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1. Diversi ordini professionali territoriali (non solo forensi) vengono di frequente attinti da comunicazioni di uffici locali di amministrazioni statali (soprattutto le ragionerie territoriali dello Stato) che richiedono adempimenti e comunicazioni previsti in generale per il comparto pubblico. Se è pacifica la natura di enti pubblici non economici degli ordini e dei collegi professionali, è altrettanto pacifico (o almeno dovrebbe esserlo) che, quantomeno dall’estate del 2023, tali richieste si palesano manifestamente infondate, ed integrano vere e proprie violazioni di legge.
Ed infatti, la scorsa estate, con il decreto-legge 22 giugno 2023, n. 75, recante “Disposizioni urgenti in materia di organizzazione delle pubbliche amministrazioni, di agricoltura, di sport, di lavoro e per l’organizzazione del Giubileo della Chiesa cattolica per l’anno 2025” (conv. in legge 10 agosto 2023, n. 101), ed in particolare con l’art. 12-ter del decreto legge (cd. Decreto PA 2), il legislatore ha innovato incisivamente la materia, modificando il testo dell’art. 2 comma 2bis del decreto legge n. 101 del 2013.
2. Le predette innovazioni riguardano proprio la sfera degli obblighi gravanti sugli ordini professionali come enti afferenti al comparto pubblico e la loro frequente assimilazione alle pubbliche amministrazioni tout court.
Alla luce delle modifiche introdotte, è opportuno indagare se si possano considerare ancora gravanti sugli ordini professionali taluni obblighi genericamente rivolti al comparto pubblico, come ad esempio quelli relativi alla revisione periodica e al censimento delle partecipazioni pubbliche (art. 20, d. lgs. n. 175/2016; art. 17, d.l. n. 90/2014), quelli che concernono la comunicazione dello stock di debito delle pubbliche amministrazioni (art. 1, comma 867, L. 145/2018), e quelli in materia di comunicazione dei costi del personale (art. 60, comma 2, D. lgsl. n. 165/2001).
3. L’indagine non può ovviamente prescindere da un’attenta analisi del testo dell’innovazione normativa e dalla sua interpretazione sistematica nell’ambito della più ampia disposizione nella quale è stata inserita.
La nuova norma inserisce nell’art. 2, comma 2bis, DL 101/2013 il seguente periodo: «Ogni altra disposizione diretta alle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, non si applica agli ordini, ai collegi professionali, ai relativi organismi nazionali, in quanto enti aventi natura associativa, che sono in equilibrio economico e finanziario, salvo che la legge non lo preveda espressamente». Il testo vigente dell’art. 2, comma 2 bis, DL n. 101/2013 risulta pertanto il seguente (in grassetto la disposizione di recente introduzione): “2-bis. Gli ordini, i collegi professionali, i relativi organismi nazionali e gli enti aventi natura associativa, con propri regolamenti, si adeguano, tenendo conto delle relative peculiarità, ai principi del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, ad eccezione dell’articolo 4, del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150, ad eccezione dell’articolo 14 nonché delle disposizioni di cui al titolo III, e ai soli principi generali di razionalizzazione e contenimento della spesa pubblica ad essi relativi, in quanto non gravanti sulla finanza pubblica.
Ogni altra disposizione diretta alle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, non si applica agli ordini, ai collegi professionali, ai relativi organismi nazionali in quanto enti aventi natura associativa, che sono in equilibrio economico e finanziario, salvo che la legge non lo preveda espressamente.
Per tali enti e organismi restano fermi gli adempimenti previsti dall’articolo 60, comma 2, del citato decreto legislativo n. 165 del 2001”.
4. Il nuovo testo dell’articolo in esame aggiunge allo stesso contenuti giuridici di notevole portata.
Com’è noto, già l’originaria versione dell’articolo aveva il merito di segnalare la specialità degli ordini professionali nell’ambito del comparto degli enti pubblici, sottraendoli espressamente alle norme in materia di spending review (effetto per la verità dell’art. 2 comma 2, cioè della norma che, nel decreto legge 101, precede immediatamente quella in analisi) e di specificare la non soggezione degli ordini e dei collegi professionali al testo unico sul pubblico impiego, se non nei principi generali, e comunque sulla base di regolamenti autonomi.
Il profilo autonomico delle istituzioni ordinistiche esce ulteriormente rafforzato dalla novella in commento, giacché viene positivizzata una disposizione di principio che preclude ormai definitivamente ogni impropria pedissequa assimilazione degli ordini professionali alle amministrazioni statali.
Il vigente testo dell’art. 2, comma 2 bis, DL cit., risolve infatti un annoso problema ermeneutico, e semplifica notevolmente il campo degli adempimenti cui gli ordini professionali sono soggetti.
Secondo un consolidato orientamento, prima elaborato in dottrina1, e poi recepito dalla giurisprudenza e formalizzato espressamente negli ordinamenti professionali più recenti (cfr. art. 24 dell’ordinamento forense, L. 247/2012; art. 6, d. lgsl. 139/2005, ord. dott. commercialisti), gli ordini professionali sono enti pubblici non economici a carattere associativo, dotati di autonomia regolamentare, patrimoniale e finanziaria, e non gravano sulla finanza pubblica, perché alimentati esclusivamente dai contributi degli iscritti.
Si tratta di una struttura soggettiva del tutto peculiare, anche se non unica nel panorama ordinamentale italiano (simile conformazione presentano altri enti quali la Croce rossa italiana, l’ACI, e, per certi aspetti, le Camere di commercio, industria e artigianato), dove il carattere soggettivo pubblicistico precisato dalle leggi istitutive insieme con le funzioni pubbliche assegnate agli ordini convive con la base personalistica dell’istituzione: l’ordine è innanzi tutto la comunità degli iscritti nell’albo, una associazione ad appartenenza obbligatoria, e tale conformazione assume diretto rilievo giuridico nella disciplina dell’ente, basti pensare alla elettività degli organi direttivi, alle funzioni dell’assemblea degli iscritti, ed al sistema di finanziamento dell’ente stesso, che grava per intero sugli iscritti stessi, senza alcun contributo statale.
Tale peculiare fisionomia, per la quale è stata utilizzata in dottrina l’immagine del Giano bifronte, è un elemento di grande valore sistemico, sia perché indica la riconducibilità degli ordini a quelle formazioni sociali che la Costituzione protegge e valorizza, sia perché costituisce un esempio di autogoverno di categorie di soggetti accomunati dalla professione esercitata, ed organizzati in enti gestiti democraticamente tramite elezioni2.
Allo stesso tempo, però, tali indubbie peculiarità possono divenire fonte di ambiguità e di difficoltà ermeneutiche.
5. Ed infatti, storicamente, è spesso accaduto - ed accade invero tutt’ora – che, senza alcuna consapevolezza dell’orizzonte problematico sopra evocato, e senza tener conto della evidente specialità degli enti professionali, amministrazioni centrali o periferiche dello Stato, Autorità amministrative indipendenti, ed altri organismi pubblici abbiano preteso dagli ordini l’esecuzione di adempimenti ed obblighi manifestamente pensati per strutture pubbliche completamente diverse per natura giuridica, e per dimensioni organizzative, con esiti a volte paradossali.
La ragione principale di tali improprie assimilazioni è che le normative genericamente rivolte al comparto pubblico, piuttosto che delimitare precisamente il proprio campo di applicazione in funzione degli obiettivi e della ratio del singolo intervento legislativo, si limitano per lo più a richiamare pigramente l’art. 1, comma 2, d. lgsl. n. 165/2001 (TU pubbl. imp.), fonte che contiene un elenco degli enti afferenti al settore pubblico in origine pensato solo per l’applicazione delle disposizioni in tema di pubblico impiego, e che contempla anche la categoria degli “enti pubblici non economici”. Essendo gli ordini enti pubblici non economici, assai di frequente uffici ministeriali, altre autorità pubbliche e a volte anche talune autorità giudiziarie hanno ritenuto gli ordini soggetti a vari oneri ed adempimenti previsti in via generale – ma imprecisa – per le pubbliche amministrazioni statali e/o per enti comunque afferenti al comparto pubblico.
6. Nonostante sia stato più volte evidenziato in dottrina e a volte anche in giurisprudenza come il richiamo all’art. 1, comma 2 TU pubbl. imp. sia di per sé insufficiente a ricomprendere gli ordini professionali, giacché – come recita l’art. 2, comma 2bis, D. L. 31 agosto 2013, n. 101 – l’intero testo unico si applica agli ordini professionali solo nei principi (e non nelle norme di dettaglio), ed in quanto tali principi siano recepiti da regolamenti autonomi degli ordini stessi, tuttavia, nonostante ciò, gli ordini hanno continuato a ricevere richieste di adempimenti ed obblighi manifestamente pensati per enti che gravano sulla finanza pubblica.
Tale situazione genera gravi difficoltà applicative, a fronte dell’impossibilità oggettiva di applicare agli ordini, per lo più assai modesti per dimensioni strutturali e numero di dipendenti, discipline e regimi manifestamente pensati per il comparto delle amministrazioni statali.
7. Queste difficoltà dovrebbero essere oggi finalmente superate, alla luce della novella dell’estate scorsa. L’innovazione in commento, coerentemente con le premesse sistematiche qui rapidamente sintetizzate, esclude la soggezione automatica degli ordini professionali a normative genericamente riferite al comparto pubblico, ed afferma l’opposto principio in forza del quale, ogni qual volta il legislatore intenda estendere agli ordini e ai collegi professionali previsioni od obblighi che caratterizzano il regime delle PP. AA., lo debba prevedere espressamente (come avvenuto, ad esempio con l’art. 3 del decreto legislativo n. 97/2016, il cd. correttivo alla normativa sulla trasparenza, che ha chiarito l’applicabilità di taluni obblighi di trasparenza anche agli ordini professionali, “in quanto compatibili”).
Nessun richiamo implicito, dunque, potrà più far ricadere ordini e collegi professionali nell’area di applicazione di discipline destinate agli enti di cui all’art. 1, comma 2, pubbl. imp.: tale riferimento non è più sufficiente, alla luce delle norme oggi vigenti, per ricomprendere gli enti professionali, ed anzi, atti amministrativi, circolari, o altri provvedimenti che dovessero pretendere tale applicazione, incorrerebbero nel vizio di violazione di legge, sindacabile nelle competenti sedi giudiziarie.
8. A ben vedere le nuove norme non fanno altro che applicare un principio di buon senso (quando il legislatore vuole rivolgersi agli ordini e ai collegi professionali, abbia cura di dirlo chiaramente), e recepiscono una più che ragionevole richiesta del comparto ordinistico, peraltro allineandosi a quanto già affermato dalla giurisprudenza amministrativa più accorta (cfr. Tar per la Sicilia, sezione di Catania, sentenza n. 2307 del 5 dicembre 20183 e TAR Lazio, sentenza 2 novembre 2022, n. 14283) e dovrebbe sperabilmente evitare inutili contenziosi nelle sedi giurisdizionali più disparate.
9. Per completezza, non può non rilevarsi come resti nell’art. 2, comma 2 bis, DL 101/2013, un ultimo comma aggiunto di recente dal legislatore, e cioè la previsione per cui “per tali enti e organismi (cioè gli ordini e i collegi professionali, ndr) restano fermi gli adempimenti previsti dall’articolo 60, comma 2, del citato decreto legislativo n. 165 del 2001”4 .
L’art. 60 comma 2 del Testo unico pubb. imp. è quello che prevede la comunicazione dei costi del personale alla Ragioneria generale dello Stato e alla Corte dei conti. Qualche tempo fa, il Giudice amministrativo aveva escluso che un tale obbligo potesse gravare sugli ordini professionali5, la sentenza TAR Lazio 2 novembre 2022, n. 14283 aveva annullato in parte qua la predetta circolare, stabilendo appunto che agli ordini professionali, in quanto enti non gravanti sul sistema della finanza pubblica, non potevano ritenersi applicabili le norme sulla comunicazione dei costi del personale al MEF e alla Corte dei conti. La previsione in commento è stata dunque espressamente assunta per “superare” la statuizione del Giudice amministrativo.
10. Alla luce del quadro normativo così delineato, resta dunque in capo agli ordini ed ai collegi professionali l’obbligo di rilevare e comunicare i costi del personale.
Il che appare invero quantomeno illogico, considerato che - essendo la rilevazione finalizzata appunto alla redazione del “conto annuale”, i dati relativi al personale degli ordini restano del tutto fuorvianti, in quanto le spese del personale di essi non gravano sul complessivo plafond finanziario del sistema pubblico consolidato; una volta inserite nella relativa rilevazione, dunque, tali spese ne dovrebbero essere immediatamente scorporate, a meno di non voler alterare i risultati complessivi, oltretutto con un ingiustificato appesantimento dei conti dello Stato.
Eppure, in ragione dell’inserimento del richiamato ultimo comma all’art. 2 comma 2bis, DL cit., ed in assenza di ulteriori interventi normativi, l’obbligo di rilevazione e comunicazione dei costi del personale deve ritenersi esigibile anche per gli ordini professionali.
Potrebbe peraltro essere opportuno, nel quadro del principio di leale collaborazione tra istituzioni pubbliche, che il comparto ordinistico avvii una interlocuzione con la Ragioneria generale dello Stato al fine di concordare modalità semplificate di adempimento di tale obbligo.
Tanto più che, con l’entrata in vigore del principio generale della non assoggettabilità degli ordini e dei collegi professionali alle normative genericamente rivolte al comparto pubblico, quello di comunicazione dei costi del personale resta un adempimento disallineato e fuori asse rispetto al quadro generale. Le minime dotazioni organiche della gran parte degli ordini professionali italiani giustificano certamente la richiesta di una semplificazione sostanziale e non meramente apparente.
11. In conclusione, dunque, deve ritenersi che, in forza del vigente testo dell’art. 2, comma 2 bis, DL 101/2013, tutte le norme rivolte al comparto pubblico che individuano la platea dei soggetti destinatari tramite il richiamo all’art. 1, comma 2, T.U. pubbl. imp. non si applicano di per ciò solo agli ordini e ai collegi professionali, nonché alle loro Federazioni (per le professioni sanitarie).
Solo una menzione espressa degli enti professionali può dunque far scattare in capo ad essi obblighi e/o oneri previsti per altri soggetti pubblici. Per sciogliersi dunque il dubbio circa la soggezione o meno degli enti professionali a normative statali (o anche regionali) rivolte al comparto pubblico dovrà pertanto verificarsi il testo della norma che individua la platea dei destinatari: se questa norma richiama l’art. 1, comma 2, TU pubbl imp., ma non menziona espressamente ordini e collegi professionali, il dubbio andrà sciolto negativamente, e cioè ritenendo che la normativa in questione non si applichi agli enti professionali.
Facendo applicazione di tale criterio, possiamo dunque prendere ad esame singole fattispecie e verificare, senza pretese di esaustività, la soggezione o meno degli enti professionali a tali previsioni.
12. Non si applicano certamente agli enti professionali gli obblighi relativi alla revisione periodica e al censimento delle partecipazioni pubbliche (art. 20, d. lgs. n. 175/2016; art. 17, d.l. n. 90/2014), e gli obblighi di comunicazione dello stock di debito delle PP.AA. (art. 1, comma 867, L. 145/2018), mentre si applicano, in virtù – come detto - dell’eccezione stabilita espressamente dall’ultimo comma dell’art. 2, comma 2bis, DL 101/2013, gli obblighi in materia di comunicazione dei costi del personale di cui all’art. 60, comma 2, D. lgsl. n. 165/2001.
13. Del pari non si applica agli ordini ed ai collegi professionali il cd. Codice dell’amministrazione digitale, giacché anche in questo caso la norma che precisa il campo di applicazione della disciplina richiama le pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1, co. 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 senza menzionare ordini e collegi professionali. Recita infatti l’art. 2, comma 2 del Decreto legislativo 07/03/2005, n. 82: “Le disposizioni del presente Codice si applicano: a) alle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, nel rispetto del riparto di competenza di cui all’articolo 117 della Costituzione, ivi comprese le autorità di sistema portuale, nonché alle autorità amministrative indipendenti di garanzia, vigilanza e regolazione (…)”
14. Restano invece applicabili agli ordini professionali le norme in materia di trasparenza e anticorruzione, perché il Decreto legislativo 14/03/2013, n. 33, come modificato dal decreto correttivo n. 97 del 2016, prevede all’art. 2 bis, comma 2, che “la medesima disciplina prevista per le 33 pubbliche amministrazioni di cui al comma 1 si applica anche, in quanto compatibile: a) agli enti pubblici economici e agli ordini professionali; (…) Vi è dunque un richiamo espresso agli enti professionali, e pertanto il criterio oggi individuato dall’art. 2, comma 2bis, D.L.101/2013 è pienamente rispettato.
15. Del pari applicabile agli ordini è la normativa in materia di sicurezza del lavoro, perché la relativa fonte individua il campo di applicazione in modo amplissimo, senza distinzione tra settore pubblico e settore privato: l’art 3, comma 1 del Decreto legislativo 09/04/2008, n. 81 dispone infatti che “il presente decreto legislativo si applica a tutti i settori di attività, privati e pubblici, e a tutte le tipologie di rischio”.
16. Non è invece applicabile al comparto ordinistico la norma che impegna le PP.AA. a comunicare alla funzione pubblica i nominativi dei dipendenti che godono dei permessi di cui alla legge 104 del 1992, perché la conferente fonte individua il proprio campo di applicazione ne “le amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165”, senza richiamare espressamente ordini e collegi professionali.
17. Le fattispecie elencate ai punti che precedono non esauriscono invero tutti i casi in cui la legge si rivolge al settore pubblico. E, tuttavia, queste fattispecie costituiscono applicazione di un metodo chiaro: per verificare l’applicabilità agli ordini professionali, sarà necessario esaminare l’eventuale richiamo alla platea degli enti di cui all’art. 1, comma 2, T.U. pubbl. imp.; ove questo richiamo vi sia, è necessario che ordini e collegi siano espressamente menzionati, affinché si possa predicare la loro soggezione alla normativa in questione.
Ove invece il legislatore si rivolga al settore pubblico non facendo uso del richiamo all’art. 1, comma 2, TU pubbl. imp., la risposta circa la eventuale soggezione di ordini e collegi professionali alla normativa in questione andrà ricercata volta per volta alla luce della disamina dei criteri oggettivi e soggettivi che individuano la platea dei destinatari, nonché alla luce degli obiettivi e delle finalità che la normativa in questione si pone.
A fronte di una norma di carattere generale che, come detto, stabilisce oggi espressamente il principio della inapplicabilità agli ordini delle fonti che non li menzionano espressamente, la opposta tesi della applicabilità a tali enti di normative rivolte al comparto pubblico non potrà limitarsi a semplicistici richiami alla categoria degli enti pubblici non economici ma dovrà di necessità basarsi su argomenti testuali e/o sistematici ben più persuasivi.
18. Si può pertanto concludere che, per i casi in cui la platea degli enti destinatari di normative rivolte al comparto pubblico sia individuata con il richiamo all’art. 1, comma 2, TU pubbl. imp., la novella introdotta dal decreto legge 22 giugno 2023 fornisce un criterio dirimente e non revocabile in dubbio per valutare la soggezione o meno degli ordini e dei collegi professionali, giacché stabilisce che gli enti professionali debbano essere espressamente richiamati.
Per i casi in cui, invece, la platea degli enti destinatari di normative rivolte al comparto pubblico non sia individuata dalla legge con la tecnica del richiamo all’art. 1, comma 2, TU pubbl. imp., la novella introdotta in estate, ponendo comunque il principio generale della inapplicabilità agli ordini delle fonti che non li menzionano espressamente, fornisce un solido argomento nel senso della non applicabilità, ma non esclude in via di principio che sempre e comunque gli ordini debbano ritenersi esclusi dalla sfera di applicazione delle normative in questione.
Del resto un margine di “elasticità” nella individuazione della nozione di ente pubblico è in qualche misura dato immanente all’ordinamento giuridico italiano, dove esiste una nozione c.d. “funzionale” di pubblica amministrazione, secondo cui “il criterio da utilizzare per tracciare il perimetro del concetto di ente pubblico muta a seconda dell’istituto o del regime normativo che deve essere applicato”.
E difatti, poiché “la nozione di ente pubblico nell’attuale assetto ordinamentale non può … ritenersi fissa ed immutevole”, la conseguenza è che “non può ritenersi … che il riconoscimento ad un determinato soggetto della natura pubblicistica a certi fini, ne implichi automaticamente e in maniera automatica la integrale sottoposizione alla disciplina valevole in generale per la pubblica amministrazione”6 .
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