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Determinazione dell’imponibile contributivo nelle casse di previdenza dei liberi professionisti*

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Marcello Bella e Silvia Caporossi

1. L’art. 54, comma 1, del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, statuisce che il reddito relativo alle libere professioni è costituito dalla differenza tra l’ammontare dei compensi percepiti e quello degli oneri sostenuti nell’esercizio della professione nello stesso periodo di imposta.

Alla luce del disposto normativo di cui al precedente capoverso, i contributi previdenziali ed assistenziali che fanno capo ai liberi professionisti in ottemperanza a disposizioni di legge, non potendosi considerare quali oneri sostenuti in connessione con l’esercizio della professione, devono intendersi deducibili ai fini del reddito complessivo, non già, dunque, dal singolo reddito che concorre a formare il reddito complessivo, in conformità al disposto dell’art. 10, comma 1, lett. e), del citato D.P.R. 917/1986 1 .

Infatti, l’art. 10 del citato D.P.R. n. 917/1986 (art. 10 del previgente D.P.R. n. 597/1973) prevede espressamente, al comma 1, lett. e) (prima lett. i), la deducibilità dal reddito complessivo dei “contributi previdenziali ed assistenziali versati in ottemperanza a disposizioni di ad avere natura previdenziale, sono versati in ottemperanza a precise ed inderogabili disposizioni di legge e sono effettivamente a carico dei soggetti beneficiari della legge stessa. Pertanto, laddove regolarmente dichiarati e documentati, “dovevano e devono essere dedotti dal reddito complessivo, presentando tutti i requisiti previsti prima dall’art. 10, comma 1, lettera i), del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 597 ed ora dall’art. 10, comma 1, lettera e), del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917” 2 .

In sostanza, l’art. 54, comma 1, del testo unico emanato con D.P.R. 917/1986, nel dettare le regole per la determinazione del reddito di lavoro autonomo, non prevede espressamente la possibilità di dedurre i contributi previdenziali di natura soggettiva dai compensi percepiti, cosa che, invece, l’art. 10, comma 1, dello stesso testo unico prevede esplicitamente ai fini della deduzione dal reddito complessivo; quindi, la deducibilità dei contributi previdenziali ai sensi dell’art. 54, comma 1, quali oneri afferenti all’esercizio della professione, avrebbe avuto una ragion d’essere laddove tale eventualità non fosse stata affatto prevista dal legislatore, mentre quest’ultimo ha espressamente disposto in materia con l’art. 10, comma 1, lett. e) 3 .

Sul punto giova richiamare l’interpretazione fornita sull’argomento anche dall’Amministrazione finanziaria, la quale ultima, con la risoluzione n. 79 dell’8 marzo 2002 – sebbene pronunciata a seguito di quesito pro- posto dalla Cassa Nazionale del Notariato, la cui situazione, come si dirà più avanti, merita particolare attenzione - ha puntualizzato che i contributi previdenziali possono essere dedotti solo dal reddito complessivo e non invece da quello professionale, in quanto l’art. 10, comma 1, lett. e), del Tuir consente la deducibilità dei contributi obbligatori dal reddito complessivo se questi non sono deducibili nella determinazione dei singoli redditi che concorrono a formarlo; in tal senso, particolarmente significativa è la circostanza che l’art 51, comma 2, lett. a) del Tuir (art. 48 prima della riforma del 2004) stabilisce la deduzione diretta di tali contributi dalla determinazione del reddito da lavoro dipendente, mentre per il lavoro autonomo nessuna disposizione prevede i contributi previdenziali tra le spese deducibili, né, peraltro, vi è alcuna connessione funzionale tra il contributo ed il reddito professionale, tale da individuare il primo come “spesa” afferente alla professione, giacché il contributo viene versato al fine di tutelare la posizione pensionistica del lavoratore ed è quindi connesso alla sua sfera personale.

In proposito, si osserva che una spesa, per essere inclusa tra le componenti negative del reddito, deve trovarsi – come precisato dall’Amministrazione delle Finanze con circolare n. 20/8/168 del 1° giugno 1985 – in rapporto di causa ed effetto con un guadagno; deve, cioè, essere sostenuta in funzione di un ricavo.

Ciò, certamente, non avviene per i contributi previdenziali, i quali, a prescindere dal silenzio della legge circa la loro collocabilità tra le componenti negative del reddito, non vengono erogati in funzione della produttività, ma soltanto in occasione dell’espletamento dell’attività lavorativa e con finalità del tutto diverse ed estranee da quelle meramente privatistiche della produzione del reddito; infatti, loro scopo è il concorso e la collaborazione alla finalità pubblica di assicurare al cittadino la tutela previdenziale ed assistenziale.

Invero, i contributi erogati alla Cassa di previdenza costituiscono un onere dovuto a posteriori e, quindi, una conseguenza del reddito prodotto, non già una spesa necessaria per la produzione del reddito deducibile ai sensi dell’art. 54 del testo unico.

Per cui, non si può fondatamente sostenere che tali contributi debbano essere inclusi tra le spese relative alla produzione del reddito professionale e, come tali, vadano dedotti dal reddito da lavoro autonomo. Quanto sopra, peraltro, è confermato dall’orientamento assunto, al riguardo, dall’Amministrazione finanziaria, allorché, con la risoluzione ministeriale n. 8/825 del 29 dicembre 1984 e con la circolare n. 20 del 1° giugno 1985 – relativa ai contributi previdenziali ed assistenziali corrisposti dagli spedizionieri doganali al proprio Ente previdenziale - ha precisato che le contribuzioni fatte a favore di enti previdenziali di categorie professionali sono deducibili solo dal reddito complessivo di chi le effettua, in quanto “contributi previdenziali ed assistenziali obbligatori corrisposti … per la precipua finalità di assicurare al soggetto tenuto alla loro corresponsione un trattamento economico, o di altra natura, che attiene esclusivamente alla sua sfera personale. Infatti, detti contributi, in quanto destinati alla precostituzione di una posizione pensionistica … non possono ritenersi tecnicamente erogati in funzione della produzione del reddito derivante dall’attività svolta, bensì in funzione del sostegno e del ristoro dovuti al soggetto interessato quale persona”.

Del resto, sul medesimo problema si era già pronunciato anche il Ministro delle Finanze On. Visentini, in occasione della discussione alla Commissione Finanze del Senato sul disegno di legge di conversione al decreto legge 19 dicembre 1984, n. 853, giacché, rispondendo ad una precisa interrogazione al riguardo, aveva precisato che “le deduzioni dei contributi previdenziali avvengo- no nel quadro generale della dichiarazione Irpef e non vi è alcun motivo di trasferirle all’interno della determinazione dell’imponibile derivante da attività commerciale o professionale”.

II. Fermo restando quanto sopra, non può comunque tacersi la recente risoluzione n. 66/E del 2020 nella quale l’Agenzia delle Entrate, mutando il proprio precedente orientamento (risoluzione n. 79/E dell’8 marzo 2002, sopra citata), ha riconosciuto la deducibilità dei contributi dovuti dai notai alla relativa cassa di previdenza ai fini della determinazione del reddito di lavoro autonomo, ai sensi dell’articolo 54, comma 1, del TUIR 4 .

Invero, tale risoluzione costituisce un revirement da parte dell’Amministrazione la quale, mettendo fine ad un’annosa querelle 5 , ha infine aderito al consolidato in- legge”.

In altri termini, i contributi in questione, oltre dirizzo giurisprudenziale che ritiene i contributi dovuti alla Cassa Nazionale del Notariato deducibili dal reddito di lavoro autonomo anziché dal reddito complessivo.

La questione, particolarmente articolata, merita un approfondimento, necessario al fine di comprendere le ragioni sottese alla soluzione cui oggi si è giunti ed evidenziare le differenze con il regime relativo agli altri liberi professionisti, tale da escludere un’estensione del principio di diritto espresso dalla giurisprudenza con riferimento ai notai.

In proposito, si rappresenta che la giurisprudenza di legittimità, con sentenza del 26 febbraio 2001, n. 2781, aveva affermato che i contributi previdenziali dovuti dai notai alla relativa cassa di previdenza non fossero deducibili dal reddito complessivo, bensì in sede di determinazione del reddito professionale.

La Corte di Cassazione perveniva a tale conclusione sul presupposto che i contributi versati dai notai alla loro Cassa previdenziale sarebbero stati “inerenti” e, dunque, connessi, all’attività professionale svolta. In tal senso, poiché l’art. 50, comma 1, del previgente D.P.R. 29 settembre 1973, n. 597, (oggi art. 54, comma 1, D.P.R. 917/1986), nella sua originaria formulazione, prevedeva che “il reddito derivante dall’esercizio di arti e professioni è costituito dalla differenza tra i compensi percepiti nel periodo di imposta e le spese inerenti all’esercizio dell’arte o professione effettivamente sostenute nel periodo stesso”, la decisione menzionata riteneva che tra le “spese inerenti all’esercizio dell’arte o professione” rientrassero anche i contributi previdenziali, in quanto il concetto di “inerenza” non poteva essere limitato alle sole spese necessarie per la produzione del reddito ed essere escluso per quelle che sono una conseguenza del reddito prodotto 6 .

Tale distinzione – a giudizio del Supremo Giudice di legittimità – “non si rinviene nella legge e non è neppure ricavabile dall’aggettivo usato dal legislatore, in quanto, per la sua genericità, postula un rapporto di intima relazione tra due cose o idee che si può verificare sia quando l’una sia lo strumento per realizzare l’altra sia quando ne sia l’immediata derivazione”.

In sostanza, la Cassazione concludeva affermando che “i contributi previdenziali in questione erano deducibili in sede di determinazione del reddito professionale” e, quindi, si era in “presenza di una erronea deduzione da parte del contribuente dei contributi obbligatori dal reddito complessivo anziché in sede di determinazione del reddito di lavoro autonomo” . 7

La decisione della Suprema Corte richiamava, nella sostanza, una precedente decisione ad opera dei Giudici tributari, laddove questi ultimi avevano precisato che i contributi versati obbligatoriamente dai notai alla Cassa nazionale del Notariato avevano inequivocabilmente la natura giuridica di oneri obbligatori attinenti, direttamente, l’esercizio della professione notarile; conseguentemente, tali contributi erano deducibili secondo la disciplina del previgente art. 50, comma 1, D.P.R. 597/1973 (attuale art. 54, comma 1, D.P.R. 917/1986), ai fini della determinazione del reddito di lavoro autonomo (Commiss. Trib. Centrale, 3 maggio 1997, n. 2052).

Le due pronunce innanzi riportate, invero, sono intervenute a modificare l’indirizzo che si era al tempo sviluppato nell’ambito della giurisprudenza tributaria, in quanto le precedenti decisioni sull’argomento avevano sempre ritenuto pacifica la deducibilità dal reddito complessivo ai sensi dell’art. 10 D.P.R. 597/1973, allora vigente, dei contributi versati dai notai alla Cassa nazionale del Notariato (Commiss. Trib. I grado Pisa, 21 giugno 1993; Commiss. Trib. Centrale, 11 marzo 1982, n. 2436).

Sul punto si era peraltro espresso anche il Giudice delle leggi, sebbene incidentalmente, allorché aveva trattato della “previsione normativa, razionale nel sistema tributario, della possibilità che l’importo del contributo versato sia portato dal notaio in detrazione dal reddito imponibile per il corrispondente anno d’imposta al fine di evitare una doppia imposizione (art. 10, comma 1, lett. e) del d.P.R. n. 917 del 1986)" (Corte Cost., 4 febbraio 2000, n. 25). L’orientamento espresso dal giudice di legittimità, ancorché seguito dalla giurisprudenza di merito, era stato contestato dall’Agenzia delle Entrate che, nella già menzionata risoluzione n. 79/E dell’8 marzo 2002, aveva affermato che i contributi versati dai notai alla relativa cassa di previdenza potessero essere dedotti esclusiva- mente dal reddito complessivo del contribuente ai sensi dell’articolo 10 comma 1, lettera e), del Tuir.

L’Amministrazione aveva in proposito osservato che i contributi in esame non potessero essere ricondotti nell’alveo delle spese sostenute per l’esercizio dell’attività professionale – come ritenuto dalla Suprema Corte con la citata sentenza -, attenendo esclusivamente alla sfera personale del lavoratore, in quanto finalizzati a garantire allo stesso una posizione pensionistica e un’assistenza personale al verificarsi di determinati eventi (ad esempio malattia o infortunio).

Le spese afferenti l’attività professionale, viceversa, erano identificate con le spese sostenute per lo svolgimento di attività o per l’acquisizione di beni da cui derivavano compensi che concorrevano alla formazione del reddito professionale ed era, pertanto, necessaria una connessione funzionale, anche indiretta, dei costi ed oneri sostenuti rispetto alla produzione dei predetti compensi.

Del resto, l’Agenzia non riteneva neanche rilevante la circostanza che i contributi in esame fossero commisurati all’ammontare degli onorari percepiti dal professionista, costituendo tale importo soltanto la base per la quantificazione dei contributi dovuti alla Cassa Nazionale del Notariato, senza contare, peraltro, che i contributi previdenziali e assistenziali costituivano per la generalità dei contribuenti oneri deducibili dal reddito complessivo benché determinati in considerazione del reddito prodotto dal lavoratore.

Ciononostante, la Corte di Cassazione non ha modificato l’orientamento precedentemente esposto, confermandolo prima con la sentenza del 27.01.2009 n. 1939, nella quale si è integralmente riportata al contenuto della propria pregressa pronuncia 8, e successivamente con la recente sentenza del 10.01.2018 n. 321, in cui ha rigettato in toto il ricorso proposto dall’Agenzia delle Entrate.

Infatti, ribadita la centralità del concetto di “inerenza”, non limitato alle sole spese necessarie per la produzione del reddito ma esteso altresì a quelle che ne sono una conseguenza, ha statuito che, sebbene il principio di diritto enunciato nella sentenza n. 2781/2001 sia stato pronunciato con riferimento al previgente art. 50, comma 1, D.P.R. 597/1973, l’attuale art. 54 Tuir non esclude la deducibilità dal reddito professionale dei contributi repertoriali dei notai, permanendo invariata la loro inerenza all’esercizio professionale. “In buona sostanza, se tali contributi non sono deducibili ai sensi della seconda parte del primo comma del citato art. 54 TUIR, in quanto posti dalla legge direttamente a carico del professionista per aver iscritto l’atto a repertorio e non del cliente (e quindi corrisposti soltanto dal notaio, indipendentemente dall’effettiva riscossione del corrispettivo della prestazione e dalla eventuale gratuità della stessa), lo sono però in base alla prima parte della disposizione in esame, ove si fa espresso riferimento alle “spese sostenute nel periodo stesso nell’esercizio dell’arte o della professione”, ovvero alle spese che, come quelle in esame, sono inerenti all’attività svolta; e neppure è risolutivo il disposto di cui all’art. 10 TUIR posto che l’espressa previsione di deducibilità dal reddito complessivo dei “contributi previdenziali ed assistenziali versati in ottemperanza a disposizioni di legge”, previsto alla lettera e) del comma 1 della citata disposizione, è prevista solo in via residuale, ovvero in mancanza di “deducibilità nella determinazione dei singoli redditi che concorrono a formarlo””.

A tale pronuncia ha da ultimo fatto seguito la recentissima sentenza della Suprema Corte del 4 settembre 2020 n. 18395 – che, evidentemente, ha determinato il cambio di rotta dell’Agenzia delle Entrate –, con cui i Giudici di legittimità hanno confermato i principi espressi nei precedenti arresti, ribadendo l’inerenza dei contributi all’esercizio della professione ed affermando che alla deducibilità dal reddito di lavoro autonomo professionale dei contributi versati dai notai alla Cassa nazionale del notariato corrisponde la deducibilità degli stessi contributi, nonché dei contributi versati al Consiglio nazionale del notariato, dalla base imponibile dell’IRAP ai sensi dell’art. 8 D.lgs. 446/1997.

III. Quanto sopra esposto non deve tuttavia ingenerare l’aspettativa di un’inversione di tendenza anche con riferimento ai contributi dovuti dagli altri liberi professionisti alle rispettive casse di previdenza.

In primo luogo, giova rilevare la diversità di natura giuridica dei contributi previdenziali che fanno carico ai notai rispetto a quella dei contributi dovuti dagli altri liberi professionisti 9 .

In particolare, a tale scopo occorre considerare il momento immediato del prelevamento e dell’imputazione del contributo. Infatti, i contributi previdenziali posti a carico dei notai sono riscossi direttamente dagli Archivi notarili in quota parte rispetto agli onorari repertoriali e gli stessi uffici provvedono al loro versamento mensilmente essendo peraltro tenuti all’invio alla Cassa del Notariato di un prospetto mensile degli onorari dei repertori, in conformità a quanto disposto dalla legge 27 giugno 1991, n. 220.

L’Archivio notarile, in buona sostanza, esegue il versamento delle quote degli onorari nel momento della presentazione degli estratti mensili dei repertori.

Pertanto, i contributi sono dovuti dal notaio mensilmente in relazione all’attività svolta e sono calcolati direttamente in rapporto ad essa ed indipendentemente dall’effettiva riscossione del corrispettivo della prestazione 10;

anzi, come precisato dallo studio del Consiglio nazionale del Notariato in data 10 maggio 1991, “l’importo è comunque dovuto anche se non verrà mai emessa parcella e, quindi, non verrà mai pagata la prestazione per qualunque motivo: insolvenza del committente, gratuità della prestazione, ecc. …”.

In effetti, a stretto rigore normativo, i notai non hanno neanche l’obbligo di emettere fattura in relazione all’attività professionale espletata – secondo quanto statuito dal D.M. delle Finanze in data 25 settembre 1981, che prevede l’emissione della fattura solo previa richiesta del cliente - e, dunque, i contributi non sono ancorati al fatturato, a differenza di quanto avviene per gli altri liberi professionisti.

Dunque, i contributi sono dovuti sulla base degli atti messi a repertorio dal notaio e non sulla base degli onorari percepiti 11 .

Ne discende che, per i notai, il contributo non costituisce un posterius rispetto all’attività professionale, ma nasce con essa perché nel momento stesso in cui un notaio roga un atto, a quella data è obbligato ad iscriverlo a repertorio, evidenziando nel relativo registro la quota per la Cassa di previdenza, che egli stesso versa all’Archivio notarile entro il mese successivo.

Lo stesso Consiglio nazionale del Notariato, con il menzionato studio del 10 maggio 1991 a proposito dei contributi obbligatori, ha rilevato, infatti, “la stretta relazione tra l’esercizio della professione e l’obbligo di tale spesa, anzi, come detto, tale obbligo costituisce addirittura un prius rispetto alla riscossione dello stesso compenso per l’attività svolta. Trattasi, quindi, di spesa inerente all’esercizio della professione, effettivamente sostenuta e documentata da regolari quietanze mensili dell’Archivio notarile”; nello stesso senso è lo studio della Commissione studi tributari dello stesso Consiglio nazionale del Notariato in data 5 giugno 1998, laddove ha precisato che i contributi versati alla Cassa del Notariato “devono essere dedotti al fine di determinare il reddito professionale …

In particolare, sia i contributi versati alla Cassa, che quelli versati per il Consiglio costituiscono voci diverse di costo da indicare nel modello unico 98, quadro E, nel rigo riguardante gli altri costi e oneri”.

Detti contributi, tra l’altro, sono connotati da regolare annotazione nelle scritture contabili di cui all’art. 19 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600: ne discende che “la loro deducibilità ai fini del reddito appare legittima ed in piena coerenza con i presupposti di legge” (studio del Consiglio nazionale del Notariato del 10 maggio 1991, cit.).

Ed in tale sistema di riscossione, rigidamente ancorato agli onorari repertoriali, non può non ravvisarsi una diversità di fondo dagli altri sistemi previdenziali dei liberi professionisti, basati, per la generalità, su una percentuale del reddito professionale netto prodotto nell’arco dell’anno, intendendosi per tale l’ammontare dei compensi effettivamente incassati detratti gli oneri sostenuti per l’esercizio della professione 12 .

Infatti, i notai corrispondono i contributi previdenziali di loro pertinenza al momento del rogito e, dunque, della prestazione professionale, mentre gli altri liberi professionisti versano i contributi solamente in una fase successiva (generalmente l’anno successivo a quello nel corso del quale viene resa la prestazione professionale) e solamente a seguito dell’effettivo incasso.

Tale diversità, peraltro, è stata confermata dalla Suprema Corte, che ha affermato, sempre con riferimento alla previdenza notarile, la difformità intrinseca e l’autonomia dei singoli sistemi previdenziali concernenti le varie categorie di professionisti (Cass., SS.UU., 26 agosto 1997, n. 8051).

Ne discende che il principio di diritto enunciato dalla Suprema Corte con gli arresti sopra menzionati potrebbe ritenersi conforme alla disciplina normativa in tema di previdenza notarile, ma, per ciò stesso, non applicabile né estensivamente, né in via analogica alla disciplina degli altri liberi professionisti.

Ed invero, sul punto si è recentemente espressa la giurisprudenza di legittimità 13 la quale, pronunciandosi in un giudizio vertente sulla nozione di “reddito professionale” rilevante ai fini dell’accertamento del superamento dei limiti reddituali per l’iscrizione obbligatoria alla Cassa Forense, ha aderito all’orientamento sopra espresso, affermando incidentalmente che “il «reddito professionale netto», che costituisce l’imponibile contributivo, esprime, dunque, un concetto diverso dal «reddito imponibile ai fini Irpef» (su cui cioè viene calcolata l’imposta) perché solo quest’ultimo e non il primo è dato dalla differenza tra reddito (complessivo) e oneri deducibili; tra questi (id est: tra gli oneri deducibili), peraltro, ai sensi dell’art. 10 lett. e) TUIR, figurano proprio i contributi versati alla cassa professionale, sicché non è concettualmente ipotizzabile che l’imponibile contributivo consegua alla deduzione dei contributi stessi”.

Peraltro, già la giurisprudenza tributaria aveva ritenuto pacifica la deducibilità dal reddito complessivo ai sensi dell’art. 10 D.P.R. 597/1973 – adesso art. 10 D.P.R. 197/1986 - dei contributi versati dai professionisti ai propri enti categoriali (Commiss. Trib. Centrale, 8 lu- glio 1992, n. 4362; Commiss. Trib. Centrale, 11 marzo 1982, n. 2436; Commiss. Trib. I grado Pisa, 21 giugno 1993).

In particolare, era stato anche chiarito che i contributi previdenziali obbligatori versati dagli avvocati fossero integralmente deducibili dal reddito complessivo ai sensi dell’art. 10, D.P.R. 597/1973 (Commiss. Trib. Centrale, 12 febbraio 1997, n. 119; Commiss. Trib. II grado Roma, 12 luglio 1989), così come lo erano i contributi versati dai farmacisti al loro ente previdenziale, in quanto con la locuzione “contributi previdenziali ed assistenziali versati in ottemperanza a disposizioni di legge”, di cui all’art. 10 in parola, il legislatore aveva inteso riferirsi non soltanto all’obbligatorietà, ma anche all’obbedienza e più in generale all’osservanza di disposizioni di legge (Commiss. Trib. Centrale, 29 ottobre 1996, n. 5364) 14 .

Anche il Giudice delle leggi, invero, come innanzi preci- sato, ha trattato la previsione normativa, razionale nel sistema tributario, concernente la possibilità che l’importo del contributo versato sia portato dal professionista “in detrazione dal reddito imponibile per il corrispondente anno d’imposta al fine di evitare una doppia imposizione (art. 10, comma 1, lett. e) del d.P.R. n. 917 del 1986)” (Corte Cost., 4 febbraio 2000, n. 25).

Da tale pronuncia della Consulta, benché riferita ai notai – ma presumibilmente il Giudice delle leggi ha espresso un principio di carattere generale senza addentrarsi nella specificità dell’ordinamento previdenziale notarile –, emerge un’autorevole con- ferma dell’indirizzo giurisprudenziale che ha affermato il principio della deducibilità dei contributi soggettivi dal reddito complessivo, in conformità alle prescrizioni di cui all’art. 10, comma 1, lett. e), del D.P.R. 917/1986 e, dunque, dal reddito complessivo.

Ed anche in dottrina è prevalso l’orientamento suddetto, giacché è stato affermato da più autori che i con- tributi dovuti dai liberi professionisti ai rispettivi Enti previdenziali sono deducibili solamente dal reddito complessivo lordo 15 .

Inoltre, la stessa Agenzia delle Entrate, nella menzio- nata risoluzione n. 66/E del 2020, pur conformandosi all’indirizzo espresso dalla giurisprudenza, ha motivato il proprio revirement precisando che “il predetto indirizzo giurisprudenziale tiene conto della peculiarità dei contributi dovuti dai notai alla Cassa Nazionale del Notariato, che sono liquidati sul totale complessivo degli onorari repertoriali di ciascun mese e versati contemporaneamente alla presentazione degli estratti mensili dei repertori, indipendentemente dai compensi percepiti e fatturati”.

L’Amministrazione, dunque, pur aderendo all’indirizzo della giurisprudenza, ha evidenziato il carattere eccezionale di una siffatta soluzione, giustificata dal particolare regime contributivo dei notai e non applicabile alla contribuzione dovuta dagli altri liberi professionisti.

IV. Da ultimo, si ritiene opportuno soffermarsi si un’autorevole, seppur risalente, dottrina secondo cui, pur conformandosi i liberi professionisti alla decisione della Suprema Corte, la collocazione degli oneri deducibili nel quadro RE della dichiarazione dei redditi “non comporta, come si potrebbe sostenere in base a una prima lettura dei risultati dichiarativi, alcuna diminuzione per i versamenti alle Casse di previdenza. Infatti, si ritiene che a questi fini sia applicabile l’articolo 6 del D.Lgs. 314/97 secondo cui quando una base imponibile previdenziale richiama quella fiscale occorre sempre considerarla al lordo dei contributi dedotti. Se il reddito è 100 e i contributi versati sono 25, questi ultimi devono sempre essere calcolati su 100 e non su 75.

Cambia dunque solo il meccanismo di calcolo ma non il risultato” 16 .

Orbene, tale interpretazione non appare invero pienamente condivisibile; infatti, il decreto legislativo 2 settembre 1997, n. 314, concerne testualmente “l’armonizzazione, la razionalizzazione e la semplificazione delle disposizioni fiscali e previdenziali concernenti i redditi di lavoro dipendente e dei relativi adempimenti da parte dei datori di lavoro”.

Ne discende che la legge non riguarda affatto i lavoratori autonomi, né, per la verità, appare applicabile a questi ultimi, stante la portata rigidamente predeterminata con riferimento ai lavoratori dipendenti, la cui disciplina fiscale e previdenziale e, quindi, il cui trattamento sotto tali profili, è completamente differenziato rispetto a quello dei lavoratori autonomi, in considerazione della diversità oggettiva esistente tra lavoratori dipendenti e lavora- tori autonomi 17 .

Né può omettersi di considerare che il testo unico delle imposte sui redditi (D.P.R. 917/1986, più volte citato) disciplina in maniera rigorosamente distinta i redditi da lavoro autonomo rispetto ai red- diti da lavoro dipendente; in particolare, per quanto concerne la determinazione dei redditi, quello dei lavoratori dipendenti è regolamentato dagli artt. 49 ss. del predetto testo unico, mentre quello dei lavoratori autonomi dagli artt. 53 e 54.

E comunque, a prescindere da quanto sopra, la norma richiamata dall’autore, l’art. 6 del D. Lgs. 314/1997, ha modificato, per quanto di interesse, l’art. 12 della legge 30 aprile 1969, n. 153, che, nella attuale versione ed in combinato disposto con gli artt. 46 e 48 del D.P.R. 917/1986, dispone che costituiscono redditi da lavoro dipendente quelli che derivano da prestazioni di lavoro subordinato con esclusione dei contributi assistenziali e previdenziali versati in ottemperanza a disposizioni di legge; in tal senso si è espressa anche la giurisprudenza di legittimità e tributaria, seppur con pronunce risalenti, che ha chiarito come il previgente art. 48 del D.P.R. 597/1973, espressamente richiamato dal citato art. 12 della legge 153/1969, come modificata, prevede che i contributi versati ad Enti o Casse aventi natura previdenziale o assistenziale in ottemperanza a disposi- zioni di legge non concorrono a formare il reddito del lavoratore dipendente (Cass., Sez. I, 21 marzo 1996, n. 2442, cit.; Commiss. Trib. I grado, Macerata, 13 feb- braio 1991).

Ne discende che, quandanche applicabile ai lavoratori autonomi – tesi invero assai discutibile -, in realtà l’art. 6 del D.Lgs. 314/1997 statuisce che i contributi previdenziali ed assistenziali non concorrono alla formazione del reddito da lavoro dipendente e, dunque, mutatis mutandis, tale principio varrebbe anche per i lavoratori autonomi, con la conseguenza che, se i contributi previdenziali ed assistenziali fossero effettivamente esclusi dalla formazione del reddito professionale, le Casse di previdenza dei liberi professionisti potrebbero subire nocumento, sotto un profilo di minori entrate, contrariamente a quanto asserito dall’autore in parola. Alla stregua di quanto innanzi esposto, non appare condivisibile la pur pregevole tesi della dottrina da ultimo prospettata.


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