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La rendita vitalizia è annoverata dal Codice civile fra i contratti tipici, ma l’art. 1872, comma 2, c.c., precisa che può essere costituita anche per donazione o testamento, rinviando in questo caso alle norme stabilite dalla legge per tali atti.
La rendita, pertanto, non si inquadra giuridicamente nell’esclusivo ambito dei contratti e si caratterizza essenzialmente per la modalità della prestazione, periodica e ancorata all’incerta durata della vita del vitaliziato, prescindendo dalla natura contrattuale dell’atto costitutivo.
Si tratta di un istituto che svolge una funzione previdenziale, unanimemente riconosciuta dalla dottrina civilistica 1, al quale il Codice riserva anche una funzione risarcitoria nell’ambito della responsabilità civile extracontrattuale, prevedendo all’art. 2057 che “quando il danno alle persone ha carattere permanente la liquidazione può essere fatta dal giudice, tenendo conto delle condizioni delle parti e della natura del danno, sotto forma di una rendita vitalizia”.
Tale norma, per lungo tempo, ha stentato a trovare applicazione, se non in casi eccezionali nella giurisprudenza di merito 2, ma recentemente ha incontrato una incisiva rivalutazione ad opera della Terza sezione civile della Cassazione che, con una decisione molto criticata dalla dottrina 3 ,ha affermato chela scelta di liquidare il danno permanente alla salute tramite una rendita vitalizia ai sensi dell’art. 2057 c.c. è rimessa al prudente apprezzamento del giudice di merito, il quale può optare d’ufficio per tale soluzione anche in appello, disponendo in tal caso opportune cautele.
Pur definendo insindacabile in sede di legittimità la scelta del giudice di merito, la sentenza della Terza sezione precisa che, qualora il giudice ritenga di liquidare il danno permanente alla persona in forma di rendita vitalizia, dovrà procedere, in concreto:
a) a quantificare il danno in somma capitale, avuto riguardo all’età della vittima al momento del sinistro, sulla base delle tabelle di mortalità e senza tener conto della sua eventuale ridotta aspettativa di vita, qualora quest’ultima risulti conseguenza dell’illecito;
b) a individuare un coefficiente di capitalizzazione fondato su corrette basi attuariali, aggiornato e corrispondente all’età della vittima al momento dell’evento;
c) a dividere la somma capitale per il coefficiente di capitalizzazione;
d) a dividere ancora (eventualmente) per dodici il rateo annuo, se intenda liquidare una rendita mensile invece che annuale. In dottrina, già da tempo, si era ritenuto che la costituzione di una rendita dovesse assurgere a forma privilegiata di risarcimento nei casi di pregiudizio derivante da una grave lesione alla salute, in modo da intercettare la proiezione diacronica di tutte le componenti del danno che, di giorno in giorno, il danneggiato avrebbe subìto 4.
La novità nomofilattica, tuttavia, non ha mancato di sollecitare osservazioni critiche 5, soprattutto in merito alle “opportune cautele” che vanno disposte dal giudice di merito, ad avviso della Suprema Corte attingibili solo assicurandosi che la rendita restituisca un valore finanziario equivalente per l’intera durata della vita del beneficiario.
Occorre, cioè, determinare in via di approssimazione il capitale da cui ricavare la rendita, nel presupposto che la seconda sia, per il tramite del coefficiente adottato, equipollente al primo. Proprio sul punto dell’equipollenza fra rendita e capitale si coglie un collegamento fra l’art. 2057 c.c., nell’interpretazione datane dalla Cassazione, e altra norma della legislazione speciale dettata a svolgere una funzione risarcitoria nel caso di danno pensionistico 6 , che non può ritenersi estranea al tema della duplicità di funzioni, anche in ragione della sedes materiae nella quale è sistematicamente collocata.
Si tratta dell’art. 13 legge 12 agosto 1962, n. 1338, il quale prevede, al comma 1, che “ferme restando le disposizioni penali, il datore di lavoro che abbia omesso di versare contributi per l’assicurazione obbligatoria invalidità, vecchiaia e superstiti e che non possa più versarli per sopravvenuta prescrizione (...), può chiedere all’Istituto nazionale della previdenza sociale di costituire (...) una rendita vitalizia riversibile pari alla pensione o quota di pensione adeguata dell’assicurazione obbligatoria, che spetterebbe al lavoratore dipendente in relazione ai contributi omessi”, e soggiunge, al comma 5, che “il lavoratore, quando non possa ottenere dal datore di lavoro la costituzione della rendita a norma del presente articolo, può egli stesso sostituirsi al datore di lavoro, salvo il diritto al risarcimento del danno”.
La giurisprudenza di legittimità si è recentemente consolidata 7 nel senso che il lavoratore, in caso di omesso versamento dei contributi dovuti da parte del datore di lavoro, non ha alcun diritto di agire nei confronti degli enti previdenziali per ottenere la regolarizzazione della propria posizione contributiva, nemmeno nel caso in cui tali enti, nonostante la sua denuncia, non abbiano provveduto al recupero di detti contributi e questi si siano prescritti, potendo solo agire nei confronti del datore di lavoro per il risarcimento del danno derivato dalla perdita delle prestazioni previdenziali in conseguenza dell’inadempimento dell’obbligo contributivo, o chiedere all’ente la costituzione della rendita vitalizia ai sensi dell’art. 13 della l. n. 1338 del 1962.
Il principio invalso in giurisprudenza si fonda sull’assunto secondo cui in materia previdenziale, poiché l’obbligazione contributiva ha quale soggetto attivo l’ente assicuratore e quale soggetto passivo il datore di lavoro, il lavoratore (pur vantando un diritto soggettivo al regolare versamento dei contributi previdenziali in proprio favore ed alla conformità alle prescrizioni di legge della propria posizione assicurativa) non è legittimato ad agire nei confronti dell’istituto previdenziale per accertare l’esistenza del rapporto di lavoro subordinato, né può chiedere di sostituirsi al datore di lavoro nel pagamento dei contributi, residuando in suo favore, nel caso di omissione contributiva, il rimedio dell’art. 2116 c.c. e la facoltà di chiedere all’Inps la costituzione della rendita vitalizia di cui all’art. 13 l. n. 1338 del 1962 8.
Occorre dire che in passato l’interpretazione giurisprudenziale ha seguito altri percorsi logici, valorizzando l’interesse ad agire del lavoratore per accertare “il diritto all’integrità della posizione contributiva” allorché vi sia una pregiudizievole situazione di incertezza in ordine al rapporto assicurativo, che può sussistere anche in mancanza della maturazione del diritto ad ottenere l’erogazione di determinate prestazioni assicurative9.
Tuttavia la Suprema Corte ha successivamente depotenziato tale impostazione, pur senza negarla in radice, ma richiedendo che la “situazione di incertezza” legittimante all’azione debba essere riconoscibile come “attuale e pregiudizievole”, non dovendosi ricollegare al futuro eventuale danno pensionistico, ma a situazioni immediatamente apprezzabili, come nei casi in cui debba operarsi la ricongiunzione di posizioni contributive 10 .
Rispetto al rimedio della rendita vitalizia ex art. 13 legge n. 1338 del 1962, è principio acquisito che debba inquadrarsi come ipotesi normativa di reintegrazione in forma specifica del danno derivante dall’omessa contribuzione 11 .
Essa costituisce, non una prestazione previdenziale 12 , ma una modalità risarcitoria inquadrabile nello schema generale dell’art. 2058 c.c., che consente al danneggiato di chiedere il risarcimento in forma specifica, qualora sia in tutto o in parte possibile, in luogo del risarcimento per equivalente. Incontra, pertanto limiti di “possibilità” dettati dalla peculiarità della fattispecie concreta in cui il rimedio venga invocato.
Ad esempio, si ritiene che nel caso di omessa contribuzione previdenziale da parte del datore di lavoro che sia stato dichiarato fallito e di prescrizione del corrispondente diritto di credito spettante all’ente previdenziale, il prestatore di lavoro non può più avanzare domanda di condanna alla costituzione di una rendita vitalizia ex art. 13 l. n. 1338 del 1962, ma soltanto insinuarsi al passivo del fallimento a titolo di risarcimento del danno per equivalente, ai sensi dell’art. 2116, 2° comma, c.c., per una somma pari alla riserva matematica liquidata dall’ente previdenziale, restando in questo caso irrilevante il mancato raggiungimento dell’età pensionabile da parte del danneggiato 13.
Altro limite, che si potrebbe definire “strutturale”, riguarda le ipotesi in cui l’omissione concerna contributi non ancora prescritti 14 .
Nel qual caso il rimedio non può essere invocato dal lavoratore, che potrà solo agi-re in giudizio per ottenere la condanna del datore di lavoro al versamento dei contributi 15 .
Ipotesi con riferimento alla quale sussiste un irrisolto contrasto di giurisprudenza circa la necessità o meno di procedere in litisconsorzio necessario con l’ente previdenziale 16, con conseguenze rilevanti, giacché dalla mancata evocazione in giudizio dell’ente non conseguirebbe l’inammissibilità della domanda, bensì la nullità del giudizio, rilevabile in ogni stato e grado del processo, salvo il limite del giudicato, con necessità di rimessione al giudice di primo grado ai fini dell’integrazione del contraddittorio 17.
Le Sezioni unite 18 hanno affrontato, poi, il tema della prescrizione del diritto alla rendita vitalizia di cui all’art. 13, 5° comma, l. n. 1338 del 1962, superando un pregresso orientamento che ne aveva affermato l’imprescrittibilità 19, nel senso che il diritto del lavoratore di vedersi costituire la rendita, a spese del datore di lavoro inadempiente, è soggetto al termine ordinario di prescrizione, che decorre dalla data di prescrizione del credito contributivo dell’Inps. 20
La rendita vitalizia, in definitiva, costituisce un esempio “virtuoso” 21 di interazione fra diritto civile e diritto della previdenza sociale 22, che si rivela versatile ed utile nella regolazione di rapporti obbligatori di durata, nei quali funzione previdenziale e funzione risarcitoria possono trovare duplice allocazione. Un dualismo funzionale, per l’appunto, “virtuoso”.
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