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Rapporto Censis-Cassa Forense sull’avvocatura 2021: molte ombre, pochissime luci

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Domenico Monterisi

Un anno difficile – soltanto cronologicamente ormai alle nostre spalle, perché quanto di nefasto ci ha portato (la pandemia e le gravissime ripercussioni sanitarie, sociali ed economiche) continuerà ad accompagnarci per un tempo ad oggi indefinito – non ha impedito di svolgere la quinta edizione dell’analisi sull’Avvocatura in Italia da parte del Censis, su impulso di Cassa Forense.

Il quadro che emerge dal rapporto era in gran parte prevedibile. Il ceto professionale, quello forense in primis, per buona parte dell’anno 2020, si è dovuto confrontare con una serie di limitazioni che non solo hanno frenato l’attività lavorativa (si pensi ai mesi di totale stop del primo lockdown), ma hanno visto ridursi la domanda di servizi professionali.

Ne ha risentito inevitabilmente il reddito dei professionisti in genere, degli avvocati, di cui ci occuperemo, in particolare, ma ne hanno risentito anche lo stile di vita, l’approccio alla professione, l’organizzazione del lavoro, l’uso di strumenti tecnologici, i rapporti con i colleghi e i clienti.

L’effetto più dirompente, o meglio quello più visibile nell’immediatezza, è stato il calo dei redditi. Ma, come accade ormai da molti anni, il rapporto Censis disegna anche profonde diseguaglianze all’interno della professione: uomini/donne, giovani/anziani, nord/sud, piccoli/ grandi studi, grandi città/provincia. L’emergenza ha contribuito a aumentare le distanze ed evidenziare le difficoltà.

Nella premessa del rapporto 2021 si legge che lo stesso si compone di quattro parti: “nella prima parte si dà conto dei dati degli iscritti agli ordini e alla Cassa Forense, ricostruendo il profilo strutturale dei professionisti e la loro collocazione in termini di reddito; nella seconda parte si riportano i risultati dell’indagine presso gli avvocati italiani, svolta nel mese di dicembre 2020, e che analizza la condizione professionale attuale e in prospettiva dei professionisti, l’accesso alle misure Covid-19, gli aspetti che hanno condizionato l’attività professionale; nella terza parte si restituiscono i risultati dell’indagine presso un campione della popolazione italiana, realizzata all’inizio di quest’anno, i cui contenuti riflettono le opinioni sul rapporto con gli avvocati durante l’emergenza, sul vissuto quotidiano fra restrizioni e comportamenti imposti. Nella parte conclusiva del rapporto alcune considerazioni di sintesi fanno il punto su un anno straordinario e su tutto ciò che in prospettiva si sta aprendo per la professione di avvocato sia in termini di rischi, sia in termini di opportunità”.

1. Gli avvocati: il profilo dei professionisti e i loro redditi

Nel 2020 gli avvocati attivi iscritti a Cassa Forense sono 231.295, dato che corrisponde a circa quattro avvocati attivi ogni 1000 abitanti. Aggiungendo i circa 14.000 avvocati in pensione, si perviene a un dato totale di avvocati iscritti agli Albi pari a oltre 245.000.

Si continua a registrare una sorta di stagnazione nell’aumento degli iscritti, perché se fino al 2014 l’aumento annuo del numero degli avvocati si attestava fra i 4 e i 5000, dal 2014 al 2020 l’aumento annuo si è andato via via affievolendo fino alle appena 48 unità fra 2019 e 2020. È un dato che deve evidentemente essere monitorato anche ai fini dell’aggiornamento degli studi sulla sostenibilità della spesa pensionistica.

Fra i soli iscritti alla cassa, le donne avvocate, per la prima volta, sorpassano gli uomini: 115.724 contro 115.571. Resta una leggera differenza in favore degli avvocati uomini fra gli iscritti agli Albi, segno che il numero di pensionati è maggiore rispetto a quello delle Colleghe.

Quanto alla distribuzione territoriale il 45% circa degli avvocati attivi esercita la professione nel sud Italia, con Regioni (Calabria, Campania, Puglia) in cui la percentuale di avvocati sulla popolazione raggiunge livelli molto superiori alla media nazionale.

La classe di età che vede più numerosi iscritti è quella degli avvocati fra i 40 e i 49 anni (38,8% degli iscritti attivi). Gli ultracinquantenni sono anche in numero considerevole (ottantamila iscritti, più di un terzo del totale). Passando al reddito, quello medio dichiarato dagli iscritti, relativo al 2019, è pari a 40.180 euro, con un aumento dell’1.8% rispetto all’anno precedente (ovviamente il confronto è fra 2018 e 2019, per cui il dato non subisce il condizionamento della crisi pandemica, che sarà verificabile soltanto quando saranno noti i dati reddituali del 2020).

Fra tante conferme di disparità per genere, età e area 63 geografica, si segnala (ed è una delle poche luci di cui al titolo del presente articolo) l’aumento percentuale rispetto alla rilevazione precedente (redditi 2018) del reddito degli avvocati più giovani e all’interno di questa categoria anagrafica delle donne rispetto agli uomini. Infatti, se gli avvocati di età da 45 anni in su presentano una flessione, a volte imponente, o al massimo una sostanziale conferma del reddito dell’anno precedente nelle varie sottocategorie (45-49 anni – 0,7%; 50-54 -1,6%; 55-59% +0,3%, 60-64 -7%; 65-69 anni + 0,9%; 70-74% - 8,9%, <74 anni -1,9%), per tutti gli avvocati infraquarantacinquenni si registra un aumento percentuale dei redditi, talvolta anche consistente (<30 anni +8,9%; 30-34 anni +4,1%; 35-39 anni + 7,1%; 40-44 anni +2,5%). Ancor più confortante è che le Colleghe vedono proporzionalmente aumentare in modo più preponderante dei Colleghi il reddito, sebbene permanga, anche per queste fasce di età, un notevole gap (che aumenta con il progredire dell’età).

Varie possono essere le spiegazioni di questa rilevante novità nella composizione e nell’evoluzione del reddito per classi di età.

Sicuramente, la maggiore dimestichezza nell’uso della tecnologia, non solo nell’esercizio della professione, ma anche nella soluzione di nuove problematiche giuridiche, la probabile maggiore fedeltà fiscale, incentivata dall’introduzione della flat tax per ricavi fino a 65.000 euro, e, infine, la maggiore predisposizione, complici anche i social network, di proporsi al mercato, sembrano quelle più convincenti.

2. L’impatto del Covid-19 sulla professione: i risultati dell’indagine condotta presso gli avvocati italiani a dicembre 2020

2.1 Il profilo del campione

La rilevazione, eseguita tramite questionario on line, cui hanno aderito 14000 avvocati, si è svolta a fine 2020.

Il questionario aveva ad oggetto: a) la condizione professionale attuale e in prospettiva; b) l’emergenza Covid 19 e la professione; c) l’organizzazione del lavoro e le modalità operative imposte dal lockdown.

2.2. La condizione professionale degli avvocati oggi e in prospettiva.

Anche per la rilevazione eseguita a dicembre scorso, sono state sottoposte agli avvocati le domande relative al mercato di riferimento e al sentiment rispetto alla propria situazione economica, attuale e futura.

Sul primo aspetto, i risultati della rilevazione confermano in generale quanto visto negli anni precedenti. La distribuzione del fatturato vede primeggiare l’assistenza giudiziale (63,3%); seguono il 30,1% per l’attività di consulenza e il 6,6% per quella di mediazione e arbitrato.

Le prestazioni sono svolte per la massima parte in favore di una clientela locale (72,3%), mentre la parte restante del fatturato – meno di un terzo – si distribuisce in ambito regionale (14,4%), nazionale (11,2%) e internazionale (2,1%).

Prevale, anche per il 2020, la quota di fatturato che proviene da persone fisiche (51,9%), a seguire piccole e medie aziende (22,5%), enti e aziende pubbliche (7,4%) e grandi aziende (6,7%).

Si tratta di un quadro che, per un verso, evidenzia la prevalenza di studi professionali di piccole dimensioni, spesso con un solo professionista, e, per altro verso, rispecchia, dal lato della committenza, il sistema economico italiano guidato dalle piccole/medie imprese e con modesto rilievo della grandi aziende.

In termini economici, i risultati ricavabili dal fatturato denotano un quadro negativo: già dal 2019 il 47,1% degli avvocati ha visto ridursi il risultato della propria attività; poco meno di un terzo dei rispondenti (29,1%) non ha riscontrato variazioni; infine, soltanto meno di un quarto del campione dichiara di aver aumentato il proprio fatturato.

Stabile la situazione sul piano occupazionale: soltanto il 12,4% segnala una riduzione di persone impegnate negli studi professionali.

Il giudizio sulla situazione al momento della redazione del questionario vede oltre il 70% degli intervistati denunciare una condizione di criticità che si aggrava percentualmente per le donne avvocato e per chi risiede nelle regioni meridionali.

Guardando al futuro, circa un terzo del campione si attende un miglioramento nel corso del 2021 e del 2022. Si manterrà stabile la situazione per il 33,2%, mentre peggiorerà per il 36,9%.

2.3. L’accesso alle misure Covid-19 per i professionisti: i provvedimenti del Governo

La seconda parte del rapporto affronta il giudizio degli avvocati rispetto ai provvedimenti adottati dal Governo per fronteggiare la crisi destinati ai professionisti.

L’accesso al reddito di ultima istanza ha interessato il 61,5% del campione dell’indagine. Vanno poi aggiunti coloro i quali (2,3%) hanno dichiarato di aver ricevuto solo una rata del bonus e lo 0,5% che ha visto respinta la propria richiesta.

Un terzo dei rispondenti non ha avuto accesso alla misura, per assenza dei requisiti reddituali. Minoritaria è, infine, la quota di avvocati che ha dichiarato di non essere a conoscenza di questa possibilità.

Solo il 14,5% degli intervistati ha ritenuto sufficiente l’entità della cifra erogata. L’ha definita inadeguata il 54,7% e del tutto inadeguata il restante 30,8%.).

Positivo invece il giudizio sulle procedure di accesso alla misura: il 42,1% non ha trovato alcuna difficoltà nell’accedere al sistema di richiesta e il 47,8% ha definito la procedura “abbastanza semplice”.

Quanto agli ammortizzatori sociali previsti per gli studi professionali, e cioè la cassa integrazione guadagni per i dipendenti, meno del 10% degli intervistati vi ha fatto ricorso. Molto più ampia la platea di avvocati che ricade nella quota di chi non ha fatto richiesta di integrazione non avendo persone alle dipendenze (83,4%).

Quanto alle altre misure, comuni ad altre categorie di cittadini, degli avvocati che hanno partecipato all’indagine il 7,9% ha fatto richiesta al bonus di 600 euro per l’acquisto di servizi di baby sitting (la percentuale sale all’11,9% nel caso delle donne avvocato) e il 3,5% ha ritenuto opportuno usufruire dalla sospensione del pagamento della rate per mutui e finanziamenti a rimborso rateale.

2.4. Le misure di assistenza messe in campo da Cassa Forense durante l’emergenza

Quanto alle misure messe in campo da Cassa Forense, quella maggiormente apprezzata è stato il bando straordinario per l’erogazione di contributi riguardanti i canoni di locazione degli studi professionali.

Il grado di apprezzamento da parte di chi ha utilizzato le misure risulta elevato, con punte superiori all’80%, nel caso dei contributi per i canoni di locazione degli studi a titolarità individuale (82,0%), del fondo di garanzia del credito costituito presso la Cassa Depostiti e Prestiti (87,5%), della polizza Unisalute con copertura Covid (83,9%). Meno rilevante in termini percentuali il consenso riservato al credito agevolato presso la Banca Nazionale del Lavoro o l’estensione della convenzione Vis Valore per ricevere a domicilio farmaci e parafarmaci acquistati.

Per quanto attiene, poi, al grado di accesso al Portale di Cassa, emerge che durante il lockdown, gli avvocati hanno ampliato l’utilizzo delle varie sezioni del Portale; i servizi più utilizzati sono stati, secondo le risposte fornite dagli intervistati, quelli connessi all’informazione (prenotazioni, richieste on line, ecc.).

Sul piano della comunicazione durante la fase di lockdown, oltre il 70% ha ritenuto molto efficaci o abbastanza efficaci le modalità di contatto attuate da Cassa Forense nei confronti dei propri iscritti.

2.5. Un’esperienza mai provata. Il lavoro degli avvocati nel lockdown

La pandemia ha imposto ai professionisti radicali cambiamenti nell’organizzazione del lavoro, nel rapporto con il cliente, nei contatti con la pubblica amministrazione. Il tutto ha determinato un impiego sempre più intenso degli strumenti di lavoro a distanza ed ha imposto lo sviluppo di nuove competenze.

Dal rapporto emerge che gli avvocati si sono approcciati al lavoro a distanza con modalità diverse: quasi il 30% del campione ha scelto tale opzione in maniera esclusiva; ha cercato di trovare giusto equilibrio fra presenza in studio e lavoro da remoto poco più del 43%. Ha, invece, continuato a recarsi presso lo studio il 15,9% degli avvocati.

Coloro i quali hanno adottato il lavoro a distanza come forma esclusiva o principale, pur esprimendosi favorevolmente in ordine a questa modalità (in quasi il 15% del campione), ha evidenziato come elemento critico la difficoltà di contatto con la clientela o con gli altri colleghi, considerando fondamentale per la professione l’aspetto relazionale.

La quota di chi giudica negativamente l’esperienza, a 65 causa di problemi tecnici e organizzativi, si attesta a circa un quinto del campione.

Come prevedibile, disaggregando per classi di età i dati, emerge una maggiore propensione dei più giovani( meno di 40 anni - 17,0%) e maggiore scetticismo fra gli over 50.
Un altro argomento su cui è stato richiesto un giudizio nel questionario è costituito dall’iniziativa di Cassa Forense e del COA degli Avvocati di Roma finalizzata all’utilizzo di spazi di “coworking” e cioè dalla messa a disposizione di locali attrezzati per permettere di svolgere, anche ad avvocati in trasferta, la propria attività professionale in sicurezza potendo usufruire di servizi come la connessione Wi-Fi, l’assistenza front desk, le sale riunioni.
I giudizi su questa forma di organizzazione del lavoro non sono unanimi: l’ha ritenuta idonea alle esigenze degli avvocati il 21,9% del campione. Di uguale parere, sebbene non propenso ad utilizzarla il 51,2% degli intervistati; soltanto il 5,6% considera il co-working una modalità costosa e poco efficace.
Fra gli aspetti che hanno condizionato negativamente l’attività professionale, il campione di intervistati segnala, in primo luogo, la chiusura dei tribunali e la sospensione dell’attività giudiziaria (34,6%), e a seguire gli aspetti economici legati alla riduzione delle entrate (30,7%); altre criticità: organizzazione familiare e conciliazione con il lavoro (8,2%), rapporto con il cliente (6,6%), difficoltà di contatto con la pubblica amministrazione (5,2%); indisponibilità degli atti giudiziari, non digitalizzati(4,7%), rischio di contagio (4,0%) e, infine, limiti tecnici e organizzativi del lavoro a distanza (3,4%).

3. Giustizia e diritti ai tempi del Covid: l’opinione degli italiani

Anche quest’anno una parte del rapporto è stata dedicata alle opinioni della popolazione italiana. 

Il sondaggio è stata realizzato a inizio gennaio e ha trattato – anche in questo caso – temi legati alla pandemia: quello dell’accesso ai servizi della professione, le modalità di interazione e contatto a distanza fra cliente e
avvocato; il rapporto tra salute e libertà individuale, tra diritti individuali e efficacia delle limitazioni e dei controlli, la percezione dell’avvocato, come professionista e come figura di garanzia del sistema Giustizia.


3.1. L’accesso ai servizi degli avvocati durante l’emergenza

Il primo quesito ha avuto come obiettivo quello di individuare quali siano stati nello scorso anno i servizi richiesti a un avvocato.
Ha fatto ricorso al professionista avvocato una percentuale di poco superiore al 14% del campione, a cui si aggiunge una quota di domanda potenziale pari al 5,6% (l’area della “rinuncia” alla possibilità di disporre di servizi legali).
Gli ambiti in cui è stata chiesta la consulenza sono stati in prevalenza quelli della casa, del condominio e della proprietà (28,3%,); seguono lavoro, previdenza e assistenza (20% circa) e, poi, infortuni, risarcimenti e sinistri (11,7% dei casi). Gli aspetti penali coprono una quota del 6,2%, così come la domanda di difesa per problemi fiscali e tributari, il recupero crediti, la responsabilità medica e sanitaria. Di poco inferiore la percentuale di richieste di tutela in ambito matrimoniale e diritti dei minori (5,5%).
La modalità prescelta per svolgere gli incontri, per quasi la metà degli intervistati è stata quella del contatto esclusivo a distanza; un terzo, invece, ha optato per una modalità mista con incontri presso lo studio del professionista alternati a contatti on line. La parte restante delle risposte riguarda coloro i quali hanno concordato con il professionista di svolgere gli incontri unicamente in presenza.
La metà del campione ha riscontrato ritardi nelle procedure e nella tenuta delle udienze, percependoli come accettabili nel 44,1% dei casi e insopportabili nel 39,3%, mentre il restante 16,6% ha affermato di non
aver ravvisato particolari ritardi.
Ulteriore quesito riguardava l’entità e le cause della “rinuncia al servizio legale” di coloro che pur ne avevano necessità: un quarto delle risposte indica le difficoltà incontrate a causa delle restrizioni per il contenimento della pandemia; poco più del 20% indica come motivo della rinunzia i costi della procedura. Alcune delle risposte portano invece a individuare la sfiducia nei confronti del sistema della giustizia italiana o denunciano i tempi lunghi per arrivare a un giudizio definitivo.

Ultimo quesito rivolto a tutto il campione attiene all’utilizzo delle tecnologie di comunicazione a distanza: il 44% valuta positivamente tale opzione nell’ambito dei servizi legali. Si dichiara parzialmente soddisfatto il 38,1% dei rispondenti, che evidenziano la necessità degli incontri di persona e la rilevanza di un rapporto diretto fra professionista e cliente. Del tutto negativa è invece la posizione del 17,8% del campione, che teme il rischio di incomprensione che il contatto mediato dalle tecnologie può recare nel rapporto con l’avvocato, con conseguenze negative sulla qualità del servizio e sull’esito atteso della prestazione.

3.2. La gestione dell’emergenza: restrizioni, informazione e garanzia dei diritti

Il campione è stato poi interrogato sul rapporto fra limitazioni e restrizioni imposte dal contagio e salvaguardia dei diritti individuali come la privacy, la mobilità, il diritto all’informazione.

Il giudizio degli italiani sulle restrizioni non appare univoco: il 31,8% concorda sul fatto che alla fine i risultati delle restrizioni sono stati solo parzialmente positivi in termini di tutela della salute, mentre hanno condizionato la libertà personale. Un trenta per cento riconosce invece un esito concreto per la salute dei cittadini, anche se le restrizioni hanno comportato una riduzione della libertà personale. Si aggiunge a questa percentuale quella del 28,0% che considera garantiti sia i risultati per la salute pubblica, sia i diritti individuali.

In conclusione, formula un giudizio positivo sulla gestione dell’emergenza, soprattutto per quanto riguarda la salute, una maggioranza che si avvicina al 60%.

Minoritaria la parte degli italiani che esprime un giudizio negativo sia dal lato della salute che da quello del controllo sulla libertà individuale (8,6%).

La domanda sulle limitazioni considerate inique e intollerabili ha visto prevalere le difficoltà nell’accesso alle strutture ospedaliere, con la conseguente rinuncia alle cure o il rinvio di interventi già programmati (55,8%).

Un terzo del campione ha sottolineato l’aspetto relazionale e la riduzione degli spazi di incontro con persone e conoscenti.

Un’altra parte importante delle risposte, il 28,6%, ha invece indicato le restrizioni negli spostamenti (in Italia e all’estero); il rimanente 20% ha percepito come intollerabili le limitazioni nello svolgimento della propria attività o il proprio lavoro.

Per quanto attiene al rispetto della privacy e le conseguenze dei sistemi di tracciamento per il controllo del contagio, gli italiani, considerando la salute come la priorità assoluta, si sono dichiarati disposti a rinunciare alla propria privacy (35,6%). Quasi la metà degli italiani non intravvede il rischio di violazione della privacy dietro l’adozione di strumenti di controllo come il tracciamento o la geolocalizzazione, vuoi perché considera in ogni caso impossibile la protezione dei propri dati personali (23,8%), vuoi perché considera efficaci i dispositivi che le istituzioni hanno posto a garanzia della privacy (22,8%).

Chi invece attribuisce la priorità alla riservatezza dei propri dati rispetto alla salute pubblica costituisce una minoranza (17,8%).

Altro tema affrontato dal sondaggio è quello delle fonti di comunicazione più utilizzate per conoscere notizie riguardo al virus e ai contagi.

Gli intervistati indicano al primo posto gli esperti di medicina (virologi, epidemiologi, ecc.) subito seguiti dal Governo. Apprezzati anche il Comitato tecnico scientifico e la Protezione civile; meno l’OMS, le Regioni, gli istituti di ricerca medica e i Comuni.

Un quinto dei partecipanti al sondaggio, tuttavia, ritiene che nessuna delle fonti citate abbia soddisfatto il diritto all’informazione nei confronti dei cittadini.

Il Censis ha anche interrogato gli italiani sugli indennizzi ai liberi professionisti predisposti dal Governo.

Emerge un giudizio positivo, ma con la riserva dovuta al fatto che non sono stati evitati comportamenti opportunistici (37,0%); non ha ravvisato neppure questo limite il 33,0% degli intervistati. Al contrario, il 26,9% degli italiani non ha ritenuto giusto aver disposto i provvedimenti a favore dei liberi professionisti, segnalando la necessità di concentrare le risorse su altre categorie più disagiate.

Il campione è stato, infine, intervistato sul consenso rispetto ad alcune affermazioni riguardanti il Covid e il suo impatto dal punto di vista politico. In buona sostanza, se si sono trovati più vicini alle posizioni dei 67 “realisti” o a quelle dei “negazionisti”.

Nella prima schiera si colloca chi si appella alla collaborazione di tutti per garantire democrazia e diritti, riconoscendo comunque di vivere in uno stato d’eccezione e che in ogni caso il virus va fermato (“realisti responsabili”, 68,0%) e chi giustifica le imposizioni dei governi per fermare il virus, ma senza ravvisare rischi nei confronti dei diritti individuali e della democrazia (“realisti rassegnati”, 28,5%,).

Assai minoritaria la quota di chi vede nella pandemia un complotto che favorirebbe le imprese farmaceutiche e i cosiddetti “poteri forti” (2,1%) e chi considera l’azione restrittiva dei governi funzionale a una politica che mira a una limitazione di diritti e democrazia (1,4%).

3.3. La percezione del ruolo dell’avvocato

Interessante è il dato che il 35,0% degli italiani consideri la riforma della Giustizia la prima cosa da fare per fare uscire il Paese dalla crisi economica e tornare a crescere, mettendo in risalto il ruolo che essa gioca nel sostenere e assicurare l’attività economica.

Un altro terzo degli intervistati individua nel lavoro, nella salute e nella scuola i punti di atterraggio di qualsiasi iniziativa di riforma finalizzata alla crescita (33,2%).

Poco più di un italiano sue due individua nell’avvocato un elemento essenziale per la tutela dei diritti, mentre il 40% lo considera utile, sebbene non essenziale.

Nell’ambito dello sviluppo dell’attività economica le risposte assegnano maggior rilievo all’utilità, senza però attribuire all’avvocato un ruolo imprescindibile; un altro 17,4% lo considera, anzi, marginale e il 6,3% perfino superfluo.

Nella scelta di un avvocato, gli italiani sembrano portati a dare maggior peso all’anzianità professionale e, in subordine, al prestigio.

Genere, etnia e orientamento sessuale condizionano la scelta di una quota che si aggira poco sopra il 10% o meno. L’età risulta un fattore d’influenza sulle scelte per il 29,4%, mentre per quanto riguarda l’immagine la percentuale raggiunge il 34,0%.

In generale, la percezione degli italiani nei confronti della professione di avvocato tende a sottolineare la difficoltà nello svolgere la professione e attribuisce tali difficoltà all’eccesso di norme e alla bassa qualità delle norme stesse. È di questo avviso il 27,0% del campione, mentre il 22,3% vede invece uno spazio di opportunità determinato dalla crescente importanza che sta assumendo la rilevanza giuridica in materie come la privacy, il commercio on line, l’ambiente, i nuovi comportamenti nell’ambito dei diritti dell’individuo e della famiglia (procreazione, famiglie non tradizionali, discriminazioni). Ampia anche la quota di chi non vede il rischio che altre professioni possano inserirsi nel perimetro delle competenze specifiche di un avvocato e solo il 5% vede un pericolo di sostituzione delle competenze nella diffusione delle tecnologie digitali.

Contenute sono anche le percentuali che segnalano un limite della professione il fatto che obblighi i giovani a periodi lunghi di precarietà (14,7%).

4. Conclusioni

Il sondaggio Censis commissionato anche per il 2021 da Cassa Forense non dà risultati inattesi.

Viene confermata la centralità del ruolo dell’avvocato nella soluzione dei problemi.

Le misure messe in campo dal Governo e da Cassa Forense per sostenere il reddito degli avvocati vengono ritenute utili e opportune, ma non totalmente soddisfacenti.

La crisi del reddito viene ritenuta un problema soprattutto in prospettiva.

Il giudizio positivo sull’uso della tecnologia e nuove modalità di esercizio della professione stimolate dal lockdown viene tuttavia declinato in modo diverso in base all’età degli intervistati. Si sottolinea, in ogni caso, il rischio di impoverimento determinato dalla riduzione dei contatti sociali.

La prosecuzione, ancora in questi giorni in cui scriviamo, della situazione di crisi pandemica e l’orizzonte ancora lontano dell’uscita dall’emergenza, ci fa concludere con poco ottimismo e con la necessità di aggiornare il bilancio all’inizio del nuovo anno.


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