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L’errore dell’ente previdenziale e l’affidamento dell’assicurato nello svolgimento del rapporto previdenziale. Indebita percezione del trattamento pensionistico e ripetibilità

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Daniela Calafiore

L’area di agibilità degli Enti previdenziali nell’azione finalizzata a recuperare le prestazioni erroneamente erogate costituisce, storicamente (sin dall’art. 80 R.D. n. 1422/1924), uno snodo delicato dell’azione amministrativa.

In particolare, il generale potere di riesaminare gli atti di concessione delle prestazioni, se da una parte risponde all’obbligo di rispettare il principio di legalità e di buon andamento dell’amministrazione, dall’altra comporta l’inevitabile sacrificio dell’interesse del soggetto tutelato a mantenere quanto ha ricevuto a titolo di prestazione previdenziale in virtù dell’erronea determinazione amministrativa. Interesse ovviamente escluso dalla condotta intenzionalmente finalizzata a percepire trattamenti previdenziali mediante artifici od omissioni consapevoli. Il bilanciamento di tali contrapposti interessi è tradizionalmente regolato da specifiche soluzioni legislative in funzione, dunque, derogatoria rispetto al generale disposto dell’art. 2033 c.c.

In tale contesto affiora, insieme ad altri elementi caratterizzanti l’indebito previdenziale, anche il ruolo attribuito all’affidamento del privato accipiens nell’operato dell’Ente previdenziale.

In dottrina (F. Roselli, Appunti sull’affidamento come principio generale vincolante anche i soggetti pubblici, su Giustizia Civile, fasc. 2, 1° febbraio 2021, pag. 377), pur nella consapevolezza dell’assenza di una disciplina che positivizzi il principio di coerenza nell’azione dei pubblici poteri (o almeno il divieto di entrare in contraddizione con il proprio operato), sui quali ruota il concetto di affidamento nella condotta dei soggetti pubblici, si è ritenuto di poterne ravvisare il fondamento di diritto positivo nel campo del diritto privato e precisamente nella “[…] clausola generale di buona fede, intesa non solo come criterio di valutazione della condotta delle parti nella fase di attuazione del rapporto obbligatorio (art. 1175 c.c.) e in particolare del rapporto contrattuale (art. 1375 c.c.), bensì come generale regola di comportamento dei soggetti – privati e pubblici –, i quali in ogni contatto sociale sono astretti ai doveri di chiarezza, lealtà e correttezza ed allo spirito di cooperazione per il soddisfacimento delle reciproche aspettative.”

Certo il terreno previdenziale è terreno difficile perché trovi spazio un concetto di tale natura, occorre pur sempre misurarsi con il rigore della legislazione di stampo finanziario, dove l’interpretazione non può che essere rigorosa. Semmai, è nella interpretazione della specifica normativa di settore che è affiorata l’esigenza di comporre la tensione tra affidamento ed obbligo di restituire, come dimostra l’evoluzione normativa e giurisprudenziale di settore. L’area delimitata dall’art. 80 del Regio Decreto 28 ago- sto 1924, n. 1422, che consentiva la soluti retentio era in verità piuttosto ristretta, posto che ([…] successive rettifiche di eventuali errori, che non siano dovuti a dolo dell’interessato, non hanno effetto sui pagamenti già effettuati [...]).

La giurisprudenza si fece carico di operare il bilanciamento tra erronea attività dell’amministrazione ed aspettative del pensionato, ciò attraverso l’elaborazione del principio secondo cui, nel rispetto del pieno potere di annullamento da parte dell’ente, era il decorso del tempo che fungeva da garanzia di stabilità degli effetti in favore dell’accipiens (Cassazione Sez. 2, Sentenza n. 2712 del 10/11/1967).

Nessuna deroga si poneva rispetto ai principi generali sul potere di annullamento in materia di assegnazione di pensioni d’invalidità e vecchiaia; tale potere pubblico, unilateralmente esercitato, doveva essere esercitato in tutte le ipotesi di illegittimità che inficiavano l’atto all’origine, ma si attribuiva al decorso del termine di un anno dall’avviso all’interessato la generale e distinta funzione di determinare il perfezionamento dell’atto di assegnazione.

Il decorso dell’anno conferisce una definitività che si concreta nella stabilità necessaria ad investire l’interessato di una posizione assicurativa giuridicamente tutelabile come diritto, ma che in nessun modo incide sulla validità (e cioè legittimità) della costituzione di siffatta posizione assicurativa e, per altro verso, la funzione di temperare i normali effetti di un annullamento parziale, quale deve definirsi la – rettificazione – menzionata dalla norma, annullamento che, se operato oltre l’anno, ed in vista di errori non deter- minati da dolo dell’interessato, non dà luogo a ripeti- zione dei pagamenti già effettuati.

In altri termini, ogni qual volta ricorresse l’ipotesi di un atto amministrativo nullo in radice per violazione dei presupposti di legge sui quali lo stesso avrebbe dovuto fondarsi, non poteva negarsi l’esistenza del pubblico interesse al suo annullamento per la dovuta osservanza dell’ordinamento in vigore, con l’unica limitazione de- gli effetti ripristinatori, non potendo pretendersi la restituzione di quanto erogato qualora l’azione di annullamento intervenisse oltre l’anno dalla comunicazione dell’avviso di liquidazione. Peraltro, l’ultima parte del terzo comma dell’art. 80 del R.D. 28 agosto 1924, n.1422, non trovava applicazione solo con riferimento alla liquidazione delle pensioni, ma anche riguardo al riconoscimento del diritto a pensionamento, nell’uno e nell’altro caso operando il temperamento degli effetti normali conseguenti all’esercizio dell’ampio potere di annullamento, nella ipotesi particolare della eliminazione, oltre l’anno, di errori relativi alla liquidazione, non dovuti a dolo dell’interessato. (Cass. n. 263 del 30/01/1969).

In tale contesto, il principio applicato era quello secondo cui il potere di annullamento può essere esercitato, da parte dell’ istituto di previdenza in tutte le ipotesi di illegittimità e, quindi, anche in relazione ai vizi che inficino l’atto di assegnazione sin dall’origine e così pure il temperamento previsto dalla norma suindicata – per il quale le ‘rettifiche’, dopo il decorso dell’anno, di errori non dovuti a dolo dell’interessato, non hanno effetto sui pagamenti già effettuati – trovava applicazione in tutte le dette ipotesi e non nei soli casi di erronea valutazione di fatti già noti ovvero di erronea interpretazione o applicazione di norme. (Cass., sez. Lavoro, n. 8660 del 24/11/1987).

Può dirsi che la disciplina, certamente semplice da applicare in quanto basata sulla necessità di accertare, in fatto, solo il decorso del tempo e l’assenza di dolo, era ri- ferita ad una attività amministrativa non particolarmente complessa per numero di posizioni assicurative e plura- lità di gestioni, per cui non suscitava allarme l’effetto di consentire la soluti retentio dell’indebito. In definitiva, un bilanciamento accettabile, figlio del suo tempo. Su questo assetto si inserisce l’art. 52 l. n. 88 del 1989, legge che assume il ruolo di mezzo di ristrutturazione dell’attività dell’INPS. Questa volta il soggetto erogatore viene regolato con una disciplina tendenzialmente volta alla valorizzazione delle risorse dell’INPS sul presupposto che in esse, e non in fattori esterni, vadano ricercate le soluzioni per una gestione ottimale, caratterizzata, cioè, da qualità dei servizi e da economicità dei costi, posto che l’economicità e l’imprenditorialità richiamate dall’art. 1, comma 2, legge n. 88 del 1989 fungono da criteri generali di gestione riferiti specificamente alle principali attività dell’Ente e cioè l’acquisizione dei con- tributi e l’erogazione delle prestazioni (vd. sul tema: Digesto - Commerciale - Istituto nazionale della previdenza sociale di Sergio Ciannella Lorenzo Zoppoli, 1992). In tale contesto organizzativo, la specifica disciplina dell’indebita erogazione di trattamenti pensionistici viene fatta oggetto di previsione centrale, non più relegata a livello regolamentare, e la formulazione dell’articolo si correla in modo evidente all’assetto organizzativo dell’Ente, ispirato alla autonomia delle singole gestioni, preoccupandosi di coprire il potere di annullamento e/o rettifica delle pensioni, per qualsiasi tipo di errore, in ogni sede: di attribuzione, erogazione o riliquidazione della prestazione.

Scompare l’indicazione del tempo massimo di esercizio dell’annullamento, ma si mantiene il diritto a non restituire in mancanza di dolo dell’accipiens.

Si notò in dottrina (Nogler, Giur. It., 1993, 2 in commento a Cass. n. 217 del 1992 e n. 2740 sempre del 1992) che con l’art. 52 della L. n. 88/1990, nell’interpretazione della Corte di cassazione, il legislatore non aveva voluto porre limite alcuno al divieto di ripetizione di somme da parte degli enti erogatori, onde l’avverbio «indebitamente» doveva essere interpretato nel senso più ampio possibile, come comprendente qualsiasi riguardo, salvo il limite estremo che il pagamento sia stato fatto in favore di persone non assicurata, ovvero che nei riguardi della stessa non sia stato iniziato un procedimento di liquidazione di un trattamento pensionistico.

La norma sanciva l’irripetibilità con riguardo ad ogni indebita erogazione in cui l’ente sia incorso per qualsiasi tipo di errore, compreso quello di diritto commesso dall’ente nell’attribuzione, nella erogazione o nella riliquidazione della prestazione previdenziale. Solo il dolo del pensionato assurge a causa di inappli- cabilità della disposizione di cui si discute. Su questo diritto vivente incide l’art. 13 della L. 30 di- cembre 1991, n. 412, rubricato come «norme di interpretazione autentica», con il quale stabilisce, al 1° comma, che le disposizioni del 2° comma dell’art. 52 della L. n. 88 del 1989, «si interpretano nel senso che la sanatoria ivi prevista opera in relazione alle somme corrisposte in base a formale, definitivo provvedimento del quale sia data espressa comunicazione all’interessato e che risulti viziato da errore di qualsiasi natura imputabile all’ente erogatore, salvo che l’indebita percezione sia dovuta a dolo dell’interessato», ed inoltre che «l’omessa od incompleta segnalazione da parte del pensionato di fatti incidenti sul diritto o sulla misura della pensione goduta, che non siano già conosciuti dall’ente competente, consente la ripetibilità delle somme indebitamente percepite».

Il testo inasprisce la posizione dell’accipiens, in relazione alle esigenze di recupero da parte degli enti previdenziali di prestazioni divenute indebite per l’effetto della introduzione di limiti reddituali o altre condizionalità, ed una volta epurato della efficacia retroattiva da Corte Costituzionale n. 39 del 1993 costituisce il dato normativo di riferimento della successiva giurisprudenza.

Nella interpretazione della Corte di cassazione (Cass. n. 5984 del 2022), dunque, l’irripetibilità dell’indebito previdenziale è subordinata al ricorrere di quattro con- dizioni: a) il pagamento delle somme in base a formale e definitivo provvedimento; b) la comunicazione del provvedimento all’interessato; c) l’errore, di qualsiasi natura, imputabile all’ente erogatore; d) la insussistenza del dolo dell’interessato, cui è parificata “quoad ef- fectum” la omessa o incompleta segnalazione di fatti incidenti sul diritto, o sulla misura della pensione, che non siano già conosciuti dall’ente competente, difettando anche una sola delle quali opera la regola della ripetibilità di cui all’art. 2033 c.c.

In sostanza, trascorso il periodo di applicazione del- le disposizioni riferite ad indebiti già esistenti di cui all’art. 1, commi 260 e 261, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure per la razionalizzazione della finanza pubblica) e dell’art. 38, commi 7 e 8, della legge 28 dicembre 2001, n. 448, per le quali era il limite di reddito a fare la differenza tra pensionati protetti e pensionati esclusi dalla possibilità della retentio, entrambe passate indenni dal vaglio di costituzionalità (Corte Costituzionale n. 1 del 2006), si è consolidato un regime di diritto vivente rigoroso, che riduce al minimo le possibilità di ritenere le rate di pensione indebite, anche se il pensionato non ha posto in essere alcuna condotta dolosa e non si è sottratto agli obblighi di comunicazione di dati previsti. Infatti, tutta l’attività che precede la liquidazione della pensione e la comunicazione formale del relativo provvedimento all’interessato si colloca nella fase di provvisorietà di ogni erogazione, per cui l’errore non giustifica alcun affidamento del percettore a trattenere gli importi indebiti. Ed in ogni caso, il percettore deve aver adempiuto ai propri obblighi di comunicazione, altrimenti ciò equivale a dolo.

Peraltro, sul versante dell’approfondimento della tematica dell’errore in cui sia incorso l’Ente e nella concreta rilevanza da attribuire alle molteplici varietà delle situa- zioni emerse nella pratica giudiziaria, la giurisprudenza ha avuto modo di affermare che la L. n. 88 del 1989, art. 52, comma 2, stabilisce che le somme erogate indebitamente a titolo previdenziale non sono ripetibili, se non in presenza di dolo dell’interessato e la L. n. 412 del 1991, art. 13, comma 1, formulato come norma di interpretazione autentica, ma in realtà innovativa (Corte Cost. n. 3 del 1993), integra tale regola, stabilendo che la ripetibilità di cui all’art. 52, comma 2, riguarda le somme indebitamente corrisposte per “errore di qualsiasi natura imputabile all’ente erogatore” e che la ripetibilità sussiste non solo in caso di comprovato dolo nella percezione, ma anche se l’errore sia dovuto ad “omessa od incompleta segnalazione da parte del pensionato” di fatti che egli fosse tenuto a comunicare, salvo risulti che l’ente fosse già a conoscenza di essi. Si è affermato, al riguardo, che l’obbligo dell’I.N.P.S. di procedere annualmente alla verifica dei redditi dei pen- sionati, prevista dalla L. n. 412 del 1991, art. 13, quale condizione per la ripetizione, entro l’anno successivo, dell’eventuale indebito previdenziale, sorge unicamente in presenza di dati reddituali certi, sicché il termine annuale di recupero non decorre sino a che il titolare non abbia comunicato un dato reddituale completo (v. Cass. nn. 3802 e 15039 del 2019; Cass. n. 953 del 2012, ma v. anche Cass. n. 1228 del 2011 e Cass. n. 18551 del 2017).

Si è pure precisato (Cass. n. 18615 del 2021) che nell’indebito previdenziale il dolo non opera nel mo- mento di formazione della volontà negoziale, bensì nel- la fase esecutiva, riguardando un fatto causativo della cessazione dell’obbligazione di durata che non è noto all’ente debitore, dal quale ultimo, in ragione del numero rilevantissimo di rapporti di cui è titolare passivo, non si può ragionevolmente pretendere che si attivi per prendere conoscenza della situazione, personale e patrimoniale, dei creditori senza la collaborazione atti- va di ciascuno di essi (così Cass. nn. 21019 del 2007, 12097 del 2013 e 27096 del 2018).

Se tutto ciò è certamente ragionevole, forse, per rispondere ad una logica di coerenza, andrebbe verificata la possibilità di tracciare una linea di continuità, nel ri- spetto del canone logico – prima che giuridico – di non contraddizione, tra la disciplina delle conseguenze giuridiche degli atti erronei dell’amministrazione previ- denziale generatori di danni agli assicurati e la disciplina di quei provvedimenti erronei che, al contrario, abbiano arricchito il patrimonio dei medesimi assicurati. La soluzione evidentemente non è scontata perché rientra nella discrezionalità del legislatore, entro certi limiti, la scelta di far ricadere sull’Ente la conseguenza negativa delle proprie erronee determinazioni, mentre, in linea generale, al cittadino che vede leso un proprio diritto dall’amministrazione non può che riconoscersi l’integrale risarcimento del danno subito.

Peraltro, deve darsi atto del livello sovranazionale che influisce sul complessivo quadro normativo. Come in- segna la giurisprudenza della CEDU (Casarin c. Italia – Prima Sezione – sentenza 11 febbraio 2021 (ricor- so n. 4893/13); Romeva c. Macedonia del Nord, n. 32141/10, § 37, 12 dicembre 2019, T£nase c. Moldavia [GC], n. 7/08, § 131, CEDU 2010, e Ble«i© c. Croazia [GC], n. 59532/00, § 67, CEDU 2006 III) il titolare di un interesse patrimoniale sufficientemente riconosciuto e importante da costituire un «bene» ai sensi della norma espressa nella prima frase dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 è tutelato nel caso in cui la pretesa dell’Ente di recuperare l’indebito non sia esercitata rispettando l’affidamento legittimo (buona fede del beneficiario dell’erogazione indebita; provenienza dell’erogazione da Ente pubblico a seguito di procedimento conforme a norma percepibile come tale; erogazione effettuata in via ordinaria per un tempo sufficientemente lungo che conforti la percezione di stabilità e correttezza; l’assenza di clausola di ripetibilità).

Se l’ingerenza oggettiva sul patrimonio del percettore si caratterizza per lo squilibrio generato tra l’interesse pubblico e la posizione del percettore (per l’imposizione di interessi, per la particolare fragilità economica e sociale dello stesso, per l’assenza di meccanismi di rateizzazione) si genera dunque un obbligo risarcitorio in capo allo Stato, che trova dunque le proprie origini nelle modalità di recupero delle somme indebitamente erogate. Tale giurisprudenza, come è noto, è stata esaminata da Corte Costituzionale n. 8 del 2023, in quanto ha dato corpo all’interpretazione dell’art. 1 Prot. addiz. CEDU, invocato dalle ordinanze di rimessione quale parametro interposto, volto a specificare la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost. In tale occasione, la Consulta (punto 10.1) ha rilevato che il tessuto normativo costituito dall’art. 52, comma 2, L. n. 88 del 1989, come modificato dall’art. 13, L. n. 412 del 1991, sfuggirebbe alla ipotetica violazione del legittimo affidamento delineato dalla Corte Euro- pea dei Diritti dell’Uomo, in quanto il diritto vivente avrebbe consacrato il principio di settore dell’irripe- tibilità dell’indebito in carenza di dolo dell’accipiens, senza necessità di percorrere il procedimento di verifica delineato dalla Corte EDU sui presupposti del legittimo affidamenti e ciò in ragione della peculiare protezione derivante dal rilievo del diritto del pensionato ai sensi dell’art. 38 Cost. Fuori dall’ambito pensionistico e dell’art. 2126 c.c. quanto al rapporto di lavoro nullo, la tutela dell’acci- piens non in dolo è presidiata dagli obblighi imposti dagli artt. 1175 e 1337 c.c., utilizzati dalla giurispru- denza di legittimità (Cass. SS.UU. n. 615 del 2021 e n. 12635 del 2019) per salvaguardare l’affidamento riferito alla esattezza ed alla correttezza di informazioni fornite da soggetti che spendono una particolare professionalità e che può concretizzarsi anche nella rateizzazione della restituzione e comunque nella ricerca di condizioni di restituzione sostenibili per il debitore, la cui violazione può comportare l’inesigibilità totale o parziale della restituzione stessa.

In verità, per quanto riguarda il tema d’indagine di queste note e senza voler affrontare i termini complessivi trattati dalla Corte Costituzionale citata, anche all’interno del quadro normativo di settore relativo all’indebito previdenziale, fatto salvo dalla disamina condotta dalla Corte Costituzionale citata, l’interprete si trova davanti ad un quadro normativo composito che rischia di gene- rare antinomie applicative ed al cui interno la nozione di affidamento legittimo può essere affinata per trasformarsi in strumento applicativo utile.

Nella disciplina dell’indebito previdenziale, in verità, la necessità di ricercare un legittimo affidamento non dovrebbe considerarsi ultronea, rispetto alla carenza di dolo ed anzi finisce per giocare un ruolo essenziale in tutti quei casi in cui il meccanismo teorico di irripetibilità di settore è impedito dalla vischiosità costituita dal- lo stato di conoscenza/conoscibilità dei dati necessari a far emergere l’insussistenza del diritto al trattamento in capo al percettore.

È ricorrente, invero, la massima secondo cui il dolo dell’assicurato, idoneo ad escludere l’applicazione delle norme che limitano la ripetibilità delle somme non dovute, in deroga alla regola generale di cui all’art. 2033 c.c., pur non potendo presumersi sulla base del semplice silenzio, che di per sé stesso, non ha valore di causa determinante in tutti i casi in cui l’erogazione indebita non sia imputabile al percipiente, è configurabile nelle ipotesi di omessa o incompleta segnalazione di circo- stanze incidenti sul diritto o sulla misura della pensione, che non siano già conosciute o conoscibili dall’ente competente”. (Cass. n. 8731 del 2019).

Dunque, ferma la non imputabilità al percipiente dell’erogazione, nel caso in cui le circostanze incidenti in parola siano conosciute o conoscibili dall’ente, la ripetizione deve essere esclusa.

A questo punto, però, occorre porsi il problema di come si stabilisce quando l’Ente ha conosciuto o avrebbe potuto conoscere le cir- costanze in parola? Lo stato soggettivo di conoscenza da ricercare è compatibile con la ricorrente affermazione che dall’ente previdenziale debitore, in ragione del numero rilevantissimo di rapporti di cui è titolare passivo, non si può ragionevolmente pretendere che si attivi senza la collaborazione del destinatario della prestazione indebita? Questo aspetto rivela un aspetto critico della disciplina dell’indebito previdenziale che ha, finora, spinto l’in- terpretazione giurisprudenziale verso uno spostamento in favore dell’Ente previdenziale del punto di caduta del bilanciamento tra interesse pubblico alla restituzione del trattamento indebito, a scapito delle garanzie dovute alla posizione del pensionato in buona fede che si trovi coinvolto nell’errore dell’Ente. Una opportuna soluzione potrebbe ravvisarsi, con indubbia coerenza sistematica ed in applicazione del principio logico di non contraddizione, nell’utilizzo del medesimo principio che regola la responsabilità dell’Ente nell’ipotesi in cui abbia leso l’affidamento del cittadino nell’espletamento dell’attività di competenza.

La necessità di tutelare il legittimo affidamento è la medesima sottesa alla fattispecie risarcitoria che la giurisprudenza (Cass. n. 9775 del 1996, n. 1800 del 1999, n. 14593 del 2000; n. 14668 del 2001; n. 3613 del 2002; Cass. n. 8118 del 2008) ricostruisce con riferimento ad un obbligo specifico definito dalla legge che regola l’azione dell’ente amministrativo ed è la lesione di tale obbligo che, congiuntamente all’affidamento che l’assicurato ripone nell’attività amministrativa, integra l’elemento costitutivo del diritto al risarcimento del danno.

In definitiva, attribuire all’Ente la responsabilità ultima dell’errore commesso nonostante la buona fede del percettore ed il rispetto da parte dello stesso degli obblighi di denuncia, là dove le informazioni necessarie ad evitare il pagamento indebito siano disponibili da parte dell’Ente, risponde agli obblighi istituzionali gravanti sull’amministrazione, mentre non ha base normativa l’imposizione di un ulteriore obbligo di collaborazione a carico dell’assicurato.


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