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Una questione spesso ricorrente nei dibattiti in materia di previdenza forense (e non solo), sia tra gli addetti ai lavori che tra gli iscritti alla gestione previdenziale, riguarda il livello di finanziamento della pensione, ovvero il rapporto tra ciò che l’iscritto paga a titolo di contributi e ciò che ottiene dall’Ente (il riferimento principale è alla pensione di vecchiaia ex artt. 2 e ss. Regolamento Prestazioni).
Detto in altri termini (più tecnici e in una prospettiva più specifica) si tratta del tasso di copertura finanziaria delle prestazioni pensionistiche. Il tema è ovviamente anche di grande rilievo politico, perché collegato a quello dell’adeguatezza delle prestazioni, da un lato, e a quello della sostenibilità del sistema, dall’altro lato, entrambi tanto delicati quanto attuali, nel sistema generale come in quello delle Casse privatizzate ex decreto lgs. 509/1994, tra cui quello di Cassa Forense.
Una questione preliminare che tuttavia talvolta resta sullo sfondo attiene al ruolo del contributo integrativo del 4% ex art. 18 regolamento unico previdenza forense (nonché, ancor prima, ex art. 11 l. 576/1980), la sua funzione e la sua natura.
Il punto cioè è se nei sistemi pensionistici in cui il quantum delle prestazioni è determinato con metodo di calcolo retributivo (o più propriamente, per i lavoratori autonomi, reddituale), come è attualmente (dopo la riforma del 1980) nella previdenza forense, vi sia o meno una relazione tra contributo integrativo e prestazione pensionistica.
Da ciò dipende infatti se sia o meno appropriato, ai fini della determinazione del tasso di copertura della prestazione pensionistica (cui il pensionato avrà diritto una volta realizzate le condizioni per accedervi), tenere conto anche di quanto versato (dall’iscritto, ma con diritto a ripetizione nei confronti del cliente, ex art. 11, comma 1, ultimo periodo, l. 576/1980) a titolo di contributo integrativo (oltre ovviamente di quanto pagato a titolo di contributo soggettivo).
Ebbene, diciamo subito che tanto la dottrina che la giurisprudenza offrono molti spunti e argomenti in base ai quali, vista la univoca natura solidaristica del contributo, si può serenamente ritenere che non vi è alcun collegamento tra la prestazione pensionistica e quanto pagato a titolo di contributo integrativo.
Quanto alla dottrina, si veda il breve, chiaro, oltre che recentissimo, articolo di Daniela Carbone in questa Rivista 1/2020, Natura giuridica (e caratteristiche) dei contributi soggettivo ed integrativo, secondo la quale, infatti, “in ordine al contributo integrativo, occorre evidenziare la finalità specifica dello stesso, esclusivamente diretto al finanziamento della previdenza di categoria ed espressione di un dovere di solidarietà nell’ambito della categoria professionale.
Circa lo svolgimento di suddetta funzione solidaristica, occorre precisare che i contributi integrativi, a differenza dei contributi soggettivi, non sono utilizzabili ai fini del calcolo della misura della pensione.
E la Suprema Corte ha ribadito che il contributo integrativo è dovuto per il fatto di essere iscritto all’albo ma non alla Cassa ed è, quindi, “sterile” perché non produttivo di alcuna prestazione per il soggetto tenuto al pagamento, proprio in virtù della finalità meramente solidaristica”. Altrettanta chiarezza e univocità di posizione è da rinvenirsi nella giurisprudenza di legittimità che si è occupata del tema della ripetibilità dei contributi versati.
Ex multis si veda Cassazione Lavoro n. 14883 del 13.7.2020: “il carattere solidaristico della previdenza forense come modellata dalla L. n. 576 del 1980, carattere evidenziato in più arresti della Corte costituzionale, non esaurisce del resto i suoi effetti durante il rapporto di iscrizione alla Cassa, mentre la cessazione del rapporto non fa venir meno retroattivamente il vincolo di solidarietà.
La restituzione di un contributo pagato al solo fine di solidarietà ne snaturerebbe il contenuto e, impedendo l’attuazione del principio solidaristico costituzionalmente garantito, sarebbe pure contrario ai principi costituzionali, poiché il fine solidaristico che caratterizza la previdenza forense non viene meno per effetto della cancellazione dell’iscritto.
Ne discende che il contributo integrativo di cui all’art. 11 non viene “indebitamente percepito” dalla Cassa nel periodo di iscrizione, ma viene da questa legittimamente riscosso, in forza delle disposizioni di legge vigenti e in relazione all’esercizio dell’attività professionale consentito dall’iscrizione all’Albo, sicchè non trova applicazione l’art. 2033 c.c. che regola in via generale la ripetizione dell’indebito”.
Nella motivazione la Corte sottolinea anche come, nel sistema della l. 576/1980, sia prevista espressamente dall’art. 21, in caso di cessazione della iscrizione all’Ente, la restituzione dei soli contributi ex art. 10, ovvero dei soli contributi soggettivi, ma non dei contributi integrativi.
Peraltro, l’interesse della pronuncia va ben al di là della espressa previsione dell’art. 21 suddetto, visto che affronta la più spinosa questione relativa al diverso caso della inefficacia, agli effetti dell’anzianità di iscrizione, degli anni privi della dimostrazione della continuità dell’esercizio della professione, prevista dall’art 3 l. 319/1975. Il secondo comma di tale norma, infatti, prevede semplicemente (e, forse, in modo poco preciso) che, in caso di anni dichiarati inefficaci agli effetti dell’anzianità contributiva, vista la non dimostrata continuità nell’esercizio della professione, “sono rimborsabili a richiesta i contributi relativi agli anni di esercizio dichiarati inefficaci”.
Di qui il tentativo da parte dell’avvocato cancellato di ripetere anche quanto versato a titolo di contributo integrativo. La tesi dell’attore contro la Cassa evidentemente non era priva di valenza suggestiva (potremmo dire quindi che appariva verosimile, era cioè dotata di fumus boni juris), se tanto il giudice di prime cure quanto la corte distrettuale avevano accolto la domanda di rimborso, non solo con riferimento alla contribuzione soggettiva ma anche a quella integrativa e di maternità.
La Corte di Cassazione al contrario, accogliendo il ricorso di CF, ha dato continuità al proprio diverso orientamento, così valorizzando la natura solidaristica del contributo e la sua funzione nel sistema, a partire dal fatto che l’obbligo di versare tale contributo integrativo non dipende dalla iscrizione alla CF (quando ovviamente questa non era obbligatoria per tutti gli avvocati) ma dalla mera prestazione professionale “resa in virtù dell’iscrizione all’Albo”, tanto è vero “che il professionista può ripeterlo nei confronti del cliente”.
La disposizione ex art. 21 (per il diverso caso di cancellazione per non aver maturato i requisiti assicurativi minimi per il diritto alla pensione) è stata quindi ritenuta dal giudice di legittimità una norma di mera conferma della natura della contribuzione integrativa e non una eccezione al diverso principio ex art. 3 l. 319/1975. L’apparente diversità di disciplina è stata quindi riportata ad unità.
A prescindere dalle ragioni della cancellazione dell’iscritto, in ogni caso egli avrebbe potuto (in base al diritto previgente, oggi in parte superato in virtù dell’introduzione della pensione di vecchiaia contributiva ex art. 51 regolamento unico previdenza forense) tutt’al più ripetere i soli contributi soggettivi, ovvero gli unici collegati (sempre indirettamente, visto il sistema di calcolo retributivo) alla determinazione della prestazione pensionistica.
Del resto, anche tutta la giurisprudenza più attenta che si è occupata della nota controversia relativa all’obbligo di iscrizione alla gestione separata INPS per gli avvocati non iscritti alla Cassa Forense, ha sempre colto e valorizzato correttamente limiti e presupposti della contribuzione integrativa, come anche di recente affermato dal Tribunale di Roma (sez. lavoro, 23.1.2020): “Gli avvocati non iscritti alla Cassa Forense, ma alla quale hanno versato esclusivamente un contributo integrativo in ragione dell’iscrizione all’albo hanno l’obbligo di iscriversi alla gestione separata Inps, poiché il versamento del solo contributo integrativo non determina la costituzione di alcuna posizione previdenziale”.
Dello stesso tenore il recente arresto del Tribunale di Busto Arsizio (Sez. lavoro Sent., 20/01/2020): “Vi è obbligo di iscrizione alla Gestione separata presso l’Inps degli avvocati non iscritti obbligatoriamente alla Cassa di previdenza forense alla quale hanno versato esclusivamente un contributo integrativo, in quanto iscritti agli albi, cui non segue la costituzione di alcuna posizione previdenziale a loro beneficio”.
Lo stesso è a dirsi della giurisprudenza del Supremo Collegio, si veda, ex multis, Cass. civ. Sez. VI - Lavoro Ord., 10/01/2020, n. 318: “In materia di previdenza, gli avvocati iscritti ad altre forme di previdenza obbligatorie che, svolgendo attività libero professionale priva del carattere dell’abitualità, non hanno (secondo la disciplina vigente ratione temporis antecedente l’introduzione dell’automatismo della iscrizione) l’obbligo di iscrizione alla Cassa Forense, alla quale versano esclusivamente un contributo integrativo di carattere solidaristico in quanto iscritti all’albo professionale, cui non segue la costituzione di alcuna posizione previdenziale a loro beneficio, sono tenuti comunque ad iscriversi alla gestione separata presso l’INPS, in virtù del principio di universalizzazione della copertura assicurativa, cui è funzionale la disposizione di cui all’art. 2, comma 26, della l. n. 335 del 1995, secondo cui l’unico versamento contributivo rilevante ai fini dell’esclusione di detto obbligo di iscrizione è quello suscettibile di costituire in capo al lavoratore autonomo una correlata prestazione previdenziale”.
A ulteriore riprova (per quanto ancora possa occorrere) osserviamo che peraltro, ma solo in ipotesi di gestioni previdenziali che adottano il ben diverso metodo di calcolo contributivo, si è resa necessaria una norma ad hoc per consentire solo a tali enti di gestione previdenziale di destinare una parte del contributo integrativo all’incremento dei montanti individuali.
Ci riferiamo alla legge n. 133 del 12.7.2011 (la stessa norma che ha limitato anche l’autonomia normativa delle Casse con la introduzione del tetto, per la contribuzione integrativa, del 5% sul fatturato lordo del professionista iscritto), che ha modificato il comma 3 dell’art. 8 del d. lgs. 10.2.1996 n. 103. Tale norma, all’espresso fine di migliorare i trattamenti pensionistici degli iscritti alle sole casse privatizzate (ex decreti 103/1996 e 509/1994) che adottano il sistema di calcolo contributivo, ha riconosciuto agli enti la facoltà di destinare “parte del contributo integrativo all’incremento dei montanti individuali” con delibere la cui approvazione dovrà essere valutata dai Ministeri vigilanti verificando “la sostenibilità della gestione complessiva e le implicazioni in termini di adeguatezza delle prestazioni”.
In conclusione, riteniamo che quando in qualunque sede si discute del tasso di copertura delle pensioni erogate da Cassa Forense, visto l’attuale sistema di calcolo reddituale delle prestazioni, sia più aderente alla realtà normativa e quindi più appropriato e trasparente tenere conto del solo “montante” dei contributi soggettivi versati dall’iscritto.
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