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La gestione separata I.N.P.S. e il mito della universalizzazione delle tutele previdenziali *

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Maurizio Ferrari

* Il presente contributo è stato sottoposto, in forma anonima, a revisione scientifica.

Avvocatura e Gestione Separata I.n.p.s.

È principio consolidato, nella giurisprudenza della Cassazione, che l’avvocato non iscritto alla Cassa Forense, pur essendo tenuto a versare il contributo integrativo, deve comunque iscriversi alla Gestione Separata presso l’Inps.

Nell’affermazione di tale principio, la giurisprudenza equipara la professione forense a tutte le altre libere professioni per le quali sia prevista l’iscrizione ad un albo professionale, quando i professionisti non risultano iscritti alla cassa previdenziale di categoria.

Principio che continua ad avere ragione d’essere per la generalità dei liberi professionisti, mentre per gli avvocati incontra un limite temporale costituito dall’entrata in vigore dell’art. 21, 10° comma, l. n. 247 del 2012, che non ammette l’iscrizione ad alcuna forma di previdenza, se non su base volontaria e non alternativa, alla Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense.

Negli ultimi dieci anni, infatti, in applicazione del divieto di duplicazione delle coperture assicurative incidenti sulla medesima attività professionale, l’iscrizione alla Gestione Separata non può essere imposta agli avvocati, se non per i compensi di natura non professionale, in ipotesi di duplice attività lavorativa.

In tal caso continua a sussistere l’obbligo di duplice iscrizione alla Cassa e alla Gestione Separata, ma viene esclusa la duplicazione contributiva, in quanto le diverse obbligazioni contributive vengono parametrate sui compensi percepiti per ciascuna attività, separatamente e in base alle rispettive aliquote, senza possibilità di cumulo.

La politica di universalizzazione delle tutele previdenziali

La Gestione Separata è stata istituita, in base all’art. 2, comma 26, l. n. 335 del 1995 6 , in attuazione di una politica di c.d. “universalizzazione delle tutele”, la cui finalità è puntualmente stigmatizzata dalla ricordata giurisprudenza come quella di estendere la copertura assicurativa, non solo a coloro che ne fossero privi, ma anche a coloro che ne fruivano solo in parte, svolgendo due diversi tipi di attività per cui risultavano “coperti” dal punto di vista previdenziale solo per una delle due.

Ciò consente di fare in modo che a ciascuna delle attività svolte dal medesimo soggetto corrisponda una forma di assicurazione. Intento apparentemente lodevole, se non fosse per il fatto che la doppia iscrizione, come rivela il contenzioso che si è sviluppato, viene percepita dal soggetto che vi è obbligato come un aggravio oneroso dal punto di vista contributivo, senza che ad esso corrisponda una reale utilità sul piano delle prestazioni
previdenziali.

Il proclamato intento di dare corso ad una politica di universalizzazione delle tutele previdenziali ha trovato coerente attuazione in quelle situazioni che vedevano effettivamente privi di copertura alcuni soggetti esercenti attività non facilmente inquadrabili, come nel caso dei produttori di assicurazioni che svolgano la loro attività direttamente per conto delle imprese assicurative senza essere collegati ad agenti o subagenti.

La Cassazione ha statuito che per essi rilevano le concrete modalità di esercizio dell’attività di ricerca del cliente assicurativo, affermando che l’iscrizione va effettuata presso la gestione commercianti ordinaria, ove tale attività sia svolta dal produttore in forma di impresa, e presso la gestione separata di cui all’art. 2, comma 26, l. n. 335 del 1995, ove l’attività in questione sia esercitata mediante apporto personale, coordinato e continua-
tivo, privo di carattere imprenditoriale, o (qualora ne derivi un reddito annuo superiore a cinquemila euro) in forma autonoma occasionale.

Il problema della doppia iscrizione si è posto, ma è stato risolto in senso negativo, per le attività commerciali, per le quali l’art. 1, comma 208, l. n. 662 del 1996, ha affermato la regola secondo la quale i soggetti che esercitano contemporaneamente, in una o più imprese commerciali, varie attività autonome assoggettabili a diverse forme di assicurazione obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti, sono iscritti nell’assicurazione prevista per l’attività alla quale gli stessi dedicano personalmente la loro opera professionale in misura prevalente.

Le Sezioni Unite della Suprema Corte hanno stabilito che tale regola si applica anche al socio di società a responsabilità limitata che eserciti attività commerciale nell’ambito della medesima e, contemporaneamente, svolga attività di amministratore, anche unico.

In tal caso la scelta dell’iscrizione nella gestione di cui all’art. 2, comma 26, l. n. 335 del 1995, o nella gestione degli esercenti attività commerciali, ai
sensi dell’art. 1, comma 203, l. n. 662 del 1996, spetta all’Inps, secondo il carattere di prevalenza.

Il criterio della prevalenza, che in ogni caso esclude la possibilità di imporre la doppia iscrizione, tuttavia sfugge alla scelta dell’interessato, per rimanere ancorato ad una valutazione oggettiva dell’ente previdenziale che, si badi bene, gestisce entrambe le gestioni da opzionare.

Comunque è un criterio stabilito dalla legge e soggiace al carattere speciale della previsione normativa, dettata per il settore del commercio, in attuazione di una deroga alla regola generale che rimane quella della doppia
iscrizione. Nel caso specifico degli esercenti l’attività di investigatore privato, volta alla produzione di un servizio di acquisizione di dati e di elaborazione degli stessi, la Suprema Corte ha ritenuto che essa va inquadrata ai fini previdenziali ed assistenziali nel settore del commercio, con la conseguenza che chi esercita tale attività deve iscriversi nella gestione assicurativa degli esercenti le attività commerciali e non alla Gestione Separata Inps, ritenendo che tale gestione abbia ad oggetto le professioni intellettuali, cui non è assimilabile l’attività professionale svolta dall’investigatore privato.

È stato poi ritenuto che in caso di esercizio di attività in forma d’impresa ad opera di commercianti, artigiani o coltivatori diretti, contemporaneo all’esercizio di attività autonoma per la quale è obbligatoria l’iscrizione alla Gestione Separata, non opera la fictio iuris dell’unificazione della contribuzione sulla base del parametro dell’attività prevalente, ma vale il principio della doppia iscrizione, con conseguente assoggettamento a doppia
contribuzione, presso la Gestione Separata per i compensi di lavoro autonomo e presso la gestione commercianti per il reddito d’impresa.

Mentre, con riferimento ai familiari coadiutori che, oltre ad esercitare lavoro autonomo, per il quale vale l’obbligo della iscrizione presso la Gestione Separata, partecipino personalmente, con abitualità e prevalenza, al lavoro dell’azienda commerciale, si è affermato che devono essere iscritti anche alla gestione commercianti, a cura del socio amministratore, onde evitare che la loro prestazione lavorativa venga sottratta alla contribuzione previdenziale,
grazie allo schermo societario.

Gli effetti della politica di universalizzazione delle tutele si sono nel tempo rivelati notevolmente estesi, al punto che si è giunti anche ad affermare che il rapporto di lavoro dei direttori generali delle aziende sanitarie locali e ospedaliere, instaurato dopo la cessazione di precedente rapporto di lavoro dirigenziale pubblico o privato 14 , comporta, ai sensi dell’art. 2, comma 26, l. n. 335 del 1995, l’iscrizione obbligatoria alla Gestione Separata Inps, cui vanno versati i contributi, nei limiti dei massimali di cui all’art. 3, 7° comma, d.lgs. n. 181 del 1997, a carico dell’azienda per la quale l’incarico viene
svolto, con recupero della quota a carico dell’interessato.

Nel qual caso, ancora può dirsi coerente l’imposizione dell’iscrizione alla Gestione Separata, in luogo del regime previdenziale venuto meno per cessazione del precedente rapporto di lavoro, con le dichiarate finalità della politica di universalizzazione.

Una eterogenesi dei fini nell’attuazione della politica di universalizzazione La tendenza espansiva di tale politica, insita nella intentio legis, per una sorta di eterogenesi dei fini, ha tuttavia determinato il sorgere di problemi che non sembrava nemmeno potessero ipotizzarsi.

Un caso eclatante si è verificato per i rapporti di lavoro collocabili nell’ambito
della c.d. parasubordinazione, nei quali l’applicazione tout court dell’universalizzazione ha rivelato esigenze di tutela per soddisfare le quali la Cassazione si è dovuta produrre in un autentico virtuosismo interpretativo.

Con specifico riferimento alle collaborazioni coordinate e continuative in regime di monocommittenza, infatti, la Corte 16 ha ritenuto che esse – per quanto caratterizzate dall’esistenza di un unico ed esclusivo rapporto tra prestatore e committente – si debbano accomunare a prestazioni di lavoro autonomo, per cui in ipotesi di omesso versamento dei contributi non può trovare applicazione il principio di automaticità delle prestazioni, sancito dall’art. 2116, 1° comma, c.c., a favore dei soli lavoratori subordinati. Ne deriva che, se il committente unico non versa i contributi dovuti, il prestatore rimane assolutamente privo di copertura assicurativa, con buona pace di ogni lodevole intento a sostegno della politica di universalizzazione.


La soluzione trovata dalla Corte per porvi riparo è avventurosamente complessa. Ritenendo che nelle collaborazioni coordinate e continuative, soggette al regime previdenziale della Gestione Separata Inps, l’obbligazione contributiva grava sul collaboratore, a cui favore l’art. 2, comma 30, l. n. 335 del 1995 dispone, con carico sul committente, una sorta di “accollo privativo
ex lege nella misura di due terzi dell’importo dovuto all’ente previdenziale”, la Corte afferma che, in caso di omissione contributiva imputabile al committente, sussiste un qualificato interesse del collaboratore all’integrale adempimento dell’obbligazione contributiva e, in quanto debitore, ai sensi dell’art. 1236 c.c., gli va riconosciuta la facoltà di rinunciare all’effetto privativo dell’accollo, assumendo su di sé l’intero adempimento del debito contributivo.
Con tale argomentare la Corte è stata costretta a ricercare nell’ambito dei principi generali, ai sensi dell’art. 12, comma 2, disp. prel. c.c., lo strumento giuridico che consente all’iscritto alla Gestione Separata di rinunciare all’effetto liberatorio dell’accollo sul committente, affermando di averlo ritrovato in un «principio generale del sistema dei rapporti obbligatori», consistente nella tutela dell’interesse del debitore all’adempimento personale e alla liberazione mediante adempimento 18, in tutte le situazioni nelle quali l’interesse del debitore a rendere la prestazione assume rilievo maggiore rispetto a quello del creditore di riceverla, in considerazione di aspettative meritevoli di protezione secondo l’ordinamento giuridico.

La peculiarità della fattispecie, che per altro potrebbe essere superata con una più semplice ricostruzione ermeneutica, ove solo si ritenesse di equiparare le collaborazioni in regime di monocommittenza al lavoro subordinato anziché a quello autonomo, assume valore emblematico della potenziale problematicità che l’espansione della politica di universalizzazione delle tutele può subire per effetto di una eterogenesi dei fini sottesa al rischio di insorgenza di un dogmatismo giurisprudenziale.

La percezione di una universalizzazione dei costi più che delle tutele L’analisi della giurisprudenza consente di constatare che la politica di universalizzazione riesce a mantenersi coerente con le proprie finalità solo quando vada effettivamente a colmare un vuoto normativo di tutela previdenziale, mentre finisce con il produrre effetti distorsivi laddove si traduca nell’imposizione di obblighi contributivi senza una correlata ponderazione dei benefici previdenziali.

Effetti distorsivi di cui sono bersaglio privilegiato i liberi professionisti, i quali nutrono “naturale” propensione al rischio, per quanto attiene all’aleatorietà nella produzione del reddito professionale, ma altrettanto naturale avversione ai costi percepiti come inutili imposizioni, sostanzialmente “a fronte di nulla”, ravvisando negli obblighi contributivi alla Gestione Separata soltanto degli iniqui balzelli.

I liberi professionisti, che svolgono contemporaneamente attività di lavoro dipendente e attività libero-professionale, ad avviso della Suprema Corte 20 , sono obbligati ad iscriversi alla Gestione Separata dell’Inps alla quale, sui proventi derivanti dall’attività libero-professionale, devono versare la contribuzione, anche quando sugli stessi proventi versano il contributo integrativo alla cassa di previdenza categoriale di appartenenza. Circostanza che la giurisprudenza esclude possa costituire una duplicazione di tutele previdenziali, sulla base della distinzione della natura del contributo integrativo, dovuto anche dai non iscritti alla cassa di categoria e ripetibili dalla clientela, rispetto al contributo soggettivo, dovuto solo dagli iscritti e diretto a costituire il montante contributivo.

Tuttavia, da parte della generalità dei liberi professionisti, tale situazione viene per lo più percepita come un aggravio oneroso dei costi della professione, strettamente correlato al carico tributario che va a falcidiare i compensi che faticosamente si accumulano in un reddito già di per sé aleatorio e fonte di preoccupazione, specie nelle odierne difficili contingenze economiche.

L’argomento dell’inutile assoggettamento ad obblighi contributivi, che nella sostanza assumono il significato di un ulteriore imposizione tributaria, nel momento in cui rispetto ad essi non ci si possa attendere il corrispettivo di una reale utilità sul piano delle prestazioni previdenziali, in sede contenziosa viene confutato con il semplice richiamo all’assenza di collegamento sinallagmatico fra contribuzioni e prestazioni previdenziali.


Ma la questione che si pone, evidentemente, è ben altra e si riassume nel seguente interrogativo: può ritenersi coerente, con il manifestato intento di garantire una copertura assicurativa alle ulteriori (e compatibili) attività svolte dal libero professionista, l’imposizione della iscrizione alla Gestione Separata quando da essa l’assicurato non può nutrire speranza di ricavare concreti benefici previdenziali pur avendone sopportato i costi?

La funzione della previdenza sociale, come ha insegnato all’indomani dell’entrata in vigore della Costituzione autorevole dottrina 22 , si articola fra copertura assicurativa dei rischi e soddisfazione dei bisogni.

Nel linguaggio assicurativo, nutrire avversione al rischio equivale all’individuazione di un evento futuro ed incerto che si percepisca come foriero di pregiudizio, per cui il soggetto che ne percepisce l’esposizione è indotto ad affrontare i costi della sua neutralizzazione.

Analogamente la prevedibilità di bisogni futuri, anche nell’ambito delle assicurazioni sociali, predispone favorevolmente il soggetto che vi è esposto a farsi carico degli oneri contributivi.

È del tutto evidente che nelle assicurazioni facoltative nessuno si assicurerebbe, pagando il relativo premio, per un rischio del quale non abbia
percezione. Ragione per la quale, nelle assicurazioni obbligatorie, la previsione legale dell’obbligatorietà risponde proprio all’esigenza di ovviare ad una percezione inadeguata e insufficiente del rischio connesso ad eventi le cui conseguenze meritano la previsione di una copertura assicurativa.

Il sistema della previdenza forense ha saputo rendersi interprete di tali presupposti del fondamento solidaristico dell’obbligatorietà dell’assicurazione sociale di categoria, attraverso la previsione del suo carattere esclusivo, in automatica conseguenza dell’iscrizione all’albo professionale, che impedisce l’effetto espansivo della politica di universalizzazione delle tutele previdenziali.

Una politica concreta e giusta allorché si debba colmare un effettivo vuoto di tutela, nel qual caso la percezione sociale dei rischi da neutralizzare e dei bisogni da prevenire trova giustificazione nei doveri costituzionali di solidarietà sanciti dal combinato disposto degli artt. 2 e 38 Cost., ma che assume il significato di un solo di un mito astratto quando, anziché universalizzare le tutele, si risolva in una universalizzazione dei costi.


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