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Donne & avvocate: più lavoro, più figli. Denatalità e riflessi previdenziali

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Debora Felici

C’era una volta l’idea che le donne lavoratrici afcessero meno figli. Ma, adesso, quell’idea non c’è più.

Le donne impegnate lavorativamente non rinunciano alla maternità e, se lo fanno, molto probabilmente non è per via del lavoro, ma per altre ragioni.

Se si vanno a confrontare i dati relativi al numero di figli delle donne lavoratrici e non, scopriamo che i tassi di fecondità sono più alti negli Stati europei che hanno elevate percentuali di partecipazione delle donne al mercato del lavoro, come in Svezia, dove il tasso di occupazione femminile, pari a 85%, è accompagnato da un tasso di fecondità to- tale pari a 1,7 figli per donna, valore tra i più alti nell’ Unione europea.1

È stato sottolineato al riguardo che in Svezia, come in altri paesi ad alta occupazione femminile, gioca un ruolo importante nella scelta di avere figli la consapevolezza dei genitori, in particolare delle madri, di poter avere una carriera professionale senza dover necessariamente rinunciare a quella familiare. 2

Anche in Italia, sono proprio le regioni con più elevato tasso di occupazione femminile quelle che registrano il più elevato numero medio di figli per donna, tranne che in Calabria, Campania e Sicilia, dove invece troviamo famiglie numerose e bassa presenza femminile nel mercato del lavoro. 3 

Dai dati del Ministero della Salute, risulta che la maggior parte delle donne che hanno partorito in Italia nell’anno 2020 ha una scolarità medio alta (42,6%), ha conseguito una laurea (32,7%) e lavora (56,2%) 4 . I dati ci dicono che anche per le avvocate l’attività lavorativa non limita la fecondità, ma anzi pare incentivarla.

Molto interessante è, a tale riguardo, l’analisi dell’Ufficio Attuariale di Cassa Forense svolto su gruppi di avvocate appartenenti alla stessa generazione. Confrontando redditi e numero di figli, si vede che sono le professioniste con maggiore reddito ad avere avuto più figli. Lo studio condotto su diverse generazioni di avvocate ha confermato il risultato.

Per dare un esempio, nel grafico che segue mostriamo l’evoluzione del reddito professionale dichiarato dalle avvocatesse che hanno la prima iscrizione alla cassa dall’anno 2000, cioè di una generazione di professioniste accomunate dalla medesima anzianità di iscrizione.

All’interno della generazione si distinguono due gruppi, quello delle avvocate con un solo figlio e quello delle avvocate con almeno due figli. Dall’analisi si evince che, i primi anni di iscrizione, il reddito professionale dei due gruppi è sovrapponibile per poi diversificarsi al trascorrere dell’anzianità di iscrizione maturata in favore delle professioniste che hanno avuto almeno due figli.

Come si è detto, la rilevazione ha dato analogo risultato in tutte le diverse generazioni analizzate.

 

Studiare l’andamento della natalità e individuare strumenti per incentivarla è importante ai fini della sostenibilità e della efficienza dei sistemi pensionistici e sanitari, chiamati a erogare un crescente numero di prestazioni a favore della popolazione che invecchia, nonché a fare i “conti” con prospettive di scarsa crescita del numero di contribuenti attivi.

Siamo sempre meno giovani e con meno figli, e sempre più anziani. Questo il “trend” demografico del nostro Paese negli ultimi decenni. L’Ocse ha da tempo lanciato l’allarme: entro il 2050 potrebbero esserci più pensionati che lavoratori. In Italia, nei prossimi trent’anni, il rischio è di un rapporto uno a uno o addirittura di più over 50 fuori dal mondo del lavoro che lavoratori. Il che metterebbe quantomeno in discussione non solo la stabilità finanziaria del nostro attuale sistema di protezione sociale, ma anche l’adeguatezza delle prestazioni che è chiamato a garantire.5 

In una popolazione che invecchia, ancora una volta, il rapporto tra pensionati e occupati aumenta. Ma alcuni studiosi del settore fanno notare che le tinte “fosche” e preoccupanti del nostro futuro scenario sociale e previdenziale possono essere “attenuate”, agendo politicamente su alcune variabili delle previsioni attuariali che offrono margini di adattabilità. Infatti, se l’aumento dell’aspettati- va di vita e la crescita della popolazione anziana sono parte solida delle previsioni, l’incertezza risulta invece domi- nante sulla stima della fecondità e sul saldo migratorio. 6

L’andamento demografico in Italia negli anni recenti Il calo della natalità in Italia inizia con il passaggio dal- la società agraria a quella industriale.

Nell’immediato dopoguerra le nascite riprendono a crescere, fino ad arrivare al picco, il “baby boom”, nel 1964, quando il tasso di fecondità totale tocca il record massimo di 2,7 figli per donna, sebbene con differenze tra le regioni del Nord e del Sud. In queste ultime l’incremento di natalità fu di minore entità, perché legato alla crescita economica che fu maggiore nel Nord e al Centro.

Dalla metà degli anni Sessanta in poi, le nascite riprendono a diminuire e così anche il numero dei matrimoni. La crescita economica rallenta e, complici anche le crisi petrolifere, aumenta la disoccupazione che porta con sé timori e incertezze delle coppie per il proprio avvenire e per quello dei propri figli.

Negli anni Novanta, il ricambio generazionale diventa negativo: si contano 96 nascite ogni 100 morti. La fecondità continua a scendere, non soltanto in Italia ma anche in Europa, e si attesta nel nostro Paese su livelli inferiori alla soglia di 1,3 figli per donna. Nel 1995, si compie in Italia lo storico capovolgimento della popolazione, con più ultrasessantacinquenni che under 15. Nel primo decennio degli anni 2000 le nascite recuperano, per poi tornare a diminuire. Avvengono con genitori di età sempre più elevate: l’età media al parto passa da 30,4 anni nel 2000 a 32,7 anni nel 2019 (livello re- cord in ambito europeo). Arriviamo ai giorni nostri: nel 2020, il tasso di fecondità scende a 1,24 figli per donna.

Con riferimento agli effetti della denatalità sul sistema previdenziale e sociale, è stato osservato che ci troviamo di fronte ad una “tempesta demografica perfetta” che rischia di farne saltare l’equilibrio ,7 perché la denatalità condiziona diversi fattori importanti ai fini previdenziali e sociali, tra cui anche l’indice di dipendenza strutturale, ovvero il rapporto tra popolazione non attiva e popolazione attiva, e cioè tra popolazione non in età da lavoro e popolazione in età di lavoro.

Secondo lo studio citato, il calo di natalità comporta anche la graduale riduzione della capacità del “welfare familiare”, che finora ha sopperito alla mancanza o alla scarsità dei servizi per famiglie e anziani, nonché si somma ad altri elementi capaci di incrementare lo squilibrio del sistema previdenziale, quali ad esempio l’aumento dell’aspettativa di vita.

Per certo, a contribuire alla crescita assoluta e relativa della popolazione anziana concorrerà soprattutto il transito delle folte generazioni degli anni del baby boom (nati negli anni ’60 e prima metà dei ’70) tra le età adulte e senili, con concomitante e repentina riduzione del- la popolazione in età lavorativa. I dati Istat ci dicono che il rapporto tra individui in età lavorativa (15-64 anni) e non (0-14 e 65 anni e più) passerà da circa tre a due nel 2021, a circa uno a uno nel 2050 8 . L’analisi vede in crescita le famiglie ma con un numero medio di componenti sempre più piccolo.

Meno coppie con figli, più coppie senza: entro il 2041, una famiglia su quattro sarà composta da una coppia con figli, mentre più di una su cinque non ne avrà. Ricordandoci che le previsioni demografiche sono, per costruzione, tanto più incerte quanto più ci si allontana dall’anno base, Istat stima che la popolazione totale del nostro Paese potrebbe ammontare a 47,7 milioni nel 2070, conseguendo una per- dita complessiva di 11,5 milioni di residenti rispetto a oggi.

Quali possono essere le soluzioni al problema del calo demografico?

È stato osservato che dal confronto con gli altri paesi europei emergono tre “nodi” principali che frenano la realizzazione piena dei progetti “riproduttivi” degli italiani: le difficoltà dei giovani nel conquistare una piena autonomia economica, le carenze degli strumenti di conciliazione tra lavoro e famiglia e il rischio di povertà per le famiglie che vanno oltre il secondo figlio 9 .

I giovani hanno difficoltà a conquistare l’autonomia economica e una propria dimensione di vita da adulti, e ciò li porta a rinviare anche il progetto di fare un figlio 10 .

Per avere più giovani, servono più nascite. Occorrono quindi politiche a sostegno delle coppie, dei giovani e delle famiglie, che promuovano il loro benessere e li agevolino nel perseguimento dei loro obiettivi di vita, possibilmente spingendo gli aspiranti genitori ad anticipare l’età della filiazione. Per questo, è utile soprattutto che vi sia una crescita regolare dell’occupazione giovanile. Il sostegno al reddito delle famiglie ha un impatto positivo sulle scelte riproduttive, ma anche quello all’occupazione femminile potrebbe avere forti ricadute positive sui livelli di fecondità e sul benessere dei nuclei. Secondo gli studiosi, fortunatamente, la bassa fecondità non è destino.

La politica può aiutare gli aspiranti genitori e in particolare le donne a conciliare carriera professionale e maternità. Come avvenuto nei paesi scandinavi, alcuni dei quali, che avevano i tassi più bassi negli anni Settanta, hanno oggi hanno i tassi di fecondità più elevati dell’Unione europea.

Come agire in concreto?

Alcune misure, come congedi e bonus monetari una tantum, sono reputati efficaci per sostenere il desiderio di genitorialità delle coppie ma hanno solitamente un effetto limitato nel tempo. Più duratura l’efficacia degli interventi di sostegno prolungati nel tempo, come ad esempio l’offerta di sevizi all’infanzia, nonché le misure di welfare aziendale tese a rendere più flessibile l’orario di lavoro, utili soprattutto in un paese come l’Italia, in cui l’opzione del part-time è non sempre valida e percorribile.

Anche l’investimento in istruzione favorisce l’occupazione soprattutto femminile. È stato osservato come, durante la crisi economico-finanziaria del 2008 e quella più recente del 2019, le donne con elevato titolo di studio hanno sperimentato una più contenuta riduzione delle nascite e un più accentuato recupero delle stesse dopo le prime ondate della pandemia, specie nelle regioni del Nord 11 .

Tra i fattori che spiegano la bassa fecondità ve ne sono alcuni che non sono direttamente controllabili dalle politiche, come la difficoltà a trovare un partner giusto per fare famiglia o il non sentirsi pronti per il passaggio alla genitorialità; altri fattori, però, sono suscettibili di essere influenzati dalla politica, come il costo dei figli, il reddito delle coppie, l’incompatibilità dei compiti di cura domestici ed extradomestici, l’insicurezza economico-lavorativa e finanziaria delle giovani coppie.

In altri paesi europei come Svezia, Germania e Francia l’inversione del trend della natalità si è realizzata grazie a interventi che hanno aiutato i genitori a conciliare carriera professionale e carriera riproduttiva come assegni familiari, servizi all’infanzia, flessibilità nell’utilizzo dei congedi parentali agevolazioni fiscali.

Le soluzioni non sono solo quelle del sostegno economico. Gli studi sociologici ci dicono che fondamentale è promuovere l’eguaglianza dei ruoli di genere, non solamente nel mercato del lavoro ma anche all’interno della coppia e, quindi, la partecipazione dei padri ai lavori di cura dei figli mediante strumenti come il congedo di paternità 12 .

Servono scelte politiche coraggiose e lungimiranti, che pongano al centro del sistema valori come quello della parità di genere e del sostegno alla filiazione, accrescendo nelle nuove generazioni la fiducia e l’ottimismo verso il futuro.


Note

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