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È stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 21 febbraio 2024 n. 43, il D.Lgs 12 febbraio 2024 n. 13 che contiene disposizioni in materia di concordato preventivo il nuovo istituto teso a sollecitare accordi con il fisco in termini di “adempimento spontaneo” dell’obbligazione tributaria futura. Il concordato si rivolge ai contribuenti di minori dimensioni, titolari di reddito di impresa e di lavoro autonomo derivante dall’esercizio di arti e professioni, tra cui anche gli avvocati.
Il decreto legislativo attuativo della delega fiscale (art. 17 c.1 n. 2 L. 111/2023 della Riforma Fiscale) in materia di accertamento tributario preventivo ha quindi dato la pos- sibilità al contribuente di aderire nel 2024 al nuovo istituto del “concordato preventivo biennale” quale strumento accertativo in chiave prospettica.
Una realtà innovativa nel nostro sistema, fondante le basi su di un procedimento accertativo “a tavolino” che prescinde dalla effettiva capacità contributiva del contribuente e postula una sorta di patto tra professionista e fisco dove è possibile accordarsi (patteggiare) “accettando” redditi futuri proposti e calcolati dall’Agenzia delle Entrate e ricevendo quale contropartita di vantaggio, a fronte di una chiara pianificazione fiscale, una sorta di trattamento premiale in materia accertativa.
Trattasi, come già evidenziato in un precedente contributo su questa rivista, di una vera e propria “scommessa” che ruota tra l’accettazione di un reddito noto, come proposto dall’Agenzia delle Entrate in chiave preventiva e prospettica, ed un reddito ignoto ancora da realizzarsi e da determinarsi in autoliquidazione per il biennio futuro.
A ben vedere, il legislatore ha puntato su questo strumento per ristabilire un rapporto di fiducia e non di vessazione del contribuente garantendosi una collaborazione preventiva per ovviare a problemi di stabilità di gettito era riale.
Con le ordinarie misure di contrasto all’evasione, infatti, la materia imponibile sottratta a tassazione non è mai stata recuperata e si tenta, ora, con l’istituto de quo ispirato ai modelli di tax compliance di matrice anglosassone, di stimolare i contribuenti al pagamento delle imposte.
Quanto al versamento dei contributi previdenziali, l’art. 19 del decreto in commento, nel dedicare spazio alla rilevanza delle basi imponibili concordate, specifica che “gli eventuali maggiori o minori redditi effettivi (omissis.) rispetto a quello oggetto del concordato non rilevano ai fini della determinazione delle imposte sui redditi e dell’imposta regionale sulle attività produttive, nonché dei contributi previdenziali obbligatori.
Resta ferma la possibilità per il contribuente di versare i contributi sul reddito effettivo se di importo superiore a quello concordato come integrato ai sensi degli artt. 15 e 16”, null’altro specificando in merito. Detta formulazione di difficile interpretazione rispetto ai precetti che regolano la normativa sulla previdenza pubblica, crea non pochi problemi rispetto ai regolamenti delle Casse di previdenza privatizzate delle libere professioni vigilate dal Ministero del Lavoro le quali dovranno disporre anche in merito agli effetti del concordato biennale.
Non, da ultimo, si consideri come i regolamenti previdenziali mai prima d’ora hanno trattato fattispecie reddituali che generano imponibilità da pianificazione fiscale prospettica (c.d. “tax planning”), talché sembra discutibile come una normativa fiscale possa incidere sul potere regolamentare delle Casse privatizzate i cui regolamenti, per essere modificati, devono passare al vaglio dell’approvazione del Ministero del Lavoro.
Inoltre, «l’approvazione ministeriale non incide sulla formazione della volontà della Cassa ed esula dalla fattispecie costitutiva del regolamento, in quanto atto negoziale, e dal novero dei requisiti che ne determinano l’esistenza e la validità. È pur vero che ove si intervenisse in tal senso, l’approvazione ministeriale si riverbera ab extrinseco sull’efficacia dell’atto e si configura come una condicio iuris, che in linea generale opera retroattivamente (articolo 1360 del Codice civile), sin dall’emanazione dell’atto stesso, salvo che non sia indicato un termine diverso». Si consideri al riguardo come la normativa italiana preveda da tempo l’armonizzazione delle basi imponibili previdenziali e fiscali.
Dove c’è imponibile fiscale non può non esserci (salvo rare deroghe e/o eccezioni) base imponibile previdenziale (INPS/Casse previdenza).
È noto come i regolamenti delle casse di previdenza privatizzate, su tale postulato di sistema, prevedano la riscossione della contribuzione soggettiva categoriale per dimostrarsi stabili sull’orizzonte attuariale previsto dalla normativa vigente.
All’esito di tali considerazioni, può ritenersi che il nuovo concordato biennale, quale strumento di pianificazione fiscale del contribuente, in assenza di una modifica regolamentaria di Cassa, possa comportare criticità di modalità che propone un accordo al contribuente in ottica di tax compliance e l’INPS, e/o l’ente di categoria professionale che, sulla scorta del volume degli affari Iva e dell’imponibile fiscale Irpef, deve riscuotere la contribuzione integrativa e soggettiva, potrebbe essere fonte di problematiche di raccordo, dovute al fatto che la nuova disciplina sperimentale, allo stato, nulla dispone per gli effetti previdenziali.
Dalla lettura del testo emerge che nulla è previsto per la contribuzione delle casse privatizzate che, com’è noto, è calcolata indipendentemente dall’effettivo incasso (che produce reddito) anche su base di un minimo che a volte è totalmente indipendentemente dal regime fiscale prescelto per la determinazione del reddito imponibile fiscale (sia esso forfait, semplificato o ordinario).
In effetti, il regolamento di Cassa Forense dispone che la contribuzione integrativa e soggettiva sia dovuta in base ai dati comunicati a consuntivo, sia ai fini del volume di affari Iva che del reddito professionale netto (cfr. art. 17 Regolamento).
La comunicazione deve essere fatta dall’i- scritto anche se le proprie dichiarazioni fiscali non sono state presentate o sono negative e deve contenere le indicazioni del codice fiscale e della partita IVA.
Nella stessa comunicazione devono essere dichiarati anche gli accertamenti divenuti definitivi, nel corso dell’anno precedente, degli imponibili IRPEF e dei volumi d’affari IVA, qualora comportino variazioni degli importi dichiarati.
Nella mancanza di previsioni normative occorre rifarsi a precedenti esperienze per comprendere se vi sia un vincolo tra il reddito del concordato biennale rispetto e l’effettivo reddito prodotto dall’iscritto alla cassa chiamato a contribuire non su ciò che ha realizzato in chiave consuntiva, bensì su quanto determinato in chiave preventiva con il fisco.
In pregresse esperienze quali le chiusure delle liti fiscali pendenti e la definizione agevolata del contenzioso, è utile ricordare come la regola di natura fiscale non spiegasse mai effetti a livello previdenziale.
Tale regola è, quanto mai, attuale soprattutto consideran- do che, con il concordato biennale, il contribuente non è affatto esonerato dalla tenuta di regolari scritture contabili sulla scorta delle quali determinare a consuntivo il reddito di periodo, indipendentemente dall’accordo raggiunto con il fisco su base preventiva e prospettica.
A questo punto, è lecito interrogarsi sulla portata previdenziale del nuovo istituto fiscale e se lo stesso possa essere definito una sorta di accertamento preventivo, ovvero una sorta di “condono a tavolino” prima di un eventuale accer- tamento dell’ufficio.
Nell’epoca dei condoni fiscali, a ben vedere, gli effetti estintivi delle definizioni ex L. 111/11 rispetto alla maggiore e/o diversa base imponibile definita dal contribuente spiegavano effetti anche per il debito verso gli enti di previdenza INPS. Il condono fiscale, in materia di lavoro, non ha di certo natura di accertamento ma produce l’annullamento di ogni credito previdenziale a carico del contribuente, rendendo illegittima ogni eventuale richiesta di riscossione sul maggior credito da parte dell’Inps.
L’Ente Previdenziale, infatti, non può richiedere una maggiore contribuzione su redditi che non sono stati dichiarati, né accertati con provvedimento dell’Agenzia delle Entrate, da un punto di vista fiscale e tributario.
Intervenendo sulla definizione del maggior reddito imponibile a mezzo dell’istituto del condono fiscale a livello previdenziale viene infatti a mancare la connessione “reddito-onere previdenziale” dato che il credito Inps si basa su scaglioni di reddito diversi rispetto all’accordo perfezionato con il condono stesso.
Il condono fiscale, definendo la lite tributaria tra contribuente e Fisco, determinando l’estinzione del debito previ- denziale, rende peraltro illegittima ogni eventuale ulteriore richiesta contributiva o la possibilità di vantare alcun tipo di credito da parte dell’Inps.
A sostegno di quanto sopra, si rappresenta come alcuni orientamenti di merito si siano espressi in passato (cfr. Tribunale di Lucca sentenza del 5 dicembre 2013 n. 608) supportando la tesi secondo la quale la chiusura di una pendenza processuale innanzi alla Commissione Tributaria produce conseguenze solo sotto il profilo fiscale e l’Inps non possa chiedere il pagamento dell’importo specificato nel provvedimento amministrativo ante definizione atteso che, con il condono, lo stesso è stato privato di ogni valenza.
Il diritto di credito avanzato dall’Ente previdenziale, per la citata giurisprudenza, è stato ritenuto in contrasto con l’art. 53 della Costituzione, in merito alla capacità contributiva. Anche sulla scorta della prassi fiscale del periodo, con circolare n. 48/2011, la stessa Agenzia delle Entrate ha disposto che la giurisdizione delle controversie relative ai contributi previdenziali rientrino nella giurisdizione ordinaria, senza dare una precisa indicazione dei parametri da adottare per il calcolo degli stessi.
Risulta(va), quindi, in base agli assunti di cui sopra, del tutto inammissibile che il contributo, direttamente correlato ai redditi percepiti dal contribuente potesse subire una qualche modifica sull’an e sul quantum in caso di definizione della lite tributaria.
A livello previdenziale, pertanto, si può affermare che l’archiviazione di un contenzioso tributario attraverso lo strumento del condono produca direttamente l’annullamento di ogni credito previdenziale (già ricompreso nel provvedi- mento notificato dall’Amministrazione finanziaria) a carico dello stesso contribuente.
Di guisa, è del tutto illegittima qualsivoglia richiesta di riscossione da parte dell’Inps di ulteriore contribuzione sul maggiore reddito definito dal contribuente con detta sanatoria fiscale. Nel caso di specie, il giudice del merito all’epoca dei fatti per i quali vi era causa, aveva giustamente osservato come “vista la necessaria correlazione tra contribuzione previdenziale e ‘reddito dichiarato’ (ovvero ‘accertato’, ma nelle sedi competenti a titolo definitivo) ai fini Irpef, l’Ente Previdenziale non potesse quindi pretendere una maggiore contribuzione in relazione a redditi che, dal punto di vista fiscale e tributario, non erano stati dichiarati né accertati in modo definitivo” innanzi alla Commissione Tributaria.
In definitiva, ove il contribuente definisca una pretesa tributaria a mezzo del condono fiscale è dubbia la legittimità della richiesta previdenziale in quanto la stessa è da ritenersi subordinata all’esistenza dell’atto amministrativo dell’Agenzia delle Entrate; pertanto, venendo a mancare l’originario provvedimento fiscale accertativo (definito con condono), l’Inps non ha più il titolo su cui fondare la relativa richiesta di pagamento.
In breve, dopo la definizione di un condono fiscale una eventuale richiesta dell’Inps sarebbe del tutto illegittima poiché il contributo previdenziale (direttamente vincolato al reddito percepito dal contribuente) deve essere “connesso” all’eventuale chiusura della lite tributaria.
Per gli effetti il condono fiscale determina l’estinzione del debito previdenziale e non consente all’INPS di riscuotere maggiori crediti. La ratio della sentenza di merito citata, a ben vedere si è fondata su un c.d. “effetto domino”.
Nel dettaglio, vero è che la chiusura della pendenza processuale innanzi alla Commissione Tributaria produce conseguenze unicamente sotto il profilo fiscale, tuttavia l’Inps non può chiedere il pagamento dello stesso importo, a titolo di contributo previdenziale (specificato nel provvedimento dell’A.F.), quando tale atto è stato privato di ogni valenza.
Riassumendo: nel caso dei condoni fiscali la legittimità del credito previdenziale è da ritenersi sempre subordinata all’esistenza dell’atto amministrativo, da cui trae(va) “cittadinanza” la pretesa dell’Inps.
Venendo meno, con il perfezionamento del condono, l’originario atto di accertamento fiscale e il conseguente provvedimento esattivo, l’Inps non ha più titolarità per incassare alcun tipo di credito previdenziale collegato al maggiore imponibile fiscale. Quindi, post condono fiscale, era stato ritenuto inammissibile che un maggiore contributo previdenziale (non direttamente vincolato al reddito percepito dal contribuente bensì al maggiore accertato) potesse essere vantato dall’Istituto, atteso che lo stesso (contributo) era collegato ad un reddito dichiarato che non era affatto influenzato (non più suscettibile di modifiche sia sull’an, che sul quantum) dalla definizione della lite tributaria.
In altre esperienze deflattive del contenzioso tributario, come nella ben nota “chiusura delle liti pendenti” di cui all’articolo 16, della legge 289/2002, nonché per tutte le altre definizioni agevolate, a mente di chi scrive molte volte le casse di previdenza delle libere professioni non hanno recepito di buon grado le regole della previdenza pubblica; né quest’ultima è riuscita ad attivarsi in tempo per operare il prelievo contributivo su una base imponibile fiscale che non collimava con quella effettivamente prodotta.
Relativamente ai contributi previdenziali dovuti alle Casse professionali era maturato un orientamento giurisprudenziale a favore della disapplicazione dell'art. 33 co. 7 del DL 269/2003, relativo alla precedente versione del concordato fiscale (quale condono/sanatoria) ed avente contenuto analogo a quanto previsto dal citato art. 19 sul concordato preventivo biennale.
In particolare, secondo la Corte di Cassazione (Cass. Sez. Lavoro 11.2.2019 n. 3916 e Cass. Sez. Lavoro 11.10.2022 n. 29639), ai fini della determinazione della base reddituale per il computo del contributo dovuto da un professionista nei confronti di una delle casse di previdenza di cui al D.Lgs 509/94, non poteva essere utilizzato il reddito determinato in sede concordataria, in quanto tale istituto riguardava solo l'obbligazione tributaria e non il rapporto obbligatorio contributivo tra il professionista e la propria Cassa di riferimento.
In questi casi, l’eventuale definizione agevolata della lite, fatta ai fini fiscali, è diventata (a volte addirittura per inerzia dell’Inps o per decadenza dei termini), chiusura definitiva anche ai fini previdenziali.
Nei casi in cui l’Inps si fosse tempestivamente attivata, risulta addirittura abbia chiesto i contributi per l’intero importo accertato, senza considerare le percentuali pagate dai contribuenti al solo fine di chiudere la lite fiscale.
L’Agenzia delle Entrate, con una risalente direttiva del 28 dicembre 2012, si era, peraltro, riservata di fornire indicazioni in merito alle residue quote eventualmente da iscrivere sulla scorta delle determinazioni dell’Inps nel frattempo interpellato dalla stessa agenzia delle Entrate.
Le “determinazioni dell’Inps” erano e sono urgenti e indispensabili, ma, dopo oltre dodici anni, nulla risulta essere cambiato. Nel caso del concordato biennale fiscale, l’urgenza è quanto mai palese atteso che il successo di un accordo preventivo con il fisco non può non passare per una corretta valutazione dei suoi effetti previdenziali, anche per chi ragiona in chiave di accumulo pensionistico.
Per effetto della norma fiscale in esame, quindi, si assiste alla epifania di un nuovo “doppio binario” foriero di criticità, con rischio di duplicazione delle somme richieste a titolo di contribuzione soggettiva e integrativa qualora, dal dichiarativo di periodo del contribuente (e dai nuovi quadri che recepiranno gli effetti dell’accordo concordatario fiscale affiancando o sostituendo quelli ordinari di determinazione del reddito e delle imposte in autoliquidazione) non emerga con chiarezza quale sia la base imponibile fiscale cui correlare anche quella previdenziale.
Per il superamento di tale grave criticità, sarebbe augurabile che quanto prima, in sede correttiva, si preveda che il concordato biennale (del pari alla chiusura della lite) abbia effetti per il Fisco e per tutti i contributi (Inps).
La potestà regolamentare delle casse private, quindi, ben diversa da quella pubblica, dovrà poi rece pire gli effetti previdenziali. Allo stato all’INPS basterebbe applicare le stesse regole previste nei casi di riduzione del maggior reddito accertato dal Fisco a seguito di reclamo – mediazione, accertamento con adesione, o conciliazione.
In tali circostanze, infatti, la riduzione del reddito fiscale rileva anche ai fini dei contri- buti previdenziali. Di conseguenza, i contributi Inps dovuti dalle imprese, artigiani o commercianti, dovranno essere rideterminati sulla base dell’imponibile definito (circolare Inps 140/2016).
Ciò, ovviamente, non vale per le casse privatizzate che non potranno fare altro che affrontare la problematica applicando le norme esistenti nei rispettivi regolamenti.
Per Cassa Forense, nella comunicazione del Modello 5 vanno dichiarati anche gli accertamenti divenuti definitivi nel corso dell’anno precedente, relativi a imponibili Irpef e dei volumi d’affari Iva, qualora comportanti variazioni degli importi dichiarati.
Alla luce di quanto sopra, per analogia, il concordato preventivo biennale altro non sarebbe che un accertamento preventivo fiscale il cui risultato in termini di reddito prescinde dall’effettiva consuntivazione reddituale e Iva di fine anno.
Certo è che con la definizione preventiva del reddito fiscale, in assenza di specifiche previdenziali, si potrebbero profilare problemi di gettito e di sostenibilità nel tempo per tutte le casse libero professionali. Anche in AdEEP, all’esito di una riunione dei Presidenti delle Casse di previdenza private (tra le quali anche Cassa Forense) è stato confermato come il concordato preventivo biennale previsto dal D.Lg 13/2024 non possa produrre alcun effetto in ordine agli obblighi contributivi cui sono assoggettati i propri iscritti.
Inoltre la disposizione di cui all'Art. 30 del citato Decreto, ove fosse estesa alla previdenza libero professionale delle Casse aderenti AdEEP sarebbe senza bra di dubbio lesiva dell'autonomia gestionale, organizzativa e contabile di cui all'art. 2, comma 1, del D.Lgs 509/94.
Ciò, proprio in virtù della circostanza che la gestione economico-finanziaria deve assicurare l'equilibrio di lungo periodo mediante l'a- dozione di provvedimenti coerenti con gli equilibri di bilancio, come anche sancito dalla Corte Costituzionale con la sentenza 7/2017.
Sulla scorta della giurisprudenza consolidatasi nel corso degli anni, pertanto per AdEEP si ritiene non applicabile alle Casse la citata disposizione di cui all’Art. 30 del Decreto 13/2024, fermo restando la possibilità per ogni singolo Ente di assumere una propria e autonoma decisione in merito.
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