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I beneficiari delle erogazioni in caso di familiari non autosufficienti, portatori di handicap o di malattie invalidanti

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di Silvia Caporossi

Con il presente lavoro si intendono esaminare i profili di compatibilità tra la limitazione, prevista dall’art. 7, comma 2, del Regolamento per l’Erogazione dell’Assistenza, della platea dei beneficiari della prestazione di cui all’art. 6, comma 1, lett. b) con il principio di uguaglianza.

Come noto, è principio cardine del nostro ordinamento quello secondo cui la disparità di trattamento non importa violazione del principio di eguaglianza qualora, all’esito di un giudizio di ragionevolezza, da un lato, non si riscontri «contrasto con le disposizioni contenute nel primo comma dell’art. 3 della Costituzione, e, dall’altro lato, la disparità di trattamento corrisponda alle esigenze di una situazione differenziata, che richieda una particolare disciplina».

Infatti, «secondo il costante orientamento della Corte, si ha violazione dell’art. 3 della Costituzione quando situazioni sostanzialmente identiche siano disciplinate in modo ingiustificatamente diverso, mentre non si manifesta tale contrasto quando alla diversità di disciplina corrispondano situazioni non sostanzialmente identiche, essendo insindacabile in tali casi la discrezionalità del legislatore ».

Al riguardo, non sorprende osservare che contestazioni di tal genere trovano fertile terreno nella materia assistenziale, ove le peculiarità delle singole esperienze personali generano pretese spesso infondate, seppur umanamente comprensibili.

In particolare, nel novero delle prestazioni garantite dalla Cassa Forense a sostegno delle famiglie dei propri iscritti, il Regolamento per l’Erogazione dell’Assistenza, in vigore dal 1° gennaio 2016, disciplina all’art. 6, comma 1, lett. b), le erogazioni riconosciute in favore dei professionisti che, in regola con le prescritte comunicazioni reddituali all’Ente, assistano in via esclusiva il coniuge o i figli o i genitori affetti da invalidità grave prevista dall’art. 3, comma 3, L. 104/1992, attestata da certificazione rilasciata da apposita commissione ASL o accertata con provvedimento giudiziale definitivo, qualora costoro non siano ricoverati a tempo pieno (art. 7, comma 2, del Regolamento).

L’espressa circoscrizione, da parte dell’art. 7, comma 2, della platea dei beneficiari della suindicata prestazione ai soli professionisti che prestino ausilio al coniuge, ai genitori o ai figli nelle predette condizioni, non può – come sostenuto da taluni – ritenersi foriera di un’irragionevole ed ingiustificata disparità tra situazioni sostanzialmente identiche. Infatti, una siffatta conclusione risulta l’unica possibile una volta che si acceda ad un’interpretazione della norma di carattere sistematico, che tenga conto tanto delle divergenze tra il trattamento in questione e gli altri benefici riconosciuti a vantaggio delle famiglie degli iscritti, quanto dei riflessi del processo di privatizzazione della Cassa sulla discrezionalità regolamentare della stessa.

Sotto il primo profilo, si fa menzione di una recente sentenza del Tribunale di Benevento, il quale, chiamato a pronunciarsi sull’opportunità di estendere la prestazione prevista dall’art. 6, comma 1, lett. b) anche ai professionisti che assistano parenti e affini entro il terzo grado, ha negato, in virtù della diversa ratio sottesa alle due disposizioni, la sussistenza di un’ingiustificata disparità di trattamento rispetto ai beneficiari delle erogazioni in favore dei superstiti e dei titolari di pensione diretta cancellati dagli Albi, indiretta o di reversibilità previste dall’art. 6, comma 1, lett. a) del Regolamento.

Infatti, il giudice di prime cure ha osservato che, mentre per la concessione del beneficio di cui all’art. 6, comma 1, lett. a) – corrisposto ai familiari conviventi e al convivente “more uxorio” – si richiede il requisito della convivenza, essendo il contributo volto a prestare ausilio a coloro i quali dipendevano economicamente dall’iscritto/pensionato, diversamente il trattamento disciplinato dalla lett. b) della medesima disposizione mira ad assicurare il «diritto dell’iscritto di garantire la necessaria assistenza ai portatori di handicap che si trovino rispetto a lui in particolari rapporti, senza che sia richiesta la convivenza o una condizione di dipendenza economica di questi ultimi».

Parimenti, il Tribunale di Benevento non ha rinvenuto alcun contrasto tra quanto previsto dall’art. 7, comma 2, del Regolamento e l’art. 33, comma 5, L. 104/19926, «dal momento che con la norma regolamentare in commento la Cassa non ha inteso estendere agli avvocati iscritti le agevolazioni (lo si ribadisce, di carattere non economico e finalizzate primariamente alla tutela del disabile) di cui all’art. 33, commi 3-5-7 cit., bensì introdurre, nell’esercizio della discrezionalità riconosciutale dalla legge in materia di prestazioni assistenziali (artt. 9 l. 576/1980 e 17 [rectius: 19] l. 141/92), un’autonoma agevolazione in favore degli stessi avvocati, disciplinandone per via regolamentare presupposti (fra cui la definizione dei “familiari” all’assistenza dei quali si collega) e modalità di erogazione.

Né, infine, nella limitazione ai soli coniuge, figli e genitori si ravvisa un contrasto con i principi fondamentali dettati dalla l. 104 – dato che l’elencazione dei beneficiari contenuta nel terzo comma dell’art. 33 è specificatamente prevista con riferimento all’agevolazione non economica prevista dalla medesima disposizione, e non in via generale o generalizzabile – o con altre norme di rango sovraordinato».

D’altronde, a non dissimili conclusioni si giunge facendo applicazione dei principi espressi dalla giurisprudenza della Corte EDU, secondo cui «per discriminazione [ai sensi dell’art. 14 CEDU] si intende il fatto di trattare in maniera diversa, senza giustificazione oggettiva e ragionevole, persone che si trovano, in un determinato campo, in situazioni comparabili (Willis c. Regno Unito, n. 36042/97, § 48, CEDU 2002-IV).

Tuttavia, una disparità di trattamento non comporta automaticamente una violazione di tale articolo. Occorre accertare che alcune persone poste in situazioni analoghe o comparabili in un determinato campo godono di un trattamento preferenziale e che tale disparità è discriminatoria (Ünal Tekeli, sopra citata, § 49, e Losonci Rose e Rose, sopra citata, § 71).

Una differenza è discriminatoria ai sensi dell’articolo 14 se è priva di giustificazione oggettiva e ragionevole. L’esistenza di una tale giustificazione si valuta alla luce dei principi solitamente prevalenti nelle società democratiche»8. Con riferimento alle prestazioni di cui all’art. 6, comma 1, lett. b), del Regolamento per l’Erogazione dell’Assistenza – riconosciute in favore dei professionisti che assistano in via esclusiva il coniuge o i figli o i genitori affetti da accertata invalidità grave ai sensi dell’art. 3, comma 3, L. 104/1992 – la ratio sottesa alla limitazione della platea dei destinatari del beneficio ai soggetti suindicati è ben comprensibile.

Infatti, è a tutti noto che coniugi, genitori e figli sono onerati di un preciso dovere di assistenza reciproca, il quale affonda le proprie radici in precetti tanto giuridici quanto morali e che non può rinvenirsi – o, almeno, non con la stessa forza – nei confronti di familiari di diverso grado.

Basti pensare, al riguardo, all’obbligo di mantenere, educare, istruire ed assistere i figli posto dall’art. 315-bis c.c. in capo ai genitori o, viceversa, al dovere dei figli maggiorenni di contribuire economicamente al mantenimento della famiglia quando convivano con essa. Parimenti, un medesimo obbligo di assistenza, morale e materiale, è previsto a carico dei coniugi dall’art. 143 c.c.

Dunque, non vi è chi non veda come la posizione differenziata di cui sono titolari coniugi, genitori e figli, gli uni verso gli altri, giustifica una siffatta restrizione, la quale non può certo tacciarsi di irragionevolezza, essendo al contrario fondata su attente valutazioni di natura sia giuridica che morale.

Ciò posto, si reputa opportuno precisare che la Cassa gode di piena discrezionalità nel disciplinare gli interventi assistenziali predisposti a vantaggio degli iscritti.

In proposito, la citata sentenza del Tribunale di Benevento fonda la declaratoria di insussistenza di qualsivoglia violazione del principio di uguaglianza anche sulla considerazione che la Cassa può, «nell’esercizio della facoltà attribuitale dagli artt. 9, L. 576/1980 e 19 della L. 141/92 (che recita “Il comitato dei delegati della Cassa, su proposta del consiglio di amministrazione, può disporre l’erogazione, da parte della Cassa, di altre provvidenze quali borse di studio, contributi funerari od altro, a favore di categorie che siano comprese fra quelle elencate nelle lettere a), b), c), e d) del comma 1 dell’articolo 17”), e secondo quanto espressamente previsto dall’art. 20 della stessa legge, che dispone che

“Il comitato dei delegati della Cassa può specificare, con suoi regolamenti, le modalità a procedure delle assistenze previste nella presente legge”, determinare in maniera autonoma, tramite i regolamenti, quali siano i soggetti da considerare “familiari” in relazione a differenti prestazioni assistenziali previste a favore degli iscritti, dei pensionati o dei loro superstiti».

A tal proposito, già la Corte di Appello di Milano, con sentenza n. 395/13 (resa in un giudizio avente ad oggetto la specifica problematica della polizza assicurativa), aveva espressamente affermato che, dalla disciplina della previdenza forense, «si evince senza ombra di dubbio alcuno che l’estensione […] della polizza assicurativa oggetto di causa è subordinata ad una scelta discrezionale della Cassa. In particolare, la legge n. 141/1992, integrativa della legge n. 576/80, disciplina agli artt. 17 ss. l’assistenza erogata dalla Cassa, prevedendo (art. 19) che sia la Cassa medesima a decidere come regolamentare anche le altre provvidenze diverse da quelle per chi versa in stato di bisogno (art. 17) e di quelle indennitarie (art. 18). […] Come eccepito dalla difesa della Cassa tutta la disciplina legislativa previdenziale forense è improntata a principi di obbligatorietà per quanto attiene alle prestazioni strettamente previdenziali, mentre viene lasciata discrezionalità alla Cassa nella regolamentazione di prestazioni assistenziali» 

A ben vedere, la discrezionalità nell’individuazione dei trattamenti assistenziali è naturale corollario dell’autonomia regolamentare di cui, come a tutti ampiamente noto, gode la Cassa.

Al riguardo, appare appena il caso di rammentare che la Corte Costituzionale, con l’ordinanza n. 254/2016 del 18.10.2016, ha affermato che i Regolamenti adottati dalla Cassa «sono riconducibili ad un processo di privatizzazione degli enti pubblici di previdenza e assistenza che si inserisce nel contesto del complessivo riordinamento o della soppressione di enti previdenziali»10 e che «questo assetto è stato realizzato attraverso una sostanziale delegificazione della materia»11.

Il giudice delle leggi, inoltre, nella sentenza n. 7/2017, depositata in data 11.01.2017, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale della normativa che disponeva l’obbligo di versamento al bilancio dello Stato delle somme derivanti dalla riduzione della spesa per consumi intermedi delle Casse di previdenza e di assistenza privatizzate, ha rimarcato l’autonomia regolamentare dell’Ente in merito al raggiungimento delle finalità istituzionali cui è preposta12.

Invero, autorevole conferma di quanto sopra esposto proviene dalla più recente giurisprudenza di legittimità.

In proposito, la Corte di Cassazione, nella sentenza n. 3461/2018, facendo espressamente seguito ad un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato13 in merito all’efficacia dell’attività regolamentare della Cassa Forense all’interno del sistema delle fonti, ha confermato che «il riconoscimento, operato dalla legge in favore del nuovo soggetto [Cassa Forense], dell’autonomia gestionale, organizzativa, amministrativa e contabile che, comunque, non esclude l’eventuale imposizione di limiti al suo esercizio (vd. Corte cost. n. 15/1999), ha realizzato una sostanziale delegificazione attraverso la quale, nel rispetto dei limiti imposti dalla stessa legge, è concesso alla Cassa di regolamentare le prestazioni a proprio carico anche derogando a disposizioni di leggi precedenti, secondo paradigmi sperimentati ad esempio laddove la delegificazione è stata utilizzata in favore della contrattazione collettiva».

Non solo: nella medesima pronuncia, la Suprema Corte ha ribadito il principio secondo cui, in virtù dell’esigenza di stabilità di bilancio – che rappresenta il principale limite funzionale all’esercizio dei suoi poteri regolamentari – la Cassa può, con proprio regolamento, abrogare disposizioni di legge o introdurre norme che siano in aperto contrasto con le stesse, nell’interpretazione datane addirittura dalla stessa giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione14. In conclusione, si osserva che la Cassa, pur nella sua discrezionalità, ha operato una diversificazione tra i trattamenti assistenziali previsti in favore degli iscritti sulla base di circostanze oggettive, le quali non consentono di parificare situazioni che, di fatto, non coincidono.


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