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Lodovico Mortara, paladino suo malgrado, del voto alle donne

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di Immacolata Troianiello

L’occasione per conoscere meglio il pensiero di Lodovico Mortara “sulle donne”, mi è stata offerta dalla partecipazione quale relatrice alla presentazione del volume scritto da Massimiliano Boni organizzata dalla Fondazione Castel Capuano “Il figlio del rabbino” sul grande giurista dei primi del ‘900, avvocato professore universitario magistrato guardasigilli Presidente di Corte di Cassazione.

Il filo rosso che percorre il libro, di cui forse neanche l’autore e lo stesso Mortara sono stati consapevoli, riguarda l’attività svolta dal giurista a favore dei diritti umani ampiamente intesi, perciò anche i diritti delle donne. Già agli esordi della sua carriera universitaria, nella prima lezione tenuta a Pisa, il 14 gennaio 1889 egli celebrò il primo centenario della rivoluzione francese dichiarando: oggi occorre confrontarsi su un principio non più eliminabile “l’idea di uguaglianza di tutti gli uomini”. Il Mortara introdusse cosi da subito, una visione evolutiva del genere umano, ovvero l’attività umana non governata solo dalle pulsioni tese a soddisfare i bisogni fisici argomentando... perché l’intelligenza e la ragione formano parte integrante dell’uomo. Occorre liberare l’ingegno dell’uomo, cosa possibile solo con una larga e ricca diffusione di una generale cultura di tutte le menti.

Questo principio di uguaglianza sostanziale verrà poi recepito nell’art. 3 della Costituzione Italiana. Il Nostro si presenta come statista indipendente, grande innovatore, coraggioso magistrato ed indomito propulsore di diritti civili, personaggio straordinario che merita tutta la nostra gratitudine perché a lui si deve, tra l’altro, la sentenza a favore del voto alle donne e l’apertura all’iscrizione delle donne agli albi degli avvocati con l’eliminazione della potestà maritale.

Per quanto riguarda il suo pensiero sui diritti delle donne esso non fu mai davvero favorevole, ad esempio a Pisa si era espresso, da accademico, in termini restrittivi, circa la loro partecipazione alle cariche pubbliche affermò che “la questione se le donne possono essere ammesse ai pubblici uffici è questione sempre controversa” e che andava seguito un criterio affatto relativo, dichiarando all’uopo che “in massima non escludere che essa possa occupare che quelle cariche che si confanno alla condizione del sesso” e per quanto riguardava il voto alle donne aveva teorizzato: La donna (che vota) non potrebbe sfuggire l’influenza delle persone con cui vive e se lo facesse ciò potrebbe essere una minaccia di dissoluzione e disordine alla famiglia”. “Ed in ogni caso la donna porterebbe una prevalenza di idee clericali”.

Invece nel 1906, divenuto magistrato e Presidente della Corte di appello di Ancona, ebbe l’occasione di applicare quei principi di egualitarismo pronunciati a Pisa, ma soprattutto mostrò la sua assoluta fedeltà interpretativa alla norma scritta, alla legge. Sulla spinta dei grandi movimenti europei per la libertà di voto alle donne, nel 1906 Maria Montessori aveva scritto un proclama sul giornale “La vita” chiedendo loro di iscriversi nelle liste elettorali in Italia. “Nel 1906, così, 10 maestre marchigiane, tra le prime suffraggette italiane, riuscirono ad ottenere la propria iscrizione nelle liste elettorali, anche se solo per 10 mesi, sulla spinta propugnata dalla Montessori a partecipare alla vita politica. Quello che affrontarono è incredibile, e vinsero in un primo momento. Lottarono in casa e fuori, ma erano determinate e coraggiose, intentarono un percorso giuridico, in una magistratura tutta al maschile e con forte opposizione, anche da parte delle donne, soprattutto colleghe, vecchia storia ma non troppo lontana anche ai giorni nostri… Poi persero e solo 40 anni più tardi il loro impegno diventerà realtà.” Così in Italia molte Commissioni elettorali ricevettero la richiesta di iscrizione alle liste da parte di donne e di conseguenza molte Corti di Appello vennero investite della decisione sulla ammissione delle stesse a detta iscrizione, quasi tutte si espressero in modo negativo: Palermo, Cagliari, Venezia, Firenze, Brescia, Napoli. Anche alla Corte di Appello di Ancona, vi fu la stessa richiesta, ed il suo Presidente Mortara venne chiamato a decidere sulla possibilità di ammetterle. Incredibilmente, in un quadro cosi sconfortante, solo Mortara rigettò l’appello presentato dal procuratore del Re (26 maggio 1906) contro la commissione elettorale della provincia di Ancona che aveva accolto l’istanza di iscrizione presentata dalle dieci insegnanti di Senigallia.

La sentenza esordiva “La questione deve essere in questa sede esaminata e decisa con la scorta di criteri puramente giuridici ed esegetici, senza divagare a discussioni teoriche pertinenti alla scienza ed all’ufficio del legislatore”. Il relatore pertanto eliminò, dal criterio di valutazione adottato, tutti quei parametri che all’epoca erano utilizzati per negare alle donne il diritto al voto come anche il diritto di iscriversi all’albo avvocati. Tutte le argomentazioni, slegate dalle norme vigenti e legate ad una visione restrittiva delle interpretazioni delle stesse, furono pertanto disattese. Infatti il Mortara si limitò, con grandissimo coraggio, a leggere ed applicare le norme vigenti, senza nulla concedere alle proprie idee personali, verificando che non vi era nessun ESPRESSO DIVIETO nelle leggi sull’elettorato amministrativo, specifico sul punto.

Fece leva perciò sull’art. 24 dello Statuto Umbertino che affermava un generale godimento dei diritti politici senza distinzione di sesso, spettante ai Regnicoli ed argomentando che il diritto elettorale è un diritto politico… Il Nostro ritenne di scrivere… e visto che dalla legge elettorale si ricava che “non vi sono argomenti esegetici i quali conducano necessariamente a ritenere che essa interdica alle donne il diritto elettorale” esso deve essere esteso anche alle donne senza poter ricavare dal silenzio del legislatore delle eccezioni che, come detto “devono essere espressamente stabilite e non è permesso indurle dal silenzio della legge, il quale anzi, secondo la regola della buona ermeneutica, le esclude.” Così Le ammise!… a chiarimento del suo pensiero egli dichiarò che, chiamato a decidere come magistrato la questione, “mi sono dovuto spogliare di ogni prevenzione personale per esaminare serenamente il testo di legge”. Egli a sostegno della sua decisione scrisse ancora “Siccome la legge è formola di precetto generale destinata a governare i bisogni e le contingenze della vita sociale per un tempo illimitato”…essa “non si cristallizza in una forma iniziale sempre irriducibile, ma vive la vita stessa della civiltà ed è animata dallo spirito di questa. Indagare il significato, dichiararne l’intenzione, è compito del magistrato nel tempo in cui sorge la controversia”.

La sentenza ebbe un eco incredibile nella Nazione e nell’opinione pubblica, fu attaccata in particolare da Vittorio Emanuele Orlando e venne poi annullata in Cassazione il 4 dicembre 1906. Lo scontro tra Mortara ed Orlando però si limitò all’utilizzo del metodo interpretativo delle norme Albertine, infatti tutto si ridusse ad un problema di interpretazione della legge di cui il Mortara diede la più avanzata possibile, bocciata poi dal sistema giudiziario. La sua sentenza aveva fatto compiere un balzo in avanti allo Stato Italiano che si arrestò immediatamente e le donne dovettero attendere altri quaranta anni prima di poter ottenere il diritto di voto.

Per Mortara le occasioni per affrontare la tutela dei diritti civili delle donne non si esaurirono con la citata sentenza. Difatti divenuto Senatore nella XXIV legislatura fu nominato commissario per la riforma del regolamento giudiziario del Senato e fece parte della commissione che si doveva occupare del disegno di legge sulla capacità giuridica della donna. Subito dopo divenne ministro della Giustizia (23 giugno 1919) con il governo Nitti. Va ascritto a loro l’iniziativa parlamentare che sfociò, il 17 luglio 1919 nella legge abrogratrice dell’autorizzazione maritale (legge N. 1176) che segnò un passo importante nel lungo cammino dell’emancipazione femminile.

In detta legge, oltre alla eliminazione della autorizzazione maritale, vi fu anche il riconoscimento della capacità giuridica e professionale delle donne. L’articolo 7 prevedeva “Le donne sono ammesse, a pari titolo degli uomini ad esercitare tutte le professioni ed a coprire tutti gli impieghi pubblici escluso soltanto se non vi sono ammesse espressamente dalle leggi, quelli che implicano poteri pubblici giurisdizionali o l’esercizio di diritti di potestà pubbliche o che attengono alla difesa militare dello Stato secondo la specificazione che sarà fatta con apposito regolamento”. (Regolamento che stabiliva quali erano le professioni interdette tra cui anche… Prefetto, Ministro, diplomatico, magistrato, ufficiale giudiziario, cancelliere).

Il Mortara considerò detta legge “un esperimento di libertà” anche se restò scettico e continuò a non essere paladino della emancipazione delle donne. Da procuratore generale era stato contrario all’ingresso delle donne nell’avvocatura anche se aveva precisato “la questione non è di capacità ma di opportunità”. Infatti egli era sicuramente convinto della giustizia di parificare lo stato giuridico e politico dei “due sessi” ma riteneva che il fine doveva essere raggiunto mediante una serie di riforme progressive del diritto positivo vigente delle quali la meno urgente è quella delle donne avvocato. A suo avviso l’ingresso delle donne nelle aule di giustizia avrebbero prodotto uno specie di parapiglia a causa dell’eccessivo numero di professionisti maschi! Avrebbe preferito attendere una riforma organica della professione legale. La legge, proposta dalla Commissione legislativa del Senato, di cui il Mortara era componente, di fatto determina una svolta nella uguaglianza tra uomo e donna, anche se purtroppo tale percorso sarà completato solo nel 1960 con una sentenza (Corte Costituzionale – pres. Azzariti n. 33) che rimuoverà i divieti contenuti nell’art. 7.

Ritornando al discorso iniziale, leggendo questa bella biografia concordo con l’autore che se si dovesse condensare in un solo termine l’obiettivo di tutte le azioni prodotte dal Mortara, quale professore, avvocato, magistrato e politico questo sarebbe “la Giustizia” accompagnata dalla reale tutela dei diritti dei cittadini questi ultimi espressi dal riconoscimento del diritto di voto alle donne. Il suo rigore scientifico gli consentì, forse suo malgrado, di essere un innovatore e tracciare un solco di tutela dei diritti avulso da preconcetti e da consuetudini, dall’utilizzo della c.d. legge della natura, artificiosa creazione che all’epoca era utilizzata per regolare le scelte umane, individuali e collettive di cui erano intessuti i testi giuridici dell’epoca.

In conclusione due eventi apparentemente distanti tra loro ma riconducibili entrambi al Mortara, ovvero voto alle donne che corrispondeva al riconoscimento della possibilità di smantellare il dominio dell’elettorato maschile alfabetizzato e provvisto di censo per un verso e l’eliminazione della potestà maritale ovvero eliminazione del divieto di esercitare una libera professione furono i primi segnali inequivocabili dell’ammissione di un’uguaglianza, parziale, incompleta, formale ma finalmente riconosciuta.


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