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La scelta, per l’occasione, del "lavoro da remoto” come oggetto del presente intervento non è casuale.
Si tratta, infatti, della fattispecie lavorativa (intendo qualificarla proprio così: fattispecie) che meglio di altre, come mi sembra, può prestarsi a rappresentare un utile termine di raffronto in merito al tema della odierna occasione di incontro e confronto, in memoria di Giuseppe Santoro Passarelli: quei due fondamentali e contrapposti concetti alla base dell’intera architettura del diritto del lavoro – subordinazione e autonomia –, il cui dialettico rapporto non da oggi può considerarsi versare in una situazione critica.
Il richiamo alla terminologia anglosassone – remote working –, piuttosto che quella “istituzionale” e normata di “lavoro agile”, è voluta. Mi sembra, infatti, che quell’espressione, specie dopo la particolare, diffusa esperienza fatta durante l’emergenza per pandemia da coronavirus, maggiormente si presti ad abbracciare le rimarchevoli potenzialità di quella modalità lavorativa, anche in ordine a quanto oggi sottintende il riferimento a quella dicotomia.
Naturalmente tratterò il tema solo in modo schematico e nella limitata suddetta prospettiva, nel doveroso rispetto delle caratteristiche della presente occasione di riflessione. Mi limiterò pertanto a sottolineare alcuni aspetti che, più di altri, mi sembrano rilevanti, entro certi limiti privilegiando, per rendere l’idea, la via breve della suggestione, piuttosto che quella dell’argomentazione.
E vorrei partire proprio da alcune riflessioni di Giuseppe Santoro Passarelli, sul valore assoluto della dignità dell’uomo lavoratore, che si impone come tale anche a fronte delle logiche economiche.
Il valore attorno al quale ruota la legge fondamentale del nostro paese; ma anche il valore che nella pratica applicativa (e normativa) risulta essere stato avvertito e coltivato in un ben identificabile periodo della nostra storia, e che oggi, viceversa, appare particolarmente bisognevole di essere rinverdito.
2. “Dignità e salute del lavoratore sono valori non negoziabili (…), non sono comprimibili dalla legge del mercato, o se si preferisce dalla logica del contemperamento”.
Queste le testuali parole che si possono leggere nella relazione intitolata “Solidarietà, precarietà del lavoro e dignità del lavoratore”, che Pino ha svolto (seppur da remoto) nel Convegno nazionale del Centro studi Domenico Napoletano, tenutosi a Taormina nell’ottobre di due anni fa.
Il tema era “Tutele del lavoro ed esigenze dell’impresa”, e con tale intervento Pino ha preso posi- zione, e molto nettamente, su una questione assai scottante e controversa, di grande attualità, ma, soprattutto, di assai importanti implicazioni pratiche e concettuali: quella delle caratteristiche del rapporto che intercorre tra i valori di rilevanza costituzionale, considerati nelle reciproche interrelazioni.
Come sappiamo, a fronte di una giurisprudenza costituzionale orientata al principio della pari ordinazione dei valori costituzionali, e quindi alla logica del bilanciamento – o del contemperamento, che dir si voglia – nelle situazioni in cui alcuni di quei valori vengano occasionalmente a trovarsi in reciproco conflitto, si contrappone una concezione (che, al momento, può definirsi minoritaria): quella che assume, nell’ambito di quei valori, ve ne sono alcuni che non sono negoziabili, in quanto presidiano un’area che va preservata nella sua integrità e interezza; pena la loro stessa inevitabile mortificazione, o, se vogliamo usare parole crude, il loro tradimento.
Ed è, appunto, a favore di quest’ultima concezione che il Nostro si è pronunciato, nel sostenere che “dignità e salute del lavoratore” rappresentano “diritti non negoziabili”. Non gli unici, e tanto meno “diritti tiranni” (per far riferimento a una terminologia che si presta a essere utilizzata anche a discredito di quella minoritaria concezione); ma, appunto, valori (essenzialmente presidiati dagli artt. 2, 3 comma 2, 4, 9, 32, 38 Cost.), che la logica del contemperamento priverebbe di “alcuna autonoma rilevanza normativa” – sono le sue parole –, di fatto ponendoli al livello di “semplici dichiarazioni pro- grammatiche”, e rendendoli succubi delle “ragioni della concorrenza (le quali) giustificano la riduzione dei costi non solo economici, ma anche normativi della relazione di lavoro (…)”, e, dunque, rendono precaria la stessa tutela della “dignità del lavoratore”.
3. È proprio muovendo da siffatte considerazioni che il “lavoro da remoto” può fornire utili spunti di riflessione proprio in relazione al tema prescelto per l’odierna occasione celebrativa. Non è nelle mie intenzioni soffermarmi sulla disciplina dettata dalla legge n. 81 del 2017. Salvo sottolineare come il ricorso al “lavoro a distanza” in forme derogatorie della disciplina dettata da quella legge, e su larga scala, per fronteggiare l’emergenza da epidemia di coronavirus (e per questo comunemente identificato con la denominazione di home working, a segnalarne le differenze con lo smart working), abbia rappresentato un’esperienza sostanzialmente positiva.
Oggi, superata l’emergenza, ci si può chiedere se sia veramente azzardato ipotizzare che quel lavoro da remoto, o home working, finora considerato semplice “modalità del rapporto” abbia la concreta possibilità di assumere la veste di qualcosa di più incisivo all’interno del sistema delle relazioni di lavoro.
4. Per poter adeguatamente affrontare tale questione, non si può prescindere dagli ammaestramenti ricavabili al proposito dalla pur drammatica e dolorosa vicenda. In effetti, va preso atto che la pandemia è stata l’occasione che ha consentito di verificare in concreto le potenzialità del lavoro a distanza, che la legge n. 81 del 2017 nei fatti ha colto solo parzialmente.
Non è facile fare pronostici in questa delicatissima e instabile materia. Ma appare molto più probabile una sorta di sedimentazione del processo avviato nel periodo della pandemia, anziché un ritorno massiccio (e ottuso) allo stato precedente; e, dunque, la prospettiva di una germinazione, dall’esperienza fatta, di una disciplina elastica, che si presti ad una trasformazione calibrata sulle esigenze evidenziate dalla surricordata situazione emergenziale, ma non per questo da considerare necessariamente “effimera”.
Quella vicenda, in effetti – non si può non prenderne atto –, ha aperto nuovi scenari; il che invita a guardare con occhi diversi anche alcuni aspetti della disciplina dettata dalla legge sul lavoro agile: specialmente gli aspetti che attengano alla tutela della sicurezza e della salute lavoratore.
5. Opportuno, a questo punto, qualche breve richiamo agli obblighi di sicurezza del datore di lavoro, ai sensi dell’art. 22, legge n. 81 del 2017.
L’obbligo di sicurezza non si esaurisce nella consegna dell’informativa di cui a detta norma: consegnare, “con cadenza almeno annuale un’informativa scritta nella quale sono identificati i rischi generali e i rischi specifici connessi alla particolare modalità di esecuzione del rapporto di lavoro” (comma 1).
Come già si può ricavare dal secondo comma di quel medesimo articolo, l’obbligo di cooperazione, che al proposito grava sul lavoratore rivela, la maggior ampiezza di quell’obbligazione: “fronteggiare i rischi connessi all’esecuzione della prestazione all’esterno dei locali aziendali”, è l’espressione che il legislatore utilizza.
Altrettanto si può ricavare dai principi dell’Unione europea, intesi addirittura ad implementare l’obbligo di sicurezza, quando in questione sia l’attività di lavoro non standard.
E altrettanto, naturalmente, dalla Costituzione: non solo per quanto in merito si ricava dall’art. 32 Cost., ma anche per quanto si ricava dal limite all’iniziativa economica che pone il secondo comma dell’art. 41 quando quell’attività possa “recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.
6. L’impossibilità da parte dell’imprenditore di svolgere un controllo costante tramite l’organizzazione produttiva e il proprio personale ordinario, o tramite il servizio di prevenzione, riduce la responsabilità datoriale, com’è ovvio, per la violazione delle norme in tema di sicurezza: inutile sottolineare come, una volta effettuata la scelta del lavoro da remoto, sarebbe del tutto irrealistico pretendere di imporre all’imprenditore obblighi specifici di verifica preventiva sui requisiti di idoneità dei locali di fatto adibiti dal lavoratore allo svolgimento dell’attività a lui commessa, o sull’adeguatezza degli impianti, o sulle condizioni igienico ambientali e così via.
Piuttosto, è l’obbligo di collaborazione del lavoratore, che acquisisce un significato prevalente. Anzi si può assumere che si possano dare casi in cui l’adozione in concreto delle misure di sicurezza prescritte possa finire per essere legata in via esclusiva al comportamento del lavoratore; con quanto ne consegue in termini di esonero del datore da ogni responsabilità in merito.
Il che significa – la circostanza va sottolineata – che in questo caso si prospetterebbe una significativa deviazione rispetto ai principi generali. Il datore di lavoro resta sgravato, di fatto, di un’obbligazione parte del sinallagma contrattuale stesso, qual è quella di cui all’art. 2087 c.c. (e relative norme speciali): con le implicazioni pratiche e concettuali che si possono intuire, proprio perché l’obbligazione di sicurezza rappresenta, insieme alla retribuzione, il corrispettivo della prestazione lavorativa.
In tal quadro (salvo i casi di comportamenti del tutto abnormi del lavoratore) gli effetti dannosi della mancata adozione di adeguate misure di prevenzione potrebbe essere ricondotta alla responsabilità datoriale soltanto secondo criteri di vera e propria responsabilità oggettiva.
Il che richiamerebbe prospettive e problematiche già note ma in un settore diverso: precisamente, quello che ha preceduto alla fine del XIX secolo l’introduzione dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro.
Quanto sopra vale anche a sottolineare, peraltro, che, comunque sia, l’attività di chi lavora non può svolgersi se capita a quella dignità già ricordata in apertura di intervento. Il che significa che quel valore (comprensivo della tutela della salute) dovrà comunque trovare soddisfazione e tutela, e con pari aspettative di “effettività”, seppure attraverso altre vie, quali che esse siano.
7. Altro aspetto cruciale è quello che attiene all’esercizio del potere direttivo.
Un potere direttivo e di controllo, che indubbiamente, a fronte dell’ipotetico quadro testé delineato, non avrebbe alcuna possibilità di svolgersi secondo le modalità ordinarie, quali quelle che possono darsi quando non vi sia separazione fisica tra l’Azienda e lavoratore.
Un potere che, tuttavia, non può non essere esercitato, quando la prestazione richiesta sia parte essenziale della struttura produttiva e dell’attività imprenditoriale. È verosimile allora che, a fronte di detto dilemma, altrettanto inevitabilmente l’intervento del potere direttivo possa finire per indirizzarsi nei confronti del lavoratore, come se questi, piuttosto che tenuto ad un’obbligazione di mezzi, fosse tenuto a un’obbligazione di risultato.
Il che ha delle implicazioni di carattere generale troppo evidenti perché occorra che su di esse ci si soffermi. Il fatto è che la funzione riconoscibile al lavoro da remoto – se vogliamo, ad un ipotetico lavoro agile, rivisitato sulla base dell’esperienza della pandemia – rimanda a processi di innovazione (produttiva, tecnologica, organizzativa) i quali, come da più parti è stato ripetutamente sottolineato, presuppongono non soltanto la specifica, diversa, modalità di svolgimento dell’attività lavorativa, ma anche e soprattutto un modo diverso di essere del lavoratore stesso, come riflesso del suo inserimento in contesti e ambienti tecnologicamente avanzati: qualcosa, cioè, del tutto diverso dalla piatta riproduzione in ambiente domestico del lavoro altrimenti da svolgere in ufficio.
8. In conclusione, l’emergenza ha consentito di fare, in merito a quella specifica modalità lavorativa, che qui si considera, un’esperienza particolare e nuova: un’esperienza che ha aperto scenari ancora non tutti ben definiti, ma potenzialmente rivoluzionari.
La separazione fisica tra lavoratore e azienda è suscettibile di comportare, nella prospettiva suindicata, un’indefinita serie di conseguenze che in gran parte trascendono lo stesso rapporto di lavoro, in quanto destinate a interessare (alcune in positivo, altre in negativo) in primis la stessa organizzazione dell’attività produttiva ma, in generale, anche la stessa vita sociale, in particolare nei settori della redistribuzione degli spazi cittadini, della riorganizzazione di alcuni servizi (quelli del trasporto in particolare), della tutela in generale dell’ambiente, inteso nella dimensione “apicale” che esso ha assunto dopo la recente novellazione dell’art. 9 Cost.
Potenzialità che risultano ancora in massima parte da esplorare o da sperimentare, ma che, comunque, non possono essere ignorate. Invero, esse risultano apprezzabili quanto meno nella loro attitudine a rendere “tangibile” quanto la tradizionale contrapposizione tra i concetti di subordinazione e autonomia – che ha assorbito in larga parte la storia stessa della materia del lavoro e della sicurezza sociale, e tuttora ne affatica l’elaborazione – sia destinata a non occupare più la centralità di quella storia o quanto meno, a dover rassegnarsi a condividere la scena con nuovi protagonisti.
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