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I. Il patto di quota lite è l’accordo tra avvocato e cliente che attribuisce all’avvocato, quale compenso della sua attività professionale, una quota dei beni o diritti in lite. In pratica con il patto di quota lite il compenso dell’avvocato viene calcolato in percentuale rispetto al risultato ottenuto dal cliente, anziché essere ragguagliato all’importanza dell’opera professionale (Cass. 19.11.1997 n. 11485). Viola l’art. 2233 cod. civ. l’accordo intervenuto tra cliente/avvocato prima dello svolgimento dell’attività difensiva, che riguarda il contenuto patrimoniale e la disciplina del rapporto d’opera intellettuale alla partecipazione del professionista ad interessi economici finali della lite ed esterni alla prestazione professionale: in pratica, l’avvocato non può pretendere parte del bene oggetto della lite.
Il divieto del patto di quota lite, previsto all’art. 2233, 3 comma, cod. civ., abrogato dall’art. 2, D.L. n. 223/2006, conv. in legge n. 248/2011, è stato ripristinato dall’art. 13, comma 4 della l. n. 247 del 2012.
La ratio del divieto del patto di quota lite (e quindi della cessione dei crediti litigiosi) è sempre stata individuata nell’esigenza di tutelare l’interesse del cliente nonché la dignità e la moralità della professione forense, impedendo la partecipazione del professionista agli interessi economici esterni della prestazione.
L’avvocato non può pattuire un compenso che prevede l’attribuzione dei beni o diritti oggetto della controversia, concretandosi tale patto in una partecipazione agli interessi dei quali è stato assunto il patrocinio. L’interessamento dell’avvocato alle sorti della lite attenua quella obiettività e serenità che si richiede nella esplicazione del mandato. È necessario il distacco dell’avvocato dagli esiti della lite, distacco che verrebbe fortemente attenuato dall’eventuale commistione di interessi quale si avrebbe se il compenso dell’avvocato fosse collegato, in tutto o in parte, all’esito della lite, con il rischio così della trasformazione del rapporto professionale da rapporto di scambio a rapporto associativo.
Dopo l’entrata in vigore dell’art. 13, comma 4, della l. n. 247/2012, che ha ripristinato il divieto del patto di quota lite, si è posto il problema della “dicotomia” di tale comma, che espressamente statuisce “sono vietati i patti con i quali l’avvocato percepisca come compenso in tutto o in parte una quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa” con il precedente comma 3, che espressamente statuisce “La pattuizione dei compensi è libera: è ammessa la pattuizione ….. a percentuale sul valore dell’affare o su quanto si prevede possa giovarsene, non soltanto a livello astrattamente patrimoniale, il destinatario della prestazione”.
Stante la poco “linearità” di tali due commi, si è posto il problema di individuare la fattispecie concreta di patto di quota lite.
Per la risoluzione del riferito problema vengono in aiuto decisioni sia del Consiglio Nazionale Forense che della giurisprudenza di merito e legittimità. Infatti, il Consiglio Nazionale Forense, con sentenza 30.12.2013 n. 225, fornisce un primo “chiarimento” sulla portata dell’art. 13, comma 4, della Legge n. 247/2012.
Dopo avere premesso che ai sensi dell’art. 13, Legge n. 247/2012 “sono vietati i patti con i quali l’avvocato percepisca come compenso in tutto o in parte una quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa”, mentre è valida la pattuizione con cui si determini il compenso “a percentuale sul valore dell’affare o su quanto si prevede possa giovarsene, non soltanto a livello strettamente patrimoniale, il destinatario della prestazione” (art. 13, comma 3, l. n. 247/2012), afferma che l’accennata dicotomia legislativa deve essere intesa nel senso che la percentuale può essere rapportata al valore dei beni o agli interessi litigiosi, ma non lo può essere al risultato, perchè in tal senso deve interpretarsi l’inciso “si prevede possa giovarsene”, che appunto evoca un rapporto con ciò che si prevede e non con ciò che costituisce il consuntivo della prestazione professionale.
Da quanto precede consegue che la parcella in percentuale al valore dell’affare non viola il divieto del patto di quota lite, mentre la parcella in percentuale collegata al risultato conseguito (in pratica alla somma attribuita) viola il divieto del patto di quota lite.
A seguito della Legge n. 247/2012, esistono, quindi, due tipi di patti di quota lite: uno, legittimo, con il quale si stabilisce un compenso correlato al risultato pratico dell’attività svolta e, comunque, in ragione di una percentuale sul valore dei beni o degli interessi litigiosi; l’altro, che è nullo, nella misura in cui realizzi,in via diretta o indiretta, la cessione del credito o del 55 bene litigioso, contravvenendo, dunque, al divieto posto dall’art. 1261 c.c.
Ulteriore contributo alla individuazione della fattispecie del divieto del patto di quota lite è dato dal Tribunale di Monza con sentenza n. 247/2013 (richiamata, peraltro, dalla riferita decisione del Consiglio Nazionale Forense) in cui si afferma che “Il patto di quota lite integra un contratto aleatorio in quanto il compenso varia in funzione dei benefici ottenuti in conseguenza dell’esito favorevole della,lite e i suo tratto caratterizzante è dato, appunto, dal rischio, perché il risultato da raggiungere non è certo non solo nel quantum ma, soprattutto, neppure nell’an…. ed è proprio l’aleatorietà che distingue il patto di quota lite da figure affini, quale ad esempio il palmario”.
Il Tribunale di Nola, con ordinanza 19.9.2019 ha ulteriormente “specificato” la fattispecie del patto di quota lite, affermando che “il patto di quota lite è valido solo se le parti hanno predeterminato, al momento della conclusione del contratto, il valore dell’affare,o quantomeno hanno individuato l’importo che ritengono di poter ottenere; non è invece valido quando le parti si sono limitate ad individuare una percentuale o una quota, rimettendo ogni altra determinazione al risultato conseguito all’esito del giudizio”.
Dal riportato excursus normativo e giurisprudenziale ne consegue che il patto di quota lite è valido quando le parti, ex ante, e dunque prima dell’instaurazione della lite, assegnano un valore all’affare, o quantomeno individuano un valore di cui ritengono che (all’esito del giudizio) la parte possa giovarsi all’esito della controversia; in tal modo le parti individuano sin dall’inizio il compenso che verrà riconosciuto all’avvocato, a condizione dell’esito positivo della lite. Diversamente, il patto non è valido ogni qual volta le parti si limitano a individuare la quota (o la percentuale) del compenso, che poi verrà concretamente determinata a risultato conseguito, e quindi in base ad una valutazione ex post. Una conferma indiretta di tale interpretazione si ha con la sentenza della Corte di Cassazione 4.2.2016 n. 2169 (per fattispecie riferita al divieto del patto di quota lite ante d.l. n. 223/2006 ) in cui si afferma che non viola il patto di quota lite, l’accordo sul compenso professionale stipulato con il cliente alla conclusione di tutta l’attività difensiva svolta (momento in cui si è “a conoscenza” del valore della vertenza).
Per valutare i confini di liceità del patto cliente/avvocato stipulato, occorre distinguere i casi in cui tra le parti siano stipulati patti scritti che riproporzionino i compensi professionali ai risultati raggiunti senza però riferirsi a delle quote del bene oggetto di contenzioso, dai casi in cui in forza di simili patti i compensi abbiano ad oggetto tale bene.
Per non incappare nel riferito divieto, nei casi in cui il compenso viene pattuito in percentuale sul valore dell’affare, è necessario fare riferimento al valore della causa al momento della pattuizione e quindi al valore della causa riconosciuta dalle parti e non al valore finale (in pratica al valore della domanda e non alla somma attribuita in sede finale). In pratica, sono validi i patti sui compensi parametrati ai risultati conseguiti, aventi ad oggetto, non una quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa, ma una percentuale del valore del bene controverso o del bene stesso.
Il divieto di partecipare alla lite per un interesse che derivi dai diritti che l’avvocato è chiamato a difendere (c.d. patto di quota lite) è, quindi, assoluto, trovando applicazione sia in campo giudiziale che stragiudiziale (Cass. 29 aprile 1982, n. 2709).
In caso di nullità del patto di quota lite, l’avvocato conserva comunque il diritto di ricevere il compenso delle sue prestazioni sulla base dei parametri, posto che la nullità non determina l’invalidità dell’intero accordo. (Cass. 30.7.2018 n. 20069; Cass. 17.5.2007 n. 11461; Corte App. Trento 6 luglio 1957; Consiglio Nazionale Forense n. 71 del 2009).
Quanto alla sorte dei patti di quota lite stipulati legittimamente anteriormente all’entrata in vigore della Legge n. 247/2012 (e dopo l’entrata in vigore della Legge n. 248/2006), gli stessi qualora ancora in corso per non essere la prestazione dell’avvocato ancora terminata per non essersi ancora verificato il fatto cui il compenso è subordinato, a decorrere dal 2 febbraio 2013, sono da ritenersi nulli in applicazione del principio dalla c.d. nullità sopravvenuta.
Il patto di quota lite, oltre che nullo, costituisce, poi, anche violazione deontologica sanzionabile in sede disciplinare.
In ordine all’ambito di operatività del divieto del patto di quota lite, anche se con riferimento al divieto a suo tempo previsto dall’art. 2233, comma 3, c.c., si è affermato (Cass. 2 ottobre 2014, n. 20839) che la disposizione di cui all’art. 2233, comma 3, c.c. – nel testo in vigore prima della sostituzione ad opera dell’art. 2, comma 2-bis del D. L. n. 233/2006, conv. dalla Legge n. 248 del 2006 – nel prevedere la nullità del cd. patto di quota lite si riferisce esclusivamente all’attività svolta da professionisti abilitati al patrocinio in sede giurisdizionale e non anche all’attività amministrativo- contabile svolta dal consulente del lavoro in ambito previdenziale e finalizzata al conseguimento di sgravi contributivi.
II. Mentre è vietato il patto di quota lite, viceversa è ammesso il palmario.
Il palmario è il compenso corrisposto o promesso dal cliente al difensore, in una misura determinata, in sostituzione dell’onorario o in aggiunta allo stesso, con particolare riferimento alla conclusione favorevole di una lite o di una questione stragiudiziale. In pratica il palmario è l’accordo avvocato/cliente che prevede, in favore del professionista, il pagamento di una somma ulteriore in ragione del risultato perseguito o della complessità dell’attività svolta. Il palmario è un compenso suppletivo straordinario che il cliente per l’esito vittorioso della lite, si obbliga a dare all’avvocato in aggiunta all’onorario spettantegli in base alla tariffa forense (Cass. 18 giugno 1986, n. 4078), compenso legittimo essendo consentito alle parti di convenire un compenso “libero”.
Il compenso a titolo di palmario va pattuito in forma scritta o comunque in qualche modo provato dall’avvocato, altrimenti la pretesa dell’avvocato si configura come un patto di quota lite (Cass. n. 16214 del 2017).
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