello di approvazione ministeriale”, in quanto i fatti in esame sono caduti in epoca precedente all’entrata in vigore del detto regolamento”, potendosi ipotizzare, a contrario, che la disposizione di cui all’art. 1 possa ritenersi applicabile per il periodo successivo.
Sulla problematica in questione è nuovamente intervenuta la Suprema Corte, con la recente sentenza n. 30421/2019 e con l’ordinanza n. 694/2021, nelle quali, ritenendo di dare continuità all’orientamento espresso con le precedenti sentenze n. 5672/2012 e n. 26962/2013 nelle fattispecie in concreto esaminate – riguardanti, la pronuncia del 2019, una pensione liquidata nel 2004, per la quale vi erano state omissioni contributive per gli anni 2000 e 2001, quella del 2021, l’inefficacia, ai fini pensionistici, degli anni 1992, 1993 e 1994 – sia pure con obiter dictum, ha ribadito che le disposizioni del “Regolamento per la costituzione della rendita vitalizia reversibile in caso di parziale omissione di contributi per i quali sia intervenuta la prescrizione” «non possono che applicarsi alle pensioni liquidate successivamente alla sua entrata in vigore».
Da ultimo, appare il caso di rilevare che il Giudice di legittimità, con sentenza n. 5380/2018, pur pronunciandosi su controversia relativa a fattispecie diversa da quella di che trattasi, ha osservato che non possa ragionevolmente mettersi in dubbio che i trattamenti pensionistici erogati dalla Cassa in favore degli iscritti debbano essere quantificati sulla base delle dichiarazioni rese dagli iscritti stessi e che, pertanto, la determinazione dell’ammontare della pensione sia inscindibilmente legato al presupposto dell’avvenuta, regolare e tempe- stiva comunicazione all’Ente del reddito professionale prodotto dal professionista e del relativo pagamento dei contributi dovuti.
«Diversamente si introdurrebbero nel sistema previsto dalla legge elementi del tutto variabili dettati dall’arbitrio dei soggetti interessati iscritti alla Cassa, opposti rispetto alla ratio dell’imposizione di specifiche regole e logicamente non compatibili con la concreta possi- bilità di procedere in via programmata e razionale da parte della Cassa».
4. La ricevibilità dei contributi prescritti da parte della Cassa.
Fermo restando quanto sopra, un problema che assume particolare rilievo è quello degli effetti della già intervenuta prescrizione dei contributi.
Orbene, la dottrina che aderisce alla tesi che ritiene inapplicabile alla Cassa Forense l’art. 3, comma 9, della legge 335/1995, afferma l’applicazione dei principi civilistici in materia di prescrizione, con la conseguenza che, mentre la Cassa non potrebbe richiedere i contributi prescritti, l’obbligato avrebbe però la possibilità di adempiere volontariamente al versamento e con i relativi riflessi sull’aspetto delle prestazioni previdenziali.
Pertanto, sarebbe ammissibile, secondo tale dottrina, il riferimento alla disciplina dettata dal codice civile, di cui all’art. 2934 c.c. ed in base a tale normativa, mentre è consentito il pagamento del debito prescritto (e, quindi, l’obbligato può rinunciare alla prescrizione verificatasi in suo favore pagando alla Cassa la contribuzione prescritta), non è consentito il rifiuto di ricevere il pagamento di un debito contributivo prescritto; accedendo a tale tesi, la Cassa, se è vero che non può azionare coattivamente il debito contributivo prescritto in caso di eccepita prescrizione da parte del professionista, è pur vero che può liberamente accettare la contribuzione prescritta versata spontaneamente dal professionista.
Infatti, secondo la disciplina civilistica, legittimato ad opporre la prescrizione è il soggetto passivo del rap- porto obbligatorio (che nel rapporto contributivo previdenziale è il professionista), nonché soggetti terzi che potrebbero subire un pregiudizio dall’inerzia del debitore che non eccepisce la prescrizione; non può, dunque, eccepire la prescrizione il soggetto attivo del rapporto obbligatorio. Pertanto, la Cassa di previdenza non può trarre beneficio da una sua eventuale inerzia, danneggiando un professionista che magari ha a suo tempo posto la Cassa nella condizione di procedere alla riscossione dei contributi; in altri termini, da un’inerzia della Cassa non può conseguire la perdita di diritti previdenziali costituzionalmente garantiti.
Tuttavia, altra parte della dottrina ritiene che il rap- porto previdenziale ha comunque e sempre risvolti pubblicistici, per cui la disciplina della prescrizione può in tale settore atteggiarsi diversamente da quella codicistica, né può comunque omettersi di considerare, in ogni caso, che l’art. 2937 c.c e l’art. 2940 c.c. in tema di prescrizione, richiedono rispettivamente che l’atto abdicativo o comunque l’adempimento siano del tutto liberi ed incondizionati e, dunque, assolutamente volontari.
Orbene, nella circostanza non sembra che possa sostenersi che si verifichi un tale presupposto di indipendenza del contributo da altre situazioni e di rinuncia libera e volontaria.
Invero, l’adempimento, nel caso in questione, non può considerarsi abdicativo, giacché il motivo che lo determina è proprio quello di ottenere un vantaggio; in altri termini, l’atto di rinuncia finirebbe con l’avere tutt’altra finalità rispetto a quella prevista civilisticamente.
Invero, laddove non opera il principio di automaticità delle prestazioni, l’adempimento contributivo non esaurisce i propri effetti nell’ambito della corrispondente obbligazione, ma, come noto, incrementa anche la posizione contributiva dell’interessato.
Il rapporto contributivo, cioè, non è quel mero rapporto debitorio sul quale si costruisce la disciplina civilistica della prescrizione: sicché l’eventuale rinuncia da parte del debitore a far valere la prescrizione del debito contributivo è, in realtà, una “pseudo-rinuncia”, perché, di fatto, è rappresentativa di un comportamento diretto ad acquisire, senza il rispetto delle forme ordinarie e dei limiti temporali previsti dalla legge, un corrispettivo vantaggio.
E, d’altronde, in dottrina si è anche sostenuto che l’adempimento volontario non costituisce un vero e proprio pagamento, con tutti gli effetti dell’atto dovuto prima della prescrizione nella situazione giuridica dell’accipiens.
Né va sottovalutato che, per l’incidenza di un tale atto nella gestione e nell’operatività della Cassa, quanto mai dubbia appare la libera disponibilità del diritto in capo all’obbligato per la polivalenza del rapporto in cui si inserisce, che riguarda, seppure indirettamente, anche gli altri soggetti iscritti alla Cassa.
D’altronde, vi sono altri argomenti testuali che militano a favore di tale tesi e sono ravvisabili sia nell’art. 20 della legge 576/1980, come novellata, laddove limita a dieci anni il potere della Cassa di indagare nel passato dell’iscritto per verificare la rispondenza tra comunicazioni inviate alla Cassa e dichiarazioni dei redditi, sia nell’art. 22 della stessa legge 576/1980, che disponeva la rimborsabilità a richiesta dei contributi relativi agli anni di iscrizione dichiarati inefficaci, circostanze che potrebbero costituire ulteriori elementi militanti a favo- re della tesi dell’insanabilità del vuoto contributivo per cui si è verificato il termine di prescrizione.
Un aspetto particolare per l’applicazione di tale disciplina concerne l’inizio del decorso del termine prescrizionale, che, come più innanzi illustrato, coincide con il momento in cui la Cassa Forense è venuta a cono- scenza dei redditi e del volume d’affari degli obbligati.
Infatti, come chiarito anche dall’INPS, con circolare n. 262/95 relativa ai lavoratori autonomi della gestione INPS, la prescrizione inizia a decorrere con la conoscenza dell’imponibile da parte dell’Istituto, anche dopo le modifiche apportate al regime della prescrizione dalla legge 335/1995.
Orbene, avuto riguardo alla regola generale per cui non inizia a prescriversi un diritto che il titolare non può esercitare, detta regola probabilmente mitiga la portata del principio dell’irricevibilità dei contributi prescritti.
Ciò posto, vale la pena rammentare, in tema di ricevibilità dei contributi prescritti, la vicenda che ha avuto come protagonista la Cassa di previdenza dei geometri e che ha dato il via a gran parte della giurisprudenza più innanzi menzionata. Tale ente previdenziale, con delibera dell’11 ottobre 1994, n. 383, ha riconosciuto ai geometri, a domanda, la facoltà di retrodatare la propria iscrizione alla Cassa per gli anni 1957/1967, con il conseguenziale diritto di vedersi computato il periodo ai fini pensionistici, previo pagamento dei contributi per ciascun anno di iscrizione retroattiva riconosciuto.
Successivamente all’entrata in vigore della legge 335/1995, la Cassa dei geometri ha adottato la delibera n. 141 in data 23 giugno 1998, che ha revoca- to la concessione della retrodatazione dell’iscrizione nei riguardi delle istanze già presentate e non ancora perfezionate con il versamento degli oneri contributivi richiesti prima dell’entrata in vigore della legge 335/1995, sul presupposto che tale legge – a giudizio della stessa Cassa previdenziale – avrebbe dettato l’irricevibilità da parte degli enti previdenziali dei contributi prescritti; con la stessa delibera l’ente ha consentito agli iscritti, onde non pregiudicarne le aspettative, di sistemare gli anni relativi alla revocata retrodatazione, con il versamento di oneri determinati con i criteri di computo della riserva matematica di cui all’art. 13 della citata legge 1338/1962, alla stregua di quanto previsto per i lavoratori subordinati.
A seguito del contenzioso insorto in esito alla citata delibera n. 141 del 1998, quest’ultima è stata oggetto di rivisitazione da parte della stessa Cassa previdenziale con le deli- bere dell’8 settembre 1999, n. 141 e del 15 dicembre 1999, n. 181, con le quali è stato ridotto l’onere della retrodatazione, quantificato per ogni anno di retrodatazione, anziché con l’onerosa riserva matematica di cui alla predetta legge 1338/1962, nella misura pari al dieci per cento della media dei migliori dieci reddi- ti annuali degli ultimi quindici anni rivalutati presi a base del calcolo della pensione già liquidata, liquidabile o comunque calcolabile in via ipotetica, maggiorata del venti per cento (con onere non inferiore per ogni anno, comunque, alla contribuzione obbligatoria soggettiva minima).
Orbene, il Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale, con provvedimento del 16 marzo 2000, prot. 9 PS/80517/GEO-L-37, ha approvato le delibere della Cassa di previdenza dei geometri n. 141 e n. 181 del 1999.
Nel merito della vicenda che ha interessato la Cassa di previdenza dei geometri, giova osservare come, a stretto rigore normativo, l’art. 13 della legge 1338/1962 (seppure con le modifiche introdotte dalla Cassa dei geometri in ordine al calcolo della riserva matematica) non è applicabile alla previdenza dei liberi professionisti.
A tale proposito, si rileva che presupposto per l’operatività della disposizione da ultimo citata è l’art. 55 R.D.L. 1827/1935, che ha statuito l’impossibilità di versare contributi prescritti; infatti, con l’art. 13 della legge 1338/1962 si è inteso, come evidenziato nei lavori preparatori della legge, attuare “un congegno di regolarizzazione contributiva, che consenta di valorizzare, ai fini del trattamento pensionistico, quei periodi lavorativi per i quali si siano verificate omissione contributive non sanabili per effetto di prescrizione”.
Ed invero, il Giudice delle leggi, seppure pronunciandosi in ordine all’applicabilità del ripetuto art. 13 della legge 1338/1962 agli artigiani ed ai commercianti con i loro familiari coadiutori, ha precisato che il congegno dispositivo “è stato articolato in relazione alla norma generale prevista nel succitato art. 55 R.D.L. n. 1827 del 1935 e ciò spiega il riferimento contenuto nell’art. 13 al «datore di lavoro» in via principale e al «lavoratore» in via sostitutiva, quali soggetti ammessi ad esercitare la facoltà di costituire la rendita con conseguente onere di versare all’I.N.P.S. la riserva matematica calcolata in base alle tariffe.
Ma è evidente che, attraverso l’attribuzione di codesta facoltà, si è mirato, non ad offrire un particolare modo di risarcimento del danno bensì a realizzare il medesimo effetto dell’ormai non più possibile adempimento dell’obbligo contributivo da parte di chi era tenuto al versamento”, con ciò riconoscendo “all’interprete il compito di stabilire se non sia il dinamismo stesso della legislazione previdenziale, improntata al principio della sicurezza sociale, a far ritenere applicabile in via estensiva la norma de qua”, alla luce della circostanza che “la norma impugnata dell’art. 13 ha connotati di generalità ed astrattezza tali da renderla applicabile a tutte le forme assicurative delle varie categorie di lavoratori che non hanno una posizione attiva nel determinismo contributivo”.
Orbene, se la norma di cui si discorre deve essere intesa estensivamente e, dunque, risulta applicabile an- che ad altre categorie di lavoratori non espressamente previste, in via del tutto astratta potrebbe anche essere ipotizzabile una sua applicazione per analogia anche ad altre categorie di lavoratori, quali i lavoratori autonomi e, tra essi, i liberi professionisti, stante proprio il carattere di generalità ed astrattezza che contraddistingue detta disposizione (confermato di recente anche dalla Cassazione, Sez. Lavoro, 26 luglio 1999, n. 8112, in Mass., 1999) ed avuto precipuo riguardo all’obiettivo di rilevante interesse sociale che si potrebbe perseguire, ovvero il completamento della contribuzione utile all’anzianità necessaria per il riconoscimento di una rendita vitalizia, in caso di intervenuta prescrizione contributiva.
Ed invero, l’art. 25 della stessa legge 1338/1962 – quale norma di chiusura – prevedeva espressamente l’istituzione presso il Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale di una commissione con il compito di armonizzare l’assicurazione per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti sia per i lavoratori dipendenti che per i la- voratori autonomi, seppure riferendosi ai lavoratori comunque rientranti nella gestione INPS, con ciò tuttavia implicitamente riconoscendo la possibilità di adottare principi conformi a quelli contenuti nell’art. 13 anche per i lavoratori autonomi. In tal modo, l’obiettivo di costituire una rendita vitalizia a favore dei soggetti che non abbiano acquisito completezza di contribuzione per intervenuta prescrizione può essere conseguito mediante il versamento, su base volontaria, di oneri determinati con i criteri di computo della riserva matematica di cui all’art. 13 della citata legge 1338/1962, alla stregua di quanto previsto per i lavoratori subordinati, previo accerta- mento in ordine alla circostanza che l’adozione di detto calcolo non leda la contribuzione minima prevista in materia previdenziale forense per ciascun anno di riferimento.
La prospettazione in questione ha trovato peraltro un positivo riscontro anche nella giurisprudenza di merito, allorché, trattando della Cassa di previdenza dei geometri, è stato affermato che “l’alternativa ordinamentale è secca: o si può vantare una determinata anzianità contributiva – ed allora sorge il diritto al corrispondente trattamento – ovvero quel requisito non sussiste, né può essere più integrato ed in tale diverso caso potrà eventualmente porsi il problema di ricostruire un obbligazione risarcitoria (n.d.r.: laddove ne sussistano i presupposti, evi-dentemente) o di costituire una rendita vitalizia ex art. 13 L. 1338/1962”.
Nell’ambito della propria autonomia, la Cassa ha recepito i suindicati principi elaborando il menzionato “Regolamento per la costituzione della rendita vitalizia reversibile in caso di parziale omissione di contributi per i quali sia intervenuta prescrizione”, successivamente modificato in “Regolamento per il recupero di anni resi inefficaci a causa di parziale versamento di contributi per i quali sia intervenuta la prescrizione”, il quale – come già precisato nei capitoli precedenti – prevede la costituzione di una rendita vitalizia quale mezzo per il recupero degli anni dichiarati inefficaci ai fini pensionistici a causa di omissioni contributive prescritte, anche parziali.
Peraltro, a ben vedere, la previsione di cui all’art. 55, comma 2, R.D.L. 4 ottobre 1935, n. 1827 è stata superata dall’introduzione della L. 335/1995, le cui disposizioni “costituiscono principi fondamentali di riforma economico-sociale della Repubblica”, ai sensi dell’art. 1, comma 2, della medesima legge.
“La presente legge ridefinisce il sistema previdenziale allo scopo di garantire la tutela prevista dall’articolo 38 della Costituzione, definendo i criteri di calcolo dei trattamenti pensionistici attraverso la commisurazione dei trattamenti alla contribuzione, le condizioni di accesso alle prestazioni con affermazione del principio di flessibilità, l’armonizzazione degli ordina- menti pensionistici nel rispetto della pluralità degli organismi assicurativi, l’agevolazione delle forme pensionistiche complementari allo scopo di consentire livelli aggiuntivi di copertura previdenziale, la stabilizzazione della spesa pensionistica nel rapporto con il prodotto interno lordo e lo sviluppo del sistema previdenziale medesimo” (art. 1, comma 1).
Dunque, atteso che l’art. 66 L. 247/2012 ha sot- tratto le contribuzioni previdenziali dall’applicazione della disciplina in materia di prescrizione di cui alla L. 335/1995, la previsione della possibilità per gli iscritti di versare i contributi prescritti all’Ente e a quest’ultimo di richiederli non sembra incompatibile con l’ordinamento previdenziale forense ad oggi vigente. In tale contesto, pertanto, ben si comprende la ratio posta a fondamento della delibera adottata dal Consiglio di Amministrazione della Cassa Forense nella seduta del 22 febbraio 2013, nella quale è stato disposto che «b) salvo il caso in cui la prescrizione sia stata accertata in via definitiva, gli uffici dovranno sempre procedere alla ri- chiesta di pagamento degli eventuali contributi omessi alla Cassa e delle relative somme accessorie, ancorché risultino maturati i termini di prescrizione; l’eventuale eccezione di prescrizione dovrà essere sollevata dall’interessato: in assenza, è ammesso sia il pagamento in forma spontanea, sia la riscossione coattiva».
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