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Il potere di autoregolamentazione della Cassa Forense: i più recenti orientamenti giurisprudenziali

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di Marcello Bella

Nel corso degli ultimi anni e, in particolare, dello scorso anno, la giurisprudenza di merito, ma anche di legittimità e costituzionale, è intervenuta in più occasioni sul tema dei poteri normativi delle Casse di previdenza privatizzate e, in particolare, della Cassa Forense, così consolidando un orientamento circa i poteri di “autodichia” che caratterizzano le associazioni e fondazioni di diritto privato che gestiscono forme obbligatorie di previdenza e assistenza.

La problematica non è mai rimasta sopita, ma anzi è stata oggetto di continua attenzione nelle aule giudiziarie nel corso degli anni successivi alla privatizzazione (operata con il D.Lgs. n. 509/94) e, in particolare, dai primi anni del 2000 in poi, ma solo negli ultimi due-tre anni il concetto sopra richiamato di “autodichia” (pienamente calzante nella fattispecie) è stato affermato chiaramente e con vigore ai vari livelli giudiziari.

Come noto, gli enti previdenziali, a seguito della trasformazione in persone giuridiche private – associazioni o fondazioni -, sono soggetti innanzitutto alla disciplina di cui agli artt. 12 e ss. del codice civile – come previsto espressamente dall’art. 1, comma 2, del decreto legislativo -, che ne prevede l’autonomia statutaria, di auto-organizzazione e regolamentare.

L’art. 2, comma 1, del D.Lgs. n. 509/94 - che ha attuato la delega per il riordino o la soppressione di enti pubblici di previdenza e assistenza, secondo il disposto dell’art. 1, comma 32, della L. n.537/93 -, dispone che gli enti privatizzati hanno “autonomia gestionale, organizzativa e contabile nel rispetto dei principi stabiliti dal presente articolo nei limiti fissati dalle disposizioni del presente decreto, in relazione alla natura pubblica dell’attività svolta” e i successivi artt. 3, comma 2, e 1, comma 4, prevedono che le Casse possono adottare propri regolamenti e statuti, con l’unico limite del rispetto di precisi e tassativamente indicati criteri che ne delimitano l’operatività.

Quanto sopra ha trovato conferma nell’art. 3, comma 12, della legge 8 agosto 1995, n. 335, anche nel testo attualmente vigente – come modificato - laddove si stabilisce che, “allo scopo di assicurare l'equilibrio di bilancio in attuazione di quanto previsto dall'articolo 2, comma 2, del suddetto decreto legislativo n. 509 del 1994”, “sono adottati dagli enti medesimi, i provvedimenti necessari per la salvaguardia dell'equilibrio finanziario di lungo termine, avendo presente il principio del pro rata in relazione alle anzianità già maturate rispetto alla introduzione delle modifiche derivanti dai provvedimenti suddetti e comunque tenuto conto dei criteri di gradualità e di equità fra generazioni.”.

E’ dunque la legge stessa, fonte normativa di rango primario, a individuare lo spazio di autonomia degli enti previdenziali, con l’individuazione dell’unico limite costituito dal principio del pro rata nell’erogazione delle prestazioni.

La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 15/99, si è occupata di possibili profili di legittimità costituzionale relativi all’art. 1, comma 4, lett. a), del D.Lgs. n. 509/94, con riferimento agli artt. 76 e 77 Cost., comunque riconoscendo la piena autonomia degli enti privatizzati, osservando che “la garanzia dell’autonomia gestionale, organizzativa, amministrativa e contabile degli enti privatizzati […] non attiene tanto alla struttura dell’ente, quanto piuttosto all’esercizio delle sue funzioni”. Anche il Consiglio di Stato, nel parere n.1530/97 – circa la portata della sopra citata disposizione di cui all’art. 3, comma 12, della legge n. 335/95, nella versione originaria –, ha rilevato che la norma in esame ha riconosciuto a tali enti “una sfera di autonomia senza dubbio maggiormente ampia rispetto alle previsioni già contenute nel D.lgs. n. 509/94”.

Ma la vicenda giudiziaria che forse maggiormente ha segnato il passo nella tematica di cui si discorre è quella relativa all’intervenuta abrogazione dell’art. 21 della legge n. 576/80 – concernente la restituzione dei contributi versati in caso di cancellazione dalla Cassa Forense senza diritto a pensione -, con l’introduzione della pensione di vecchiaia contributiva, operazione giuridica intervenuta mediante norma regolamentare approvata dai competenti organi vigilanti sugli enti previdenziali privati. Orbene, all’esito di lunghe vicende giudiziarie, allorquando il dibattitto giuridico è approdato innanzi agli ermellini, la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 24202/2009 (poi confermata anche con la sentenza n. 12209/2011 e successivamente con diverse altre pronunce), ha affermato che gli enti previdenziali privatizzati sono provvisti di autonomia che li abilita ad abrogare o derogare disposizioni di legge e ad adottare provvedimenti in funzione dell’obiettivo di assicurare equilibrio di bilancio e stabilità delle rispettive gestioni, incidendo sulla materia contributiva, tacitamente abrogando la previsione in senso contrario di precedente disposizione di legge (in senso conforme tra i giudici di merito, nel medesimo periodo, Corte d’Appello di Roma, n. 7598/2012; Corte d’Appello di Salerno, n. 464/09; Corte di Appello di Genova, n. 707/2011; Trib. Palermo, n. 1064/2012; Trib. Trani, n. 4841/2011; Trib. Genova, n. 20/2010; Trib. Milano, n. 3380/09; Trib. Santa Maria Capua Vetere, n. 331/09; Trib. Milano, n. 3357/2008; Trib. Catanzaro, n. 2097/2008; Trib. Salerno, n. 3818/09).

Ma anche la giurisprudenza amministrativa ha ribadito la natura assolutamente privatistica delle casse professionali e, dunque, la loro piena autonomia nelle materie di competenza, fermi restando i controlli previsti dalla disciplina vigente (Ministeri vigilanti, Corte dei Conti) (Cons. Stato, 1 ottobre 2014, n. 4882).

Più recentemente, la giurisprudenza costituzionale, con l’ordinanza n. 254 del 18 ottobre 2016, in ordine alla questione attinente alla legittimità dei regolamenti emanati dalla Cassa Forense, ha, tra l’altro, affermato che essi “sono riconducibili ad un processo di privatizzazione degli enti pubblici di previdenza e assistenza che si inserisce nel contesto del complessivo riordinamento o della soppressione di enti previdenziali” e che “questo assetto è stato realizzato attraverso una sostanziale delegificazione della materia, come osservato anche dalla Corte di Cassazione, con la sentenza 16 novembre 2009, n. 24202”.

Sempre il giudice delle leggi, con la successiva pronuncia n. 7/2017, depositata in data 11 gennaio 2017, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della normativa che dispone l’obbligo di versamento al bilancio dello Stato delle somme derivanti dalla riduzione della spesa per consumi intermedi delle Casse di previdenza e di assistenza privatizzate. La pronuncia, al di là del tema specifico affrontato, rappresenta invero un passaggio davvero importante, poiché la Corte evidenzia che l’ingerenza del prelievo statale rischia di minare gli equilibri che costituiscono elemento indefettibile dell’esperienza previdenziale autonoma, cosicché ogni spesa eccedente al necessario finisce per incidere negativamente sul sinallagma macroeconomico tra contributi e prestazioni in quanto la configurazione della norma (quella oggetto di valutazione di legittimità, n.d.r.) aggredisce, sotto l’aspetto strutturale “la correlazione contributi-prestazioni, nell’ambito della quale si articola la naturale missione delle Casse di previdenza di preservare l’autosufficienza del proprio sistema previdenziale”.

Invero, per la Corte Costituzionale, l’assetto organizzativo e finanziario, basato sul principio mutualistico, deve essere preservato in modo coerente con l’assunto dell’autosufficienza economica, dell’equilibrio della gestione e del vincolo di destinazione tra contributi e prestazioni.

Ma è proprio nell’ultimo anno che assistiamo a un crescendo di conferme di quanto si era affermato in giurisprudenza e la Suprema Corte, con la sentenza n. 3461/2018, facendo espressamente seguito alle precedenti pronunce n. 19981/2017, oltre alle n. 12209/2011 e n. 24202/2009 già citate, ha riaffermato il principio già espresso dalla Corte Costituzionale, in base al quale, in virtù dell’esigenza di stabilità di bilancio – che rappresenta il principale limite funzionale all’esercizio dei suoi poteri regolamentari - la Cassa Forense può, con proprio regolamento, abrogare disposizioni di legge (conforme anche Cass., n. 4980/2018 e, da ultimo, con riferimento alla Cassa dei commercialisti, Cass., n. 603/2019).

Inoltre, è di estremo rilievo e particolarmente degno di menzione il fatto che la Suprema Corte, con la citata sentenza n. 3461/2018, affermi espressamente la piena legittimità della previsione, da parte della Cassa, con proprio regolamento, di norme che siano in aperto contrasto con disposizioni di legge precedenti secondo l’interpretazione datane addirittura dalla stessa giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione. Si tratta della fattispecie normativa relativa alla rivalutazione delle pensioni, che la Cassa Forense ha sempre inteso quale istituto decorrente dal secondo anno successivo a quello di decorrenza del trattamento pensionistico e non dal primo anno successivo al pensionamento, anche per l’ovvia ragione che, poiché la rivalutazione decorre dal primo giorno dell’anno, con la contraria interpretazione si potrebbe giungere al paradosso dell’iscritto che maturi il diritto a pensione nel mese di dicembre e che si vedrebbe rivalutata la pensione già dal secondo mese di erogazione (1° gennaio), in contrasto con il principio stesso della rivalutazione annuale, oltre che del buon senso e con buona pace della salvaguardia degli equilibri di bilancio. Orbene, l’interpretazione data dalla Cassa Forense all’istituto normativo della rivalutazione, dapprima previsto nell’art. 16 della legge n. 576/80, era stata disattesa dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite nel 1996 e poi di nuovo nel 2004 sul presupposto che, benché fosse ragionevole quanto invocato dalla Cassa Forense, tuttavia il dettato normativa strictu sensu deponeva in senso contrario. Conseguentemente, l’Ente ha codificato la propria interpretazione circa la decorrenza della rivalutazione dal secondo anno successivo al pensionamento in via regolamentare con l’art. 49 del regolamento generale (ora art. 14 del regolamento delle prestazioni), che, non incorrendo in alcun vizio in contrasto con la ratio generale dell’adeguamento delle pensioni e, per l’effetto, del tenore di vita dei pensionati, è stato dichiarato dagli ermellini pienamente legittimo.

Ancora la Corte Costituzionale, con sentenza n. 67/2018, proprio a seguito di rimessione da un giudizio avente come parte la Cassa Forense, ha nuovamente confermato i principi già espressi in precedenza richiamando proprio la pronuncia da ultimo menzionata della Corte di Cassazione, ritenendo che l’abbandono di un sistema interamente disciplinato dalla legge, dopo la trasformazione della Cassa in fondazione di diritto privato, al pari di altre Casse categoriali di liberi professionisti, in forza del D.Lgs. n. 509/1994, e l’apertura all’autonoma regolamentazione del nuovo Ente non hanno indebolito il criterio solidaristico, in quanto “con il citato D.Lgs. n. 509 del 1994, il legislatore delegato, in attuazione di un complessivo disegno di riordino della previdenza dei liberi professionisti, ha arretrato la linea d’intervento della legge (si è parlato in proposito di delegificazione della disciplina: da ultimo, Cassazione Civile, n. 3461/2018), lasciando spazio alla regolamentazione privata delle fondazioni categoriali, alle quali è assegnata la missione di modellare tale forma di previdenza. Rientra ora nell’autonomia regolamentare della Cassa dimensionare la contribuzione degli assicurati […] assicurando l’equilibrio di bilancio (art. 2, del D. Lgs. n. 509 del 1994) e senza necessità di finanziamenti pubblici diretti o indiretti (art. 1, comma 3, del medesimo decreto legislativo), che sono anzi esclusi (sentenza n. 7/2017)”.

In buona sostanza, l’evoluzione giurisprudenziale si è definitivamente arrestata e consolidata su una posizione assolutamente univoca e negli ultimi anni abbiamo assistito a una presa di coscienza di temi sollecitati dal legislatore fin dalla metà degli anni ’90, che all’epoca era stato sufficientemente lungimirante nel prevedere che un’impostazione di tipo privatistico nella gestione della previdenza sarebbe stata certamente più efficiente e foriera di un consolidamento dei bilanci degli enti previdenziali, fenomeno che invece, purtroppo, non è avvenuto nell’assicurazione generale obbligatoria e in tutte le forme pensionistiche in essa confluite nel tempo (Inpdai, Enpals, Ipost, ecc.), che hanno conservato la propria struttura di tipo pubblicistico con tutte le relative conseguenze, in termini di minore efficienza e, quindi, di minore oculatezza nella gestione.   

 

 


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