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Il contributo integrativo nelle società tra avvocati

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di Guido Canavesi

Sommario: 1. La società tra avvocati nel riordino della professione forense: i riflessi previdenziali. 2. Il contributo integrativo. 3. Contributo integrativo e Società tra Avvocati.

1. - La società tra avvocati nel riordino della professione forense: i riflessi previdenziali

La l. 31 dicembre 2012, n. 247 (da ora LPF) contiene anche alcune disposizioni di carattere previdenziale, volte a regolare le ricadute su questo versante della “nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense”, per richiamare la rubrica della legge. Il più rilevante è indubbiamente l’automatismo che l’art. 21 LPF instaura tra iscrizione agli Albi e iscrizione alla Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense (comma 8) (da ora Cassa forense), subordinando altresì la permanenza dell’una – e dunque dell’altra – «all’esercizio della professione in modo effettivo, continuativo, abituale e prevalente» (comma 1).

Il medesimo articolo, inoltre, ha chiamato Cassa Forense a rivisitare e/o regolare taluni aspetti del rapporto contributivo (comma 9) e da ultimo sancito il divieto di iscrizione ad «altra forma di previdenza se non su base volontaria e non alternativa» (comma 10). Nell’ambito della delega al Governo riguardante l’esercizio in forma societaria della professione, inoltre, l’art. 5, comma 2, lett. l), contemplava tra i criteri direttivi la qualificazione dei redditi prodotti dall’ente «quali redditi di lavoro autonomo anche ai fini previdenziali», ai sensi del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917.

Sennonché, è noto, la delega è rimasta inattuata e la norma delegante è stata in seguito oggetto di abrogazione ad opera della l. 4 agosto 2017, n. 124 (art. 1, comma 141, lett. c), che al contempo ha inserito nella legge di riordino del 2012 l’art. 4-bis, recante la disciplina dell’esercizio in forma societaria della professione forense o società tra avvocati (StA) (comma 141, lett. b).

Il testo primigenio della nuova disposizione nulla prevedeva quanto ai profili previdenziali, ma una modifica di poco successiva (art. 1, comma 443, l. 27 dicembre 2017, n. 205) vi ha aggiunto due commi, 6-bis e 6-ter, che peraltro non ripropongono la qualificazione a fini previdenziali nei termini prima ricordati dei redditi prodotti dalla StA, soffermandosi, invece, sul diverso problema della debenza da parte degli enti del c.d. contributo integrativo di cui all’art. 11, l. 20 settembre 1980, n. 576.

Tuttavia, prima di soffermarsi su questo aspetto, occorre ricordare che l’art. 4 bis nulla ha precisato quanto alla sorte delle due precedenti normative sull’esercizio in forma societaria ora della professione forense (art. 16, d.lgs. 2 febbraio 2001, n. 96) ora, più in generale, di molteplici attività professionali (art. 10, comma 2, l. 12 novembre 2011, n. 183), sollevando dubbi sulla loro perdurante vigenza e/o utilizzabilità nell’ambito in esame. A fare chiarezza è stato un recente arresto delle Sezioni Unite della Cassazione, che hanno sciolto l’intreccio normativo sulla base del principio di specialità. Questa qualità connota la disciplina più recente che dunque prevale su quella del 2001, a sua volta speciale rispetto all’art. 10, l. n. 183 del 2011: al momento, perciò, l’approdo giurisprudenziale è nel senso che la StA può essere costituita ed operare soltanto nei termini previsti dall’art. 4 bis LPF.

Limitandosi pertanto a quanto disposto da quest’ultimo, a connotare le StA sono:

a) la presenza necessaria, ma non esclusiva, di avvocati iscritti all’albo nella compagine sociale; oltre ad essi, infatti, possono parteciparvi professionisti iscritti in albi di altre professioni e/o altri soggetti anche collettivi, allora come soci di capitale (comma 2, lett. a);

b) il controllo societario – almeno due terzi del capitale sociale e dei diritti di voto – detenuto dai soci professionisti, avvocati e non, con la presenza maggioritaria degli avvocati nell’organo di gestione, comunque composto solo da soci (comma 2, lett. b e c);

c) la conferma del principio della personalità della prestazione professionale, anche diversa dall’attività forense: nonostante sia attribuito alla società, “l’incarico può essere svolto soltanto da soci professionisti in possesso dei requisiti necessari per lo svolgimento della specifica prestazione professionale richiesta dal cliente” (comma 3);

d) l’iscrizione della StA in un’apposita sezione speciale dell’albo tenuto dall’ordine territoriale nella cui circoscrizione ha sede la stessa e la sua sottoposizione al rispetto del codice deontologico forense nonché alla competenza disciplinare dell’ordine di appartenenza (commi 1 e 6).

2. - Il contributo integrativo

L’autofinanziamento è ab origine tratto caratterizzante i regimi pensionistici e, più in generale, previdenziali delle singole categorie di liberi professionisti. In quest’ottica, la novità del d.lgs. n. 509 del 1994 più che nella sola formale previsione della regola sta piuttosto nel legame posto con la privatizzazione degli enti gestori e nella sua colorazione in termini di equilibrio di bilancio intergenerazionale della gestione economico- finanziaria (art. 2, comma 2, d.lgs. 30 giugno 1994, n. 509, e poi art. 3, comma 12, l. 8 agosto 1995, n. 335): l’autofinanziamento diviene così specchio della separatezza delle singole casse privatizzate dal sistema previdenziale soggettivamente pubblico e si traduce, per un verso, nella regola dell’autonomia regolamentare6, per l’altro, nell’accentuazione del vincolo solidaristico endocategoriale.

Quando, in ottemperanza alla legge delega, il d.lgs. n. 509 del 1994 pone quale condizione alla privatizzazione che gli enti «non usufruiscano di finanziamenti pubblici o altri ausili pubblici di carattere finanziario» (art. 1 comma 1) e poi ribadisce il divieto di finanziamenti pubblici diretti o indiretti (art. 1, comma 3) vuole innanzitutto evitare futuri interventi di ripianamento di bilanci in passivo, mentre non intende toccare le fonti di contribuzione vigenti. E tra queste va annoverato il c.d. contributo integrativo, che ha carattere più generale e non è esclusivo di Cassa Forense.

In favore di quest’ultima, comunque, è a datare dal 1982 che l’art. 11, comma 1, l. n. 576 del 1980 ha sancito l’obbligo – ribadito e specificato anche dall’art. 18 del Regolamento Unico della Previdenza Forense - degli iscritti di versare «una maggiorazione percentuale su tutti i corrispettivi rientranti nel volume annuale d’affari ai fini dell’IVA».

L’onere economico della maggiorazione è sopportato innanzitutto dai clienti del libero professionista, ma la norma precisa che il contributo è dovuto «indipendentemente dall’effettivo pagamento» eseguito dal debitore, salvo ripetizione nei confronti di quest’ultimo.

È inoltre previsto un contributo minimo, parametrato ad un predefinito volume d’affari, comunque dovuto (art. 11, comma 3), con l’eccezione, a partire «dall’anno solare successivo alla maturazione del diritto a pensione » dei professionisti pensionati che mantengano tuttavia l’iscrizione alla Cassa (comma 4). E nel caso che il volume d’affari risulti inferiore a quello su cui va calcolato il contributo minimo, quest’ultimo resta in realtà a carico del professionista, che vi provvede con risorse proprie. D’altra parte, sebbene obbligati sono, secondo legge e regolamento, tutti gli iscritti alla Cassa, siano avvocati piuttosto che praticanti, la giurisprudenza ha chiarito che l'esercizio dell’attività professionale oggettivamente considerato.

Il che non è privo di conseguenze, ché, pur se in relazione a situazioni ratione temporis precedenti la l. n. 247 del 2012, il contributo è stato considerato dovuto anche nel caso in cui l’avvocato non fosse iscritto a Cassa Forense,11, mentre ne è stata negata la restituzione a seguito di sopravvenuta delibera di cancellazione dalla Cassa che determina «l’annullamento retroattivo del rapporto previdenziale».

Il diniego di restituzione ha in realtà valenza più generale e si estende, secondo la giurisprudenza, fino a rendere intangibile pure il contributo versato nella già ricordata ipotesi di mancato conseguimento del volume d’affari minimo, anche qualora il professionista non abbia conseguito i requisiti per il diritto a pensione. E il comune fondamento di questi approdi giurisprudenziali è la funzione solidaristica del contributo integrativo, che costituisce prestazione patrimoniale imposta a finanziamento della previdenza di categoria e ne determina l’inutilità a fini previdenziali per il singolo iscritto.

Quel presupposto, inoltre, serve a delimitare i redditi rilevanti ai fini della maggiorazione. Infatti, nonostante l’ampiezza della formula utilizzata («tutti i corrispettivi rientranti nel volume annuale d’affari ai fini dell’IVA»), la giurisprudenza costituzionale ha chiarito che non sono computabili «i redditi derivanti da attività che nulla hanno a che fare con la professione forense e cioè non intrinsecamente collegati con l’attività forense»; precisando altresì che, seppure l’attività dell’avvocato «si espande a molteplici campi di assistenza contigui, per ragioni di affinità, al patrocinio professionale in senso stretto», deve, comunque «trattarsi, onde rientrare nella sfera delle contribuzioni previdenziali in parola, di prestazioni riconducibili, per loro intrinseca connessione, ai contenuti dell’esercizio forense».

Da ultimo, va ricordato che, dapprima escluso dalla base imponibile IRPEF e IVA (art. 11, comma 6, l. n. 576 del 1980), il valore del contributo integrativo è stato reso rilevante ai soli fini IVA dall’art. 16, d.l. 23 febbraio 1995, n. 41.

3. - Contributo integrativo e Società tra Avvocati

Per quanto non fossero all’epoca ammesse dall’ordinamento, già la disposizione sopra analizzata conteneva una norma rivolta innanzitutto alle associazioni di professionisti, ma anche ed espressamente alle società tra avvocati. Essa prevedeva l’obbligo del professionista di versare la maggiorazione e ne individuava la base di calcolo nella percentuale del volume d’affari dell’ente «pari alla percentuale degli utili» spettante al singolo socio (art. 11, comma 3).

Come accennato, nulla diceva, invece, l’art. 5, l. n. 247 del 2012, poi abrogato, mentre l’art. 4 bis, aggiunto alla l. n. 247 del 2012, dedica al tema le due disposizioni conseguenti la modifica di fine 2017. L’opzione da queste accolta differisce da quella della norma del 1980, poiché è la società a dovere «applicare la maggiorazione percentuale… su tutti i corrispettivi rientranti nel volume di affari ai fini dell’IVA» aggiungendosi che l’«importo è riversato annualmente alla Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense» (comma 6 bis).

Spetta poi alla Cassa stabilire «termini, modalità dichiarative e di riscossione, nonché eventuali sanzioni applicabili per garantire l’applicazione» di tali previsioni, con regolamento che la disposizione richiedeva fosse emanato entro un anno dalla sua entrata in vigore, termine, peraltro, meramente ordinatorio (comma 6 ter). Al riguardo, possono svolgersi alcune considerazioni: Innanzitutto, il riferimento a tutti i corrispettivi mostra che l’ipotesi considerata dal legislatore sia di una società composta soltanto da avvocati, dimenticando, però, che non è preclusa una partecipazione di altri professionisti (prescindendo qui da eventuali soci di capitale).

Ove ciò si verifichi non è dubbio che la StA resti obbligata verso Cassa Forense soltanto per i corrispettivi rientranti nel volume d’affari IVA imputabili ai soci iscritti alla medesima, per le prestazioni rese ai clienti della società. Non può ritenersi, come invece sembra fare Cassa Forense, che la peculiare finalità e struttura organizzativa della StA e la sua iscrizione in un Albo forense, insieme alla genericità della formula sopra ricordata, creino una sorta di vincolo solidaristico idoneo a “dirottare” la contribuzione dovuta dai professionisti ai rispettivi enti previdenziali di iscrizione. Né la partecipazione a tale società è leggibile come manifestazione individuale di volontà volta a riconoscere l’imposizione contributiva verso Cassa Forense.

In realtà, se la Corte Costituzionale ha affermato che rientrano «nella sfera delle contribuzioni previdenziali in parola» (il contributo integrativo, ndA) soltanto le «prestazioni riconducibili, per loro intrinseca connessione, ai contenuti dell’esercizio forense», e l’ha fatto in rapporto ai redditi diversi comunque prodotti da avvocati, a maggior ragione è da escludere l’imponibilità a carico di altri professionisti.

Senza contare, poi, che, per quanto l’autonomia regolamentare degli enti possa perfino dettare disposizioni in deroga a disposizioni di legge precedenti, esula comunque dalla loro competenza determinare l’ambito soggettivo dell’imposizione contributiva, predefinita dall’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 509 del 1994, laddove sancisce la continuità delle attività previdenziali e assistenziali in atto a favore delle categorie di lavoratori e professionisti per le quali sono stati originariamente istituiti.

Neppure torna utile appellarsi all’art. 4-bis, l. n. 247 del 2012: del tutto irrilevante a tal fine è l’iscrizione delle StA in un’apposita sezione speciale dell’albo degli avvocati, che risponde ad altre finalità, rese palesi dal successivo comma 5, senza che se ne possa forzare il significato attraverso il richiamo all’art. 21, comma 8, della medesima legge, posto che l’esercizio dell’attività professionale resta personale e non riferibile alla società. Per altro verso, non va dimenticata l’indisponibilità individuale dell’obbligazione contributiva, che impedisce di dare rilievo alla scelta del libero professionista di partecipare alla società, risultando comunque ingiustificata la duplicazione del carico contributivo, ancorché a valenza meramente solidaristica. In secondo luogo, la formula utilizzata non chiarisce chi debba “riversare” annualmente all’ente previdenziale il contributo integrativo, se la società per l’intero o i singoli soci pro quota.

Da ultimo, la previsione sul regolamento da emanarsi è in realtà ultronea, perché la competenza regolamentare al riguardo attiene alle funzioni proprie della Cassa ai sensi del d.lgs. n. 509 del 1994 e preesiste alla norma. Non c’è dunque alcuna delega né un ampliamento dei poteri normativi della Cassa. In notevole ritardo rispetto al termine previsto, l’iter di approvazione si è da poco concluso con l’approvazione Ministeriale e dal 1° gennaio 2022 sarà operativo il Regolamento Società tra Avvocati (RStA). Il suo contenuto, in realtà, va oltre la sola disciplina del contributo integrativo.

L’art. 8, infatti, è dedicato al contributo soggettivo e sancisce, ai fini previdenziali, l’equiparazione al reddito professionale:

a) del reddito prodotto dalla StA attribuibile al socio iscritto alla Cassa;

b) di ogni altro provento percepito dal socio, compresi il compenso e le indennità per la partecipazione all’organo di gestione della StA (comma 1).

Viene inoltre precisato che sono da computare «gli utili maturati e gli altri proventi anche se non distribuiti ai soci (comma 2).schermo societario possa servire a sottrarre a contribuzione parte del reddito del socio professionista, ad esempio attraverso la non distribuzione degli utili, i quali, infatti, sono resi oggetto di comunicazione alla Cassa ai sensi dell’art. 4, comma 2, lett. f), RStA.

Il presupposto è che tutto ciò che il socio iscritto alla Cassa percepisce in relazione all’attività della società sia da considerarsi reddito professionale, deducendosi tale connotazione dall’oggetto sociale dell’ente. Il criterio dell’inerenza all’attività sociale, torna utile per sciogliere il dubbio che può sollevare l’ampiezza della formula «altri proventi», cui pure, tra l’altro, sembra riferibile l’irrilevanza della loro effettiva “distribuzione”: esso, consente infatti di distinguere tra proventi, escludendo da contribuzione quelli eventualmente percepiti per prestazioni o servizi non di carattere professionale fatturate dalla società, ove questi si ritengano ammissibili.

Del contributo soggettivo, in realtà, i commi 6 bis e 6 ter dell’art. 4 bis, l. n. 247 del 2012 non si occupano, ma ciò non significa che la Cassa abbia ecceduto dalle sue prerogative, ché quelle disposizioni trovano fondamento a monte della legge di riordino, ossia nel d.lgs. n. 509 del 1994 e nel potere da questo attribuito alle casse privatizzate di dare regola ai rapporti contributivo e previdenziale in funzione di salvaguardia del nuovo assetto ordinamentale autonomo e autofinanziato.

Quanto al contributo integrativo, va innanzitutto ribadito che le StA devono sì applicarlo «su tutti i corrispettivi rientranti nel volume di affari IVA» prodotto nell’anno di esercizio (art. 1), ma purché essi riguardino prestazioni rese da iscritti alla Casse e non anche da altri professionisti. In secondo luogo, sciogliendo le incertezze in proposito lasciate dall’art. 4 bis, comma 6 bis, l. n. 247 del 201219, l’art. 7 RStA chiarisce che il pagamento «dei contributi integrativi» è in capo alle Società. Anche se iscritte nella speciale sezione dell’Albo solo per una frazione d’anno, per adempiere all’obbligo in questione le StA sono anzitutto tenute – entro il 30 settembre dell’anno successivo a quello di competenza – ad inviare alla Cassa una comunicazione in via telematica (modello 5 ter) (art. 3, comma 1), che è dovuta anche quando le «dichiarazioni fiscali non sono state presentate o sono negative o se il volume di affari IVA è inesistente» (commi 3).

I contenuti della comunicazione sono individuati in via generale dagli artt. 3 e 4, mentre l’art. 5 ne definisce alcuni come elementi essenziali, precisando che la loro mancanza «equivale ad omessa comunicazione», cui accede di norma l’applicazione delle sanzioni previste dall’art. 67 del Regolamento Unico (artt. 9, lett. a, e 10 commi 1 e 4). Invece, ove riporti «utili o volumi d’affari diversi da quelli dichiarati al Fisco» (fermo restando la detrazione del contributo integrativo dal volume d’affari IVA), la comunicazione è considerata non conforme al vero e può essere rettificata mediante nuova comunicazione, che l’art. 6 chiede sia inviata «entro 90 giorni dal termine di cui al precedente art. 3, primo comma»: sembrerebbe, dunque, che il nuovo termine decorra comunque dal 30 settembre anche quando la comunicazione sia stata inviata in data precedente. Il punto, peraltro, può dar adito a qualche dubbio e sarebbe opportuno un chiarimento della Cassa attraverso le istruzioni di cui all’art. 4, comma 1.

Anche i contenuti della comunicazione meriterebbero qualche chiarimento. Infatti, non sono del tutto coincidenti le indicazioni offerte dagli art. 3, 4 e 5. In particolare, mentre l’art. 3 chiede la comunicazione del «reddito complessivo prodotto, anche se negativo» (comma 1), non altrettanto fanno le altre due disposizioni.

Qualche discrasia si riscontra inoltre tra le informazioni dovute ai sensi degli artt. 4 e 5, anche se qui molto dipenderà dalla costruzione del modello di comunicazione telematica.

Più precisamente, se per il secondo è essenziale l’indicazione del «volume d’affari IVA della società» (comma 1, lett. c), nel primo il medesimo è invece richiesto «al netto del contributo integrativo confluito nel valore dichiarato ai fini dell’IVA».

E ciò perché l’art. 16, d.l. n. 41 del 1995, convertito in legge n. 85 del 1995, ha chiarito che la maggiorazione di cui all’art. 11 legge n. 576 del 1980 integra la base imponibile ai fini IVA, ma non rileva per la determinazione del contributo integrativo. Ancora, mentre l’art. 4, comma 2, lett. g), richiede l’indicazione dei compensi versati a ciascun socio iscritto a Cassa Forense, nonché «le percentuali di partecipazione agli utili di ogni socio, anche non iscritto a Cassa Forense», per l’art. 5, comma 1, lett. e), al netto dell’incerto coordinamento di genere (“ammontare degli utili” vs “quella complessiva”), sembrano essenziali l’ammontare complessivo degli utili riferibili ai soci non iscritti alla Cassa ed anche «il volume di affari IVA e dei compensi versati a ciascun socio iscritto».

Gli artt. 9-13 stabiliscono le sanzioni per i diversi inadempimenti posti in essere dalle StA rinviando, in sostanza, alle disposizioni del Regolamento Unico.

Peraltro, la rilevanza di questi comportamenti non è limitata al piano del rapporto con l’ente previdenziale, perché l’art. 4 bis, comma 6, l. n. 147 del 2012 richiede alle società il rispetto del codice deontologico e le assoggetta alla competenza disciplinare dell’ordine di appartenenza.

In questa direzione l’art. 11 RStA rende applicabile alle StA e ai loro soci componenti l’organo di gestione, in caso di perdurante omissione nell’invio del modello 5 ter, l’obbligo di comunicazione della Cassa al Consiglio dell’Ordine competente, ai fini della loro sospensione dall’esercizio della professione. Inoltre, nella prospettiva di promuovere la correttezza dei comportamenti previdenziali dell’ente, l’art. 13, comma 1, sancisce la responsabilità solidale con la società dei componenti l’organo di gestione, purché iscritti alla Cassa, quanto al pagamento delle sanzioni previste per la violazione delle disposizioni dal RStA stesso.

Da ultimo, resta aperta la questione sulla contribuzione integrativa dovuta per gli anni precedenti il 2022, ovvero se questa sia comunque dovuta dalle StA e semmai in che modo e termini (ad esempio, con il primo modello 5 ter, da presentare entro il 30 settembre 2022?).

Al riguardo, secondo l’art. 14, il regolamento entra in vigore dal 1° gennaio 2022 e si applica «alle dichiarazioni fiscali relative all’anno precedente», cioè il 2021. Sembrerebbe dunque esclusa la sua efficacia retroattiva.

Tuttavia, la soluzione non è convincente. Non si può, infatti dimenticare che l’obbligo contributivo è stabilito direttamente dalla legge ed assolve ad un’esclusiva finalità di interesse pubblico – il finanziamento della previdenza professionale obbligatoria – cosicché le somme conseguite a titolo di maggiorazione non possono essere distratte ad altro fine. Soprattutto per questa ragione, all’autonomia “normativa” delle Cassa non sembra precluso un intervento volto a regolare la situazione.


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