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1. Nonostante il dibattito in tema di riforme previdenziali sia sempre acceso, anche l’ultima manovra finanziaria (Legge 30 dicembre 2024, n. 207) si è limitata a interventi frammentari, senza rivedere in toto, in termini strutturali, il nostro sistema pensionistico e lasciando ancora senza risposte alcune questioni cruciali - quali l’esigenza di flessibilità nell’accesso alle pensioni, di maggiori garanzie per futuro pensionistico delle giovani generazioni e il rilancio della previdenza complementare - su cui si discute oramai da più di un ventennio, all’indomani della Riforma Fornero.
Ecco allora che per quanto riguarda la previdenza in senso stretto, la situazione nel 2025, permane simile a quella dello scorso anno. L’età della pensione di vecchiaia resta fissata a 67 anni fino al 31 dicembre 2026 per effetto dell’adeguamento nullo dei requisiti per la speranza di vita e ci si limita a prorogare le misure in materia di anticipo pensionistico, in scadenza al 31 dicembre 2024, per un ulteriore anno.
In particolare, della c.d. Quota 103 vengono confermati i requisiti, da maturare entro il 31 dicembre 2025: 62 anni di età e 41 di contributi, di cui almeno 35 ottenuti (senza considerare contribuzione figurativa per malattia, disoccupazione o infortuni); confermato anche il calcolo dell’intera pensione con il metodo di calcolo contributivo (e non misto), anche per la parte di anzianità accumulata in regime retributivo.
Inoltre, la misura dell’assegno non può risultare superiore a 4 volte il trattamento minimo Inps fino al compimento dei 67 anni di età; in aggiunta, viene prevista una c.d. finestra mobile, vale a dire un periodo intercorrente tra la maturazione dei requisiti e la fruizione della prima rata di pensione, confermata a 7 mesi per i dipendenti del settore privato e a 9 per i dipendenti pubblici.
Da evidenziare poi che per chi opta per Quota 103 resta vigente il divieto di lavorare e, quindi, l’impossibilità di cumulare redditi da lavoro con quelli da pensione fino al raggiungimento dei 67 anni di età. Prorogata anche la misura “Opzione donna”, confermata nella versione prevista dalla precedente legge di bilancio.
Per il 2025 si rivolge alle donne che entro il 31 dicembre 2024 abbiano maturato 61 anni di età (il requisito anagrafico è ridotto di un anno se con un figlio, di due anni se con due figli) e con 35 anni di contributi. È inoltre richiesta l’appartenenza a una delle seguenti tre categorie: caregiver che presta assistenza da almeno sei mesi al coniuge o a un parente di primo grado convivente con handicap in situazione di gravità, ovvero un parente o un affine di secondo grado convivente qualora i genitori o il coniuge della persona con handicap in situazione di gravità abbiano compiuto i 70 anni d’età oppure siano anch’essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti; lavoratrice colpita da una riduzione della capacità lavorativa, superiore o uguale al 74%; lavoratrice licenziata o dipendente da imprese per le quali è attivo un tavolo di confronto per la gestione della crisi aziendale (solo per queste ultime i requisiti sono 59 anni e 35 anni di contributi entro il 31 dicembre 2024, a prescindere dalla presenza di figli).
Resta in vigore il meccanismo di differimento nell’erogazione del primo rateo pensionistico (ovvero la finestra mobile di 12 mesi per le dipendenti e di 18 mesi per le autonome) e il calcolo dell’assegno pensionistico interamente con il metodo contributivo. Prorogata fino al 31 dicembre 2025 anche l’APE sociale che più che una pensione in senso stretto andrebbe considerata un’indennità a carico dello Stato erogata dall’Inps.
Confermato a 63 anni e 5 mesi il requisito anagrafico, possono farne richiesta: i lavoratori disoccupati (con 30 anni di contribuzione) a seguito di cessazione del rapporto di lavoro per licenziamento, anche collettivo, dimissioni per giusta causa o risoluzione consensuale o dipende massimo di 1.500 euro lordi mensili) e l’assenza di tredicesima e adeguamenti all’inflazione fino al raggiungimento, a 67 anni di età anagrafica, della pensione di vecchiaia.
2. Al di là di tali conferme, vale la pena comunque segnalare alcune novità. Innanzitutto si registrano degli interventi finalizzati a favorire la permanenza al lavoro e ovviare alla mancanza di determinate expertise nel settore privato e pubblico, contrastando la carenza di personale qualificato in vari settori, ma anche per ridurre la pressione immediata sul sistema previdenziale, posticipando più a lungo possibile il “carico” pensionistico di lavoratori che hanno già maturato i requisiti.
In particolare si prevede un esonero contributivo parziale, di cui il lavoratore trae beneficio immediato in busta paga con aumento di fatto del reddito netto, senza rinunciare ai contributi versati fino a quel momento.
Viene, cioè, modificato il c.d. “bonus Maroni” previsto per premiare chi, pur avendo i requisiti di Quota 103, decida di continuare a lavorare: è concessa, per i lavoratori che maturano i requisiti per la pensione anticipata entro dicembre 2025, la facoltà di esentare il datore di lavoro dal versamento della quota contributiva a carico del lavoratore dipendente (circa il 9,19%).
La quota non versata a titolo di contribuzione viene corrisposta al lavoratore ma non concorre a formare reddito ai fini fiscali. Si allarga la platea dei possibili beneficiari, che ora include, oltre ai soggetti con i requisiti per Quota 103, anche coloro che maturino, entro il 31 dicembre 2025, 42 anni e 10 mesi di contributi per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne. In senso analogo si interviene anche per agevolare la permanenza al lavoro nel settore pubblico, introducendo la possibilità di concordare con i dipendenti, compreso il personale in regime di diritto pubblico, il trattenimento in servizio oltre il limite massimo di 67 anni, fino al compimento del settantesimo anno di età.
Tale possibilità è ammessa nel limite del 10% delle facoltà assunzionali autorizzate a legislazione vigente e deve basarsi sulla necessità della prosecuzione dell’utilizzo del personale interessato, individuato sulla base di esigenze organizzative e di merito, per lo svolgimento di attività di tutoraggio e di affiancamento ai neoassunti o per esigenze funzionali non diversamente risolvibili. L’introduzione della possibilità di trattenimento in servizio non ha effetti finanziari e comporta un’automatica riduzione delle facoltà assunzionali previste a legislazione vigente.
L’obiettivo di incentivare la permanenza al lavoro nella pubblica amministrazione viene raggiunto anche attraverso l’innalzamento dei limiti ordinamentali che dai 65 anni di età (validi per la generalità dei dipendenti pubblici) vengono agganciati all’età pensionabile (cioè 67 anni).
Viene, altresì, abrogato l’obbligo di collocamento in pensione d’ufficio e la facoltà della risoluzione facoltativa del rapporto di lavoro nei confronti dei dipendenti che abbiano raggiunto il diritto a pensione anticipata.
Un’interessante novità della Legge di Bilancio 2025 è data, poi, dalla possibilità di uscita pensionistica anticipata utilizzando la rendita da fondo pensione in modo da rendere più flessibile l’accesso a tale forma di uscita pensionistica ai soli fini del raggiungimento dell’importo soglia mensile dell’assegno sociale stabilito. Tale misura vale solo per le pensioni interamente contributive, i c.d. contributivi puri, i quali possono accedere al pensionamento all’età di 64 anni e 25 anni di contributi (30 nel 2030).
La novità consiste nel fatto che, per raggiungere l’importo soglia minimo dell’assegno pensionistico, il quale è pari a 3 volte l’assegno sociale per gli uomini e 2,8 volte per le donne, può essere utilizzata anche la rendita derivante da fondo previdenziale complementare.
Pertanto, qualora i contributi versati alla previdenza pubblica non siano sufficienti a raggiungere tali soglie, gli importi maturati dalla previdenza complementare potranno essere utilizzati per “colmare la differenza” e consentire all’aderente l’uscita dal mondo del lavoro.
Si tratta di una novella che se, per un verso, può configurarsi come un primo passo verso una maggiore flessibilità nel sistema previdenziale, pensata per offrire ai lavoratori che hanno aderito alla previdenza complementare nuove possibilità per pianificare il proprio futuro pensionistico, per altro verso, presenta una scarsa efficacia, interessando una platea molto limitata di lavoratori (all’incirca un centinaio nel 2025).
Sempre nel quadro delle misure a favore dei pensionati, per supportare il potere di acquisto dei percettori di pensione degli assegni più bassi, va segnalato, per il biennio 2025-2026, l’incremento delle pensioni minime, pari al 2,2% nel 2025 e all’1,3% nel 2026.
Minimi aumenti sono disposti anche per i pensionati in condizioni di disagio over 70 e per i titolari di assegno sociale; questo incremento (riconosciuto d’ufficio) è pari a 8 euro mensili, riguarda i pensionati con un reddito inferiore a una soglia stabilita annualmente ed è riconosciuto automaticamente a coloro che già beneficiano di tale maggiorazione.
La Legge di Bilancio ridetermina anche l’indicizzazione delle pensioni per il 2025, ripristinando un criterio più favorevole, già applicato durante il Governo Draghi, dopo due anni di tagli alle rivalutazioni annuali.
A differenza degli anni precedenti, si torna a un sistema di indicizzazione “per scaglioni” (fino a 4 volte il minimo 100,0%; oltre 4 e fino a 5 volte il minimo 90,0% e oltre cinque volte il minimo 75%), che risulta più vantaggioso per i redditi medi e alti rispetto al precedente metodo cosiddetto “per fasce”.
Le pensioni saranno rivalutate sulla base dell’inflazione del 2024, certificata dall’ISTAT allo 0,8%, comportando, di fatto, aumenti contenuti vista la bassa inflazione registrata nel 2024, decisamente inferiore rispetto ai picchi di oltre il 5% degli anni precedenti.
Di rilievo alcune novità a vantaggio delle lavoratrici madri. Innanzitutto, viene estesa la riduzione del requisito anagrafico per l’accesso alla pensione di vecchiaia, innalzando da 12 a 16 mesi il limite massimo di anticipo di età rispetto al requisito di accesso alla pensione di vecchiaia per la lavoratrice madre di quattro o più figli, quale periodo di accredito figurativo per i trattamenti pensionistici determinati secondo il sistema contributivo.
In secondo luogo, dal 2025, diventa strutturale l’esonero contributivo; l’agevolazione è rivolta alle donne lavoratrici con almeno due figli e prevede una riduzione parziale dei contributi previdenziali IVS (invalidità, vecchiaia, superstiti) a carico della lavoratrice.
La misura si applica sia alle lavoratrici dipendenti che a quelle autonome, l’importante è che il reddito il reddito annuale sia almeno pari ad una volta e mezza l’importo dell’assegno sociale. In tal modo si intende, da un lato, favorire l’accesso delle donne al mercato del lavoro e, dall’altro, ridurre il gap previdenziale verso i lavoratori uomini.
Nella logica, poi, di favorire la genitorialità, vale la pena citare anche un intervento, pur estraneo al circuito previdenziale, rientrante comunque nel più ampio settore delle politiche sociali, ovvero l’incremento dell’indennità per congedo parentale, pari all’80% della retribuzione, di un ulteriore mensilità, fino a tre mesi.
3. Da ultimo, va segnalata anche una novità che non riguarda il sistema pensionistico ma che appare, tra le modifiche in tema previdenziale in senso lato presenti nella manovra finanziaria per il 2025, quella, forse, di maggiore impatto, in senso regressivo per i lavoratori, laddove inasprisce i requisiti di accesso al sussidio di disoccupazione, la c.d. Naspi.
L’obiettivo è contrastare comportamenti elusivi che talvolta vedono lavoratori e datori di lavoro collaborare per simulare situazioni di disoccupazione involontaria al fine di accedere al sussidio. Lo testimonierebbero i dati Inps sulle comunicazioni obbligatorie che indicano un aumento di cessazioni volontarie (che, come noto, non danno diritto alla disoccupazione) seguite da rioccupazioni temporanee con licenziamento, finalizzate esclusivamente a generare le condizioni per il diritto al sussidio.
La novella, che ha efficacia per gli eventi di disoccupazione determinatisi dal 2025, impone la presenza del requisito di almeno 13 settimane di contribuzione per l’accesso alla Naspi nel caso in cui la cessazione del rapporto di lavoro per cui si richiede la prestazione sia preceduta, nei 12 mesi antecedenti, da una risoluzione volontaria di un altro rapporto lavorativo a tempo indeterminato.
In pratica, il lavoratore che si dimette da una azienda oppure risolve consensualmente il rapporto di lavoro e nei 12 mesi successivi viene assunto e licenziato da una seconda azienda, prima di aver maturato almeno 13 settimane di contributi non avrà diritto alla Naspi (sono fatte salve le ipotesi di dimissioni per giusta causa, quelle intervenute nel periodo tutelato della maternità e della paternità, nonché per i casi di risoluzione consensuale intervenute nell’ambito della procedura di cui all’art. 7 della l. n. 604/1966).
Da più parti è stato evidenziato che questa novità, che risponde anche (e ancora una volta) a logiche di contenimento della spesa pubblica, rischia di penalizzare anche i lavoratori che presentano le dimissioni per motivazioni incontestabili, come, ad esempio, per cogliere una migliore opportunità lavorativa, e che successivamente perdono il lavoro per motivi effettivamente indipendenti dalla loro volontà.
Peraltro, nella stessa ottica di limitazione dell’accesso alla Naspi si pone anche la misura nel Collegato lavoro (Legge 13 dicembre 2024, n. 203), sulle dimissioni per fatti concludenti, ovvero la risoluzione del rapporto di lavoro a carico del lavoratore in caso di assenze ingiustificate oltre i limiti previsti per contratto (o oltre i 15 giorni se il contatto non specifica la soglia massima).
4. In sede conclusiva, può osservarsi come il legislatore, anche con l’ultima Legge di Bilancio continui a intervenire, in materia previdenziale, con misure di portata relativamente limitata − spesso trincerandosi dietro a ragioni di scarsità di risorse economiche − certamente non in grado di fornire una risposta definitiva alle criticità, oramai croniche, del nostro ordinamento, soprattutto all’esigenza di inserire elementi di flessibilità che consentano, in primis a chi ne abbia maggior bisogno, di ritirarsi prima del raggiungimento delle elevate anzianità anagrafiche e contributive stabilite dalla riforma del dicembre 2011.
E, dunque, nonostante le continue promesse di “abolizione della Fornero” da parte di alcuni dei principali esponenti del Governo, il sistema pensionistico italiano continua a basarsi sull’architettura definita proprio dalla riforma del 2011.
Manca una visione di largo respiro che porti ad affrontare in modo strutturale i principali nodi del sistema previdenziale italiano, relativi al livello elevato e rigido dell’età pensionabile e al rischio di prospettive pensionistiche inadeguate per molti fra i lavoratori delle generazioni che vedranno calcolata la pensione interamente con il metodo contributivo.
Certo non si intende qui rimettere in discussione la scelta del metodo contributivo a vantaggio di quello retributivo, ma si vuole solo evidenziare la necessità di una serie di interventi correttivi, non più rinviabili, per introdurre una soluzione strutturale al problema del futuro reddito pensionistico, specie, dei giovani (si pensi alla proposta di introdurre la pensione contributiva di garanzia), ovvero garantire pensioni adeguate e, soprattutto, un futuro pensionistico a coloro i quali, sempre più numerosi e spesso donne, sono costretti a districarsi in una dinamica del mercato del lavoro completamente nuova, con scarse opportunità occupazionali, discontinuità lavorativa strutturale, pochi contributi versati e conseguente inadeguatezza della maturanda prestazione pensionistica.
In questa prospettiva, indubbiamente, le misure introdotte dalla legge di Bilancio 2025, in assoluta continuità con le manovre finanziarie degli ultimi anni, appaiono ancora nihil sub sole novum.
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