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Sommario: 1. Introduzione. – 2. Libere professioniste e maternità. – 3. La cosiddetta maternità a rischio. – 4. Il nuovo articolo 70 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151. – 5. Considerazioni conclusive.
1. Premessa
La tutela accordata alla lavoratrice gestante e madre mira a salvaguardare la salute fisica della donna e del bambino, unitamente al complesso rapporto che si instaura tra madre e figlio fin da prima della nascita e nei primi mesi di vita, e ad impedire che possano, dalla maternità e dagli impegni connessi alla cura del figlio, derivare conseguenze negative e discriminatorie per la lavoratrice.
La disciplina, spiega la Corte costituzionale, protegge i diritti di entrambi e di entrambi tutela la personalità e la salute: vuole garantire al bambino il suo diritto all’assistenza materna e a ricevere le attenzioni e le cure affettive di cui necessita; vuole al contempo assicurare alla madre lavoratrice la possibilità di vivere questa fase della sua esistenza in salute e senza una radicale riduzione del tenore di vita che il suo lavoro le ha consentito di raggiungere e ad evitare, quindi, che alla maternità si ricolleghi uno stato di bisogno economico.
In altri termini, la preoccupazione essenziale che orienta il legislatore nella scrittura della normativa in materia è consentire alla donna di vivere questo delicato momento in piena serenità, così che non vengano a a frapporsi «né ostacoli, né remore, alla gravidanza e alla cura bambino nel periodo di puerperio»1.
Le libere professioniste iscritte ad ente previdenziale categoriale hanno visto attribuirsi la titolarità del diritto alla tutela per maternità solamente nel 1990 con una disciplina che, novellata nel 2003, si preoccupava per vero solamente dei pregiudizi economici che potrebbero derivare alla lavoratrice in dipendenza del fatto della gravidanza e del puerperio riconoscendo loro il diritto all’erogazione di una indennità parametrata ai redditi dichiarati.
Con l’articolo 2, comma 1, lettera v), del decreto legislativo n. 105 del 30 giugno 2022, attuativo della direttiva (UE) numero 2019/1158 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 giugno 2019, relativa all’equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza, abrogativa della precedente direttiva in materia2 , però, il legislatore si esprime in controtendenza e, colmando una lacuna rimasta irrisolta per troppo tempo nell’ordinamento, estende alle libere professioniste la tutela economica per la c.d. maternità aggravata in ogni caso di gravi complicanze della gestazione o di preesistenza di forme morbose che possano essere peggiorate dallo stato di gravidanza, riconoscendo protezione anche al valore della salute di madre e figlio.
2. La tutela per la maternità delle libere professioniste
Il diritto all’assistenza per maternità riservato alle lavoratrici libere professioniste ha una storia relativamente recente. Solo nel 1987, infatti, con la legge 29 dicembre 1987, n. 546, si è pervenuti al riconoscimento dell’indennità di maternità per le lavoratrici autonome, intendendosi per tali, però, unicamente le coltivatrici dirette, le mezzadre e le colone, le artigiane e le esercenti attività commerciali.
Tre anni più tardi lo stesso diritto è stato attribuito anche alle libere professioniste con la legge 11 dicembre 1990, n. 379, che ha riconosciuto la tutela normativa ed economica per l’intero evento della maternità, inteso come complesso di accadimenti, dalla gravidanza, alla nascita al puerperio, accordando ad ogni iscritta ad una cassa di previdenza e assistenza per i liberi professionisti 3 , di cui alla tabella A allegata alla legge, per gli ordinari cinque mesi comprensivi della data del parto e costituenti, per le lavoratrici dipendenti, il periodo minimo di astensione obbligatoria dal lavoro 4 . Il decreto legislativo n. 151 del 26 marzo 2001, c.d. Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, è poi intervenuto recependo, tra le altre, la legge del 1990 appena citata, confluita nel Capo XII del Testo unico.
A tredici anni dalla sua introduzione, la legge 15 ottobre 2003, n. 289, ha corretto la disciplina della maternità per le libere professioniste riformando sotto un duplice profilo il criterio di calcolo dell’indennità. Il secondo comma dell’articolo 70 del Testo unico, novellato, prevede che la provvidenza in parola «viene corrisposta in misura pari all’80 per cento di cinque dodicesimi del solo reddito professionale percepito e denunciato ai fini fiscali come reddito da lavoro autonomo dalla libera professionista nel secondo anno precedente» a quello del parto.
Con la nuova ed ancora attuale modalità di calcolo5, il legislatore ha voluto impedire che rientrassero nella base di calcolo redditi diversi da quelli derivanti da lavoro autonomo professionale e rideterminare il dies a quo per l’individuazione del periodo utile al calcolo reddituale, individuato nella data di presentazione della domanda al fine di evitare la variabilità, seppure limitata, del periodo stesso 6.
Dall’applicazione della normativa menzionata sono scaturite questioni risolte e chiarite dalla giurisprudenza, anche costituzionale, di significativo rilievo pratico la cui analisi appare utile al fine di compiutamente delineare lo sfondo su cui si è inserita la novella apportata dal decreto legislativo numero 105 del 2022 e correttamente interpretarne i confini applicativi 7 .
Uno dei temi principali, relativo alle fattispecie in cui la professionista, quanto meno per una parte del periodo potenzialmente coperto dall’indennità, non risulti iscritta a nessuna cassa previdenziale di aggravate dallo stato di gravidanza è stato deciso dalla Suprema Corte di Cassazione che, con orientamento ormai consolidato, ha precisato che l’indennità possa essere frazionata, e così ridotta, in ragione dei mesi effettivi di copertura contributiva 8 e lo stesso principio è stato espresso in altre occasioni anche rispetto alla circostanza che il periodo di copertura fosse in parte precedente all’entrata in vigore della legge n. 379/1990 9.
Altra questione discussa è stata quella relativa al cumulo delle indennità di maternità provenienti da diverse fonti previdenziali, soprattutto quando la libera professionista sia titolare anche di un rapporto di lavoro a tempo definito.
L’articolo 71 del Testo Unico dispone semplicemente che la domanda sia corredata da una dichiarazione della professionista attestante l’inesistenza del diritto all’indennità ad altro titolo e la Cassazione ha chiarito come la formulazione letterale della disposizione non consenta alla Cassa professionale previdenziale «di erogare il trattamento di maternità allorché la lavoratrice abbia già goduto per lo stesso titolo di un trattamento a carico di altro ente», avendo già ottenuto la provvidenza in parola in virtù di un rapporto di lavoro ulteriore e diverso 10.
La stessa Corte precisa che il concetto di «tenore di vita», al cui mantenimento la libera professionista ha diritto anche nel periodo di maternità secondo la giurisprudenza costituzionale citata in apertura, «non è sovrapponibile a quello di livello retributivo goduto in senso stretto, essendo valutabile nel suo complesso e tenuto conto di plurimi criteri di giudizio»; aggiungendo inoltre che «non è neppure automaticamente estensibile una giurisprudenza formatasi in gran parte in ordine alle prestazioni di maternità godute in relazione ad una singola professione o ad un singolo rapporto di lavoro autonomo o subordinato» al caso controverso 11.
3. La cosiddetta maternità a rischio
Fino al decreto legislativo 105 del 2022, le libere professioniste non avevano diritto ad una estensione della tutela per maternità in caso di gravi complicanze della gravidanza o di rischi di aggravamento di preesistenti forme morbose.
La stessa Corte costituzionale, nella sentenza numero 181 del 1993, legittimava questa differenza di trattamento rispetto alle lavoratrici subordinate – che forse potremmo meglio definire anche come vuoto di tutela in tema di maternità aggravata per le lavoratrici autonome in senso ampio –, precisando come la disciplina applicabile alle dipendenti che consente loro di astenersi dal lavoro e di percepire la relativa indennità per il periodo antecedente agli ultimi due mesi di gravidanza, fino a coprire anche l’intera durata gestazionale, e superare anche i tre mesi post partum, ove ricorrano le condizioni di legge, è scritta sulla base delle peculiarità proprie del rapporto di lavoro subordinato e non è esportabile per i rapporti di lavoro autonomo.
In particolare, che l’astensione obbligatoria dal lavoro solo per le subordinate è prescritta dall’art. 17 del Testo unico anche per uno o più periodi anteriori agli ultimi due mesi di gravidanza, in tre fattispecie: quando la lavoratrice dipendente sia occupata in lavori che, in relazione all’avanzato stato di gravidanza, siano da ritenersi gravosi o pregiudizievoli; quando vi siano gravi complicanze della gestazione o forme morbose preesistenti che si presume possano essere aggravate dallo stato
di gravidanza; quando le condizioni di lavoro o ambientali si ritengano pregiudizievoli per la salute della donna e del bambino e la lavoratrice non possa essere spostata ad altre mansioni 12.
Tutti questi accertamenti sono demandati all’Ispettorato del lavoro territorialmente competente e «non possono essere compiuti nei riguardi delle lavoratrici autonome, nonostante un (teoricamente ipotizzabile) intervento anomalo dell’Ispettorato» 13 . In forza, pertanto, di un argomento pratico organizzativo, e della considerazione che il legislatore, pur essendo intervenuto più recentemente, con la legge numero 379 del 1990, ha sì esteso alle libere professioniste sia l’indennità per i due mesi prima del parto ed i tre mesi successivi, sia quelle per i casi di adozione, di affidamento e di aborto, ma lo stesso non ha fatto per il trattamento di maternità aggravata previsto per le lavoratrici subordinate, la Consulta riteneva ragionevolmente giustificata detta disparità di trattamento.
Un aspetto, però, è stato sin da allora ben evidenziato: il rischio che le lavoratrici autonome, per la mancanza di un’astensione obbligatoria dal lavoro e per fronteggiare il bisogno di personali esigenze economiche, a proseguire l’impegno lavorativo anche nel periodo anteriore agli ultimi due mesi di gravidanza, pur in presenza di complicanze o di altre forme morbose, «deve far riflettere seriamente circa il terzo profilo della denunziata illegittimità costituzionale, quello del contrasto della norma con l’art. 32 della Costituzione» 14 .
4. Il nuovo articolo 70 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151
L’articolo 2, comma 1, lettera v), del decreto legislativo n. 105 del 30 giugno 2022, entrato in vigore il successivo 13 agosto, in attuazione della direttiva (UE) numero 2019/1158 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 giugno 2019, relativa all’equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza, dopo trentadue anni dal riconoscimento della tutela previdenziale categoriale per la maternità delle libere professioniste, interviene dettando quella «migliore disciplina» auspicata dalla Consulta nella nota pronuncia 181 del 1993 a protezione della c.d. maternità aggravata.
Il primo comma dell’articolo 70 del Testo unico, infatti, ora si compone di due periodi che tutelano eventi diversi: con il primo si riconosce il diritto all’indennità ordinaria di maternità valevole per i due mesi antecedenti e i tre mesi successivi alla data del parto, con il secondo si istituisce il diritto all’estensione della stessa indennità anche per i periodi antecedenti i due mesi prima del parto «nel caso di gravi complicanze della gravidanza o di persistenti forme morbose che si presume possano essere aggravate dallo stato di gravidanza, sulla base degli accertamenti medici di cui all’articolo 17, comma 3» 15.
La novella normativa introduce così la possibilità, in favore delle libere professioniste, di ricevere l’indennità anche per periodi antecedenti i due mesi prima del parto, nel caso di gravidanza a rischio 16 . L’unico requisito prescritto a ciò dalla legge riguarda gli accertamenti medici che devono sorreggere la domanda: con il testuale riferimento alle disposizioni dell’articolo 17, comma 3, del Testo unico, si richiede, infatti, che la lavoratrice autonoma in senso lato debba produrre alla
cassa previdenziale cui è iscritta l’accertamento medico della Asl che individua il periodo indennizzabile per i casi di gravi complicanze della gravidanza o di persistenti forme morbose che si presume possano essere aggravate dallo stato di gravidanza 17 .
Quanto agli eventi e ai rischi indennizzabili, il legislatore ha esteso alle libere professioniste le ipotesi riportate alla lettera a) del secondo comma dell’articolo 17, la norma base dell’estensione del congedo di maternità per fattispecie a rischio, escludendo l’applicazione delle altre due casistiche di indennità per mansioni, di cui alle successive lettere b) e c) 18 , poiché, condivisibilmente, lì si fa riferimento e si sottintende l’esistenza di un rapporto di lavoro non autonomo, in cui sia possibile per un soggetto terzo esercitare lo ius variandi e il potere di repêchage sulla lavoratrice ed in cui siano predeterminati il luogo e le condizioni di lavoro, ritenute pregiudizievoli 19 .
La libera professionista non può essere da nessuno adibita a mansioni diverse e per definizione autodetermina ogni aspetto della sua prestazione di lavoro, di talché ogniqualvolta ritenga pregiudizievoli per la propria salute ovvero per quella del figlio le condizioni di lavoro o ambientali in cui opera essa stessa che unicamente può decidere di organizzarsi diversamente ed evitare di esporsi a rischi per la gravidanza.
La disciplina di nuova introduzione non regolamenta in modo dettagliato la prestazione, limitandosi, come si è visto, ad istituire il diritto alla indennizzabilità della maternità a rischio e ad imporre, anche per libere professioniste, come condizione e requisito per la presentazione della relativa domanda amministrativa, l’accertamento medico della Asl territorialmente competente.
Nulla dice, ad esempio, per il caso di concorrenza tra indennità ordinaria ed estesa, o aggravata, che potrebbe verificarsi allorché il periodo tutelato dall’accertamento medico della ASL ricadesse parzialmente o totalmente nel consueto periodo ordinario di maternità, ovvero nei due mesi prima e nei tre mesi dopo il parto. Considerato, per vero, che i due mesi antecedenti la data del parto sono definibili solo dopo la nascita del figlio, ben potrebbe accadere che, pure se l’accertamento medico della Asl abbia disposto un periodo di riposo precedente rispetto ai due mesi ordinari, il parto avvenga in data anteriore rispetto a quella ginecologicamente prevista.
In casi del genere, quindi, verrebbe ricalcolato il dies a quo della tutela ordinaria con il rischio di una parziale sovrapposizione di periodi indennizzabili. Con una motivazione suscettibile di essere applicata analogicamente anche per le libere professioniste, con la circolare 27 ottobre 2022, numero 122, l’INPS ha chiarito che qualora il periodo indennizzabile tutelato dall’accertamento medico della ASL dovesse ricadere parzialmente o totalmente nell’ordinario periodo indennizzabile di maternità, la nuova tutela della maternità aggravata sarebbe assorbita in quella classica 20 .
Sotto altro profilo, nulla viene spiegato con riferimento ai requisiti contributivi necessari per fruire della nuova tutela. Come la giurisprudenza ha chiarito che rispetto alla maternità ordinaria per le libere professioniste è sufficiente che la professionista sia iscritta alla cassa categoriale di previdenza, abbia presentato apposita domanda, accolta dall’ente stesso.
È pertanto ragionevole ritenere che la stessa condizione venga richiesta anche per l’erogazione dell’indennità di maternità anticipata. Non viene esplicitato ulteriormente, ma anche per tali periodi antecedenti di maternità non è richiesta, e non potrebbe essere altrimenti, l’astensione dall’attività lavorativa e si deve ritenere che la relativa indennità venga calcolata ed erogata con le stesse modalità previste per i consueti periodi di tutela della maternità ordinaria delle libere professioniste.
Del resto, è lo stesso comma 2 dell’articolo 70 del Testo unico che si riferisce alle prestazioni di maternità di cui al primo comma genericamente intese, per tali dovendosi quindi intendere sia la maternità ordinaria sia quella anticipata 21 .
Nel silenzio della novella, da ultimo, deve ritenersi che anche all’indennità di maternità di nuova introduzione si applichino gli stessi limiti, minimo e massimo, dettati per l’indennità ordinaria.
È la stessa formulazione testuale dell’articolo 70, infatti, a far concludere per l’inevitabilità di tale conclusione. Il terzo comma, invero, quando prescrive che «in ogni caso l’indennità di cui al comma 1 non può essere inferiore a cinque mensilità di retribuzione calcolata nella misura pari all’80 per cento del salario minimo giornaliero stabilito dall’articolo 1 del decreto-legge 29 luglio 1981, n. 402, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 settembre 1981, n. 537, e successive modificazioni, nella misura risultante, per la qualifica di impiegato, dalla tabella A e dai successivi decreti ministeriali di cui al secondo comma del medesimo articolo (art. 1, comma 3, legge n. 379/1990)» 22 si riferisce esplicitamente all’indennità istituita nel primo comma, per tale quindi dovendosi intendere tanto quella ordinaria quanto quella anticipata.
Ugualmente, il comma 3-bis, specifica che «l’indennità di cui al comma 1» non può essere superiore a cinque volte l’importo minimo dell’indennità di maternità – secondo la previsione del precedente comma terzo – 23 , ferma restando la potestà per ogni singola cassa professionale di elevare l’importo massimo in relazione alle capacità reddituali e contributive della categoria professionale e compatibilmente con gli equilibri finanziari dell’ente stesso.
Ciò significa che, salve disposizioni migliorative dettate dalle specifiche casse professionali, qualora la libera professionista abbia diritto a percepire il trattamento previdenziale anche per i mesi precedenti il periodo ordinario – e quindi i due mesi anteriori alla data del parto – e, in ipotesi, anche per l’intera durata della gravidanza – come ben potrebbe verificarsi nel caso di sussistenza di «persistenti forme morbose che si presume possano essere aggravate dallo stato di gravidanza», l’indennità mensile cui avrebbe diritto non potrebbe superare, nel massimo, la somma corrispondente a cinque volte l’importo minimo dell’indennità di maternità.
5. Considerazioni conclusive
L’invito mosso dalla Corte costituzionale al legislatore, con la citata sentenza 181 del 1993, è stato accolto solamente nel 2022 con l’articolo 2, comma 1, lettera v), del decreto legislativo n. 105, in commento. Quella manchevole disciplina della tutela della maternità delle libere professioniste, che dimenticava di proteggere la lavoratrice ogni volta che, per motivi preesistenti o sopravvenuti, rischiasse di a salute propria o del figlio lavorando, è stata finalmente completata con la previsione del diritto alla maternità anticipata c.d. a rischio.
La novella legislativa che ha introdotto la tutela indennitaria anticipata per le libere professioniste che si trovino ad affrontare una gravidanza a rischio per la salute della donna e/o del figlio, per fatti sopravvenuti e relativi alla gestazione ovvero per patologie preesistenti che rischino di esserne aggravate, rappresenta un’importante conquista per la parità di genere e colma una lacuna rimasta per troppo tempo scoperta.
Nonostante la sintesi della previsione di legge 24, che sarà integrata dagli atti amministrativi che ciascuna cassa di previdenza categoriale adotterà, la nuova normativa rappresenta un indubbio passo in avanti rispetto alla promozione e alla protezione della maternità, alla lotta contro la discriminazione di genere, al rafforzamento delle tutele per le lavoratrici autonome, nel confronto con le subordinate. Un indubbio passo in avanti, cioè, per affermare nei fatti una cultura giuridica di libertà, la cui preoccupazione e la cui mira principale è garantire la libera condizione della persona.
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