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Sommario: 1. Il nuovo DM in materia di specializzazioni dell’avvocato. – 2. Le ragioni del fenomeno: la specializzazione come dinamica intrinseca all’espansione dell’area della giurisdizione nelle democrazie pluralistiche. – 3. La specializzazione dell’avvocato e i suoi riferimenti costituzionali: diritto di difesa e dovere di competenza. – 4. La specializzazione come diritto; la libertà professionale dell’avvocato. – 5. Specializzazione e dinamiche concorrenziali. – 6. I nodi cruciali: settori ed indirizzi di specializzazione; il colloquio di verifica della comprovata esperienza. – 7. I soggetti: Università, Ordini e associazioni specialistiche.
1. Il nuovo DM in materia di specializzazioni dell’avvocato.
La pubblicazione in gazzetta ufficiale delle nuove norme in materia di specializzazioni dell’avvocato (DM giustizia n. 163 del 1° ottobre 2020, pubblicato in G.U. n. 308 del 12 dicembre 2020) sblocca l’impasse determinata dalla giurisprudenza che, alcuni anni or sono, aveva di fatto paralizzato una delle innovazioni più significative del nuovo ordinamento forense. La mannaia del giudice amministrativo si era abbattuta su alcuni aspetti centrali della disciplina introdotta con il precedente DM giustizia 12 agosto 2015, n. 144 rendendola di fatto inapplicabile, ed in particolare sull’individuazione dei settori di specializzazione, e sulla disciplina del colloquio diretto ad accertare la comprovata esperienza che consente l’attribuzione del titolo anche senza la proficua frequenza del corso di specializzazione. Il Consiglio di Stato aveva infatti confermato nella sostanza le indicazioni già fornite dal Giudice di primo grado, per il quale i settori di specializzazione sembravano individuati al di fuori di una vera e propria logica organica, non corrispondendo alla ripartizione dei riti applicabili alle controversie, o ad altri criteri altrimenti determinabili: con la conseguenza della “impossibilità di ricostruire il criterio ordinatore dei settori di specializzazione contenuti nel 1 Per una ricognizione delle novità più rilevanti introdotte dalla legge 247 del 2012, sia consentito rinviare a G. Colavitti, G. Gambogi (a cura di), Riforma forense, Giuffré, Milano 2013. regolamento”. La genericità e l’indeterminatezza dei contenuti e delle forme sono stati i vizi che hanno invece colpito la disciplina del colloquio di verifica della comprovata esperienza, anche se non è caduta l’attribuzione al Consiglio nazionale forense di tale competenza, che resta “uno dei capisaldi” del sistema voluto direttamente dal legislatore. Il DM pubblicato a dicembre 2020 interviene dunque innanzi tutto su questi due aspetti, riformulando completamente il sistema dei titoli, e riempendo di contenuti l’istituto del colloquio sulla comprovata esperienza, al fine di evitare rischi di “deleghe in bianco”. La tecnica dell’intervento normativo è quella delle modifiche del DM previgente, che dunque resta confermato nel suo impianto complessivo, a partire dal doppio canale di accesso al titolo, secondo peraltro quanto imposto dall’art. 9 della legge 247 del 2012, che costituisce la base legale della fonte qui esaminata. Ma andiamo con ordine.
2. Le ragioni del fenomeno: la specializzazione come dinamica intrinseca all’espansione dell’area della giurisdizione nelle democrazie pluralistiche. Dell’avvocato specialista si parla invero da tempo, come di una tendenza che ha avuto evidentemente sviluppo ed origine nei fatti prima ancora che nelle norme. Anzi, per certi versi, si potrebbe parlare di una tendenza sviluppatasi anche nonostante le norme: pochi ricordano che il “vecchio” ordinamento forense (RDL 1578/1933) recava una norma che escludeva espressamente l’istituto delle specializzazioni per l’avvocato e il procuratore legale. Ed alcuni anni or sono il Consiglio nazionale forense tentò financo di avviare una specializzazione della professione in via autonoma, che cadde per effetto di una severa decisione del giudice amministrativo mo- 2 Consiglio di Stato, sez. IV, 28 novembre 2017, n. 5575, par. 9.6. 3 Consiglio di Stato, cit., par. 10.3.3. 4 L’art. 91 del RDL 1578/1933 disponeva: “Alle professioni di avvocato e di procuratore non si applicano le norme che disciplinano la qualifica di specialista nei vari rami di esercizio professionale”. La preclusione è stata ricordata lo scorso 21 gennaio 2021 in un webinar fiorentino da un attento conoscitore della professione forense e delle sue dinamiche, Sergio Paparo. di Giuseppe Colavitti La nuova disciplina dell’avvocato specialista AVVOCATURA 1/2021 GENNAIO-APRILE tivata dalla carenza di base legale del regolamento CNF 45 approvato nel settembre del 2010.
Vale pertanto la pena interrogarsi sulle ragioni del fenomeno, che, ad avviso di chi scrive, si intreccia inevitabilmente con il tema della specializzazione del giudice, materia sulla quale esiste una pubblicistica invero più ampia e risalente, giacché la questione presenta tono propriamente costituzionale: l’art. 102, 2° comma, Cost. vieta infatti l’istituzione di giudici speciali e consente l’istituzione di sezioni specializzate “presso gli organi giudiziari ordinari (…) per determinate materie”. Seppur permanga anche a livello teorico una certa difficoltà di demarcazione tra la nozione di giudice speciale e quella di giudice specializzato – in relazione alla preferenza accordata, quale criterio discretivo, alla materia o piuttosto alla composizione dell’organo giudicante – sembra che il tema della specializzazione degli operatori del diritto (sia giudici che avvocati) vada inquadrato nel più generale contesto dell’evoluzione della funzione giudiziaria nelle democrazie pluralistiche contemporanee, segnata da una forte espansione dell’area della giurisdizione. Il primo rilievo problematico da evidenziare, cioè, è quello del collegamento dell’esigenza di specializzazione con la condizione in forza della quale il giudice è sempre più spesso chiamato ad allargare la sua cognizione ad ambiti e materie prima a lui estranei, a sistemi relazionali che fino a non troppo tempo fa trovavano dei circuiti autonomi (più o meno efficienti) di risoluzione delle controversie. Si pensi alle relazioni industriali, per molti decenni rimaste fuori dall’area della giurisdizione, dove gli interessi contrapposti del capitale e del lavoro trovavano sintesi ed equilibri per lo più sulla base dei rispettivi rapporti di forza sociale, sindacale o politica. Non da oggi il giudice italiano conosce non solo del singolo rapporto di lavoro e della sua patologia, ma anche del conflitto di classe: lo Statuto dei lavoratori prevede infatti all’art. 28 l’azione di repressione della condotta antisindacale, per cui, di fronte ad un comportamento del datore di lavoro diretto a impedire o a limitare l’esercizio della libertà e dell’attività 5 Tar Lazio, 9 giugno 2011, n. 5151. 6 Cfr. A. Poggi, Art. 102, in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti, Commentario alla Costituzione, III vol., UTET 2006, 1968 ss.. sindacale o del diritto di sciopero, gli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali possono proporre ricorso all’autorità giudiziaria, per chiedere la cessazione del contegno illegittimo e/o la rimozione dei suoi effetti. È evidente che in un simile caso il giudice non può più essere il freddo burocrate che asetticamente effettua la sussunzione del fatto al diritto, verificando la riconducibilità della fattispecie concreta alla fattispecie astratta, e applicando la conseguenza normativamente prevista. In casi simili il giudice deve affiancare alla pur necessaria conoscenza del diritto oggettivo la prudente attitudine all’interpretazione di situazioni complesse, la capacità di leggere e capire le dinamiche delle relazioni collettive sulle quali la sua decisione è destinata ad influire, fino forse addirittura a sviluppare una certa qual sensibilità “politica”, nel senso migliore del termine. Non a caso altri ordinamenti giuridici configurano il giudice del lavoro come un organo collegiale a composizione mista, togata e non, integrato da rappresentanti degli interessi collettivi coinvolti: in Svezia, il tribunale del lavoro, denominato Arbetsdomstolen, è appunto “composto sia da membri che rappresentano gli interessi dei datori di lavoro e dei dipendenti, sia da giudici professionisti”. Per passare ad altro ambito, si pensi al contesto del diritto familiare: mentre un tempo tali aree restavano regolate dalle tradizioni e dalle consuetudini private, ed il cd. ius corrigendi rimaneva escluso dalla cognizione del giudice, oggi il giudice conosce dei sistemi educativi posti in essere dai genitori, e ne valuta la congruità rispetto all’interesse della prole, fino anche alla possibilità di assumere provvedimenti estremi che colpiscono la potestà genitoriale. È evidentemente impensabile che questo accada senza che il magistrato sviluppi competenze settoriali specifiche, ed anzi sarebbe senz’altro opportuno che questi avesse almeno taluni rudimenti di psicologia dell’età evolutiva. In Francia, a proposito dell’applicazione giudiziale della legge sul divorzio, un acuto osservatore ha utilizzato emblematicamente l’immagine del ménage à trois (A. Garapon). In ogni caso, è ragionevole supporre che l’espansione della giurisdizione, la crescita dimensionale del diritto oggettivo nazionale e sovranazionale, la dispersione e la moltiplicazione del sistema delle fonti, nonché la emersione di ambiti materiali specialistici sempre più sofisticati richiedano sempre più spesso un giurista che affianchi a solide basi di conoscenza generale dell’ordinamento talune competenze specifiche peculiari, a volte anche intrecciate a saperi di carattere extragiuridico, onde sia possibile assumere una decisione giudiziale dopo aver acquisito elementi provenienti da altre scienze, superando se necessario i confini (peraltro sempre meno armonici) del mondo del diritto.
Da qui l’ineluttabilità del processo di tendenza, peraltro in atto in molti paesi, verso la progressiva specializzazione del giudice, cioè verso l’acquisizione di saperi specifici che conferiscano al primo interprete della legge il possesso degli strumenti culturali per leggere la realtà di casi di specie sempre più complessi.
Il fenomeno non è peraltro privo di criticità e di implicazioni problematiche. Basti pensare all’istituzione del tribunale delle imprese in Italia, avvenuta negli ultimi anni sulla spinta delle forti pressioni delle rappresentanze del mondo imprenditoriale, ed ai connessi rischi di dar vita a circuiti giudiziari per cosi dire di “serie A”, più specializzati e capaci di risolvere le controversie in tempi rapidi, e circuiti giudiziari di “serie B”, dove invece le cause del quisque de populo rischiano di languire a tempo indeterminato nei meandri di una burocrazia sempre più inefficiente. Il vero nodo consiste dunque nel rischio della costituzione di una sorta di “aristocrazia giudiziaria” basata sul possesso di saperi specifici, esclusivi ed escludenti. Se è vero, come ha evidenziato Michel Foucault, che “il sistema del diritto e il campo giudiziario sono i tramiti permanenti di rapporti di dominazione e di tecniche di assoggettamento polimor-fi”, e che dunque il mondo del diritto e l’amministrazione della giustizia sono sempre stati e continuano ad essere luoghi di esercizio di potere, e financo di potere sovrano, l’osservatore consapevole non può evitare di interrogarsi sul profilo di elitarismo e di chiusura che ogni rivendicazione di sapere specifico indubbiamente presenta.
Nonostante ciò, l’espansione dell’area della giurisdizione non può non essere accolta come un fenomeno nel suo complesso positivo. Seppur porti con sé certamente numerose ed irrisolte questioni problematiche, non ultima il protagonismo mediatico di taluni giudici (A. Pizzorno), tale espansione è il riflesso della espansione dei diritti soggettivi e delle altre situazioni giuridiche soggettive protette dall’ordinamento, e rappresenta pertanto un segno di civiltà giuridica. Attorno al cittadino, anzi attorno alla persona, lo Stato costituzionale contemporaneo costruisce un complesso reticolo di posizioni giuridiche e di interessi tutelati che, interagendo con gli interessi degli altri consociati e con gli interessi pubblici, aumenta enormemente il rischio di “patologie” nelle relazioni giuridiche intrattenute. È insomma il generale assetto dello status civitatis, la cittadinanza complessivamente intesa a comportare l’espansione della “giustiziabilità” dei rapporti intersoggettivi, che sempre più di frequente sfociano in una lite, cioè in una posizione di contrasto di due o più soggetti rispetto ad un diritto, contrasto che appunto sussiste in quanto viene predicata una certa lesione di una situazione soggettiva, e che reclama pertanto l’intervento satisfattivo dell’organo giurisdizionale (F. Carnelutti). Se tutto questo accade alla giurisdizione, non è pensabile che l’avvocato ne resti fuori. Volente o nolente.
3. La specializzazione dell’avvocato e i suoi riferimenti costituzionali: diritto di difesa e dovere di competenza.
Ed infatti l’avvocatura non è rimasta fuori dal processo di trasformazione del sistema giurisdizionale in senso specialistico. Da molto tempo operano associazioni forensi di settore che promuovono tale processo, ed indubbiamente in alcune aree del Paese il mestiere dell’avvocato già da qualche tempo si differenzia fortemente a seconda delle materie di esercizio, di talché molti iscritti negli albi esercitano quasi esclusivamente solo di fronte a talune istanze giudiziarie, e solo in determinati ambiti. Con il nuovo ordinamento forense, le specializzazioni dell’avvocato diventano istituto di diritto positivo, la cui base legale diretta è costituita dall’art. 9 della legge 31 dicembre 2012, n. 247.
Se, come detto, la specializzazione del giudice trova un chiaro aggancio nell’art. 102 Cost., quella dell’avvocato non è tuttavia priva di riferimenti di ordine propriamente costituzionale. È noto che quella di avvocato è l’unica libera professione espressamente menzionata nella Costituzione; è del pari noto che nell’art. 24 Cost., cioè nella norma che proclama l’inviolabilità del diritto di difesa in ogni grado e stato del procedimento, è senz’altro ricompreso il diritto di tutti (cittadini e non cittadini) ad una “difesa tecnica”, cioè all’assistenza ed alla difesa di un avvocato, come precisato dal giudice delle leggi fin dai primissimi anni di attività (Corte cost., 8 marzo 1957, n. 46). Il diritto alla difesa tecnica consiste infatti proprio nel diritto di essere difeso non da chiunque, non da un patrono qualsiasi magari privo di competenze giuridiche, bensì da un avvocato, cioè da un professionista del diritto che ha superato un esame di Stato (art. 33, comma 5, Cost.) ed è iscritto in un albo, da un giurista pienamente padrone del diritto sostanziale e processuale applicabile alla vicenda giudiziaria che segue nell’interesse esclusivo dell’assi stito. Perché la difesa sia effettiva, in buona sostanza, occorre che sia una difesa competente. Al diritto alla difesa tecnica si connette dunque il dovere di competenza dell’avvocato, che la giurisprudenza disciplinare ha elaborato da tempo come contenuto qualificante dell’identità culturale e professionale degli iscritti negli albi forensi, fino alla codificazione espressa tra i principi generali del codice deontologico, prima nell’art. 12, oggi nell’art. 14 del vigente cdf. In base all’art. 14, cdf, “L’avvocato, al fine di assicurare la qualità delle prestazioni professionali, non deve accettare incarichi che non sia in grado di svolgere con adeguata competenza”. Strettamente collegato al dovere di competenza, quello di aggiornamento professionale e di formazione continua (art. 15, cdf), in base al quale “L’avvocato deve curare costantemente la preparazione professionale, conservando e accrescendo le conoscenze con particolare riferimento ai settori di specializzazione e a quelli di attività prevalente”. Il diritto fondamentale dell’assistito ad una difesa tecnica qualificata e proporzionatamente adeguata alla complessità del caso che lo riguarda si correla dunque ad un preciso dovere giuridico dell’avvocato, quello di non prestare la propria opera laddove ritenga, in scienza e coscienza, di non essere completamente padrone del caso; del pari l’avvocato ha il dovere di mantenere i livelli di competenza raggiunti e di accrescerli, se necessario, al fine di offrire sempre una prestazione professionale di qualità. Assai significativo che il codice deontologico declini il dovere di formazione continua proprio con “particolare riferimento ai settori di specializzazione”, oltre che a quelli di attività prevalente. E ciò non a tutela del prestigio della professione, ma “a tutela della collettività”, in quanto tali doveri garantiscono “la qualità e la competenza dell’iscritto all’albo ai fini del concorso degli avvocati al corretto svolgimento della funzione giurisdizionale” (Cons. naz. Forense 30 dicembre 2012, n. 231); “il riferimento all’’adeguata competenza’ contenuto nell’art. 12 (oggi 14, ndr) del cdf consente una valutazione della capacità sostanziale usata dal professionista nei confronti del cliente” (Cons. naz. Forense 30 aprile 2012, n. 89).
Dal dovere di competenza alla specializzazione, il passo è molto breve.
Se l’incarico richiede un avvocato sufficientemente specializzato, la norma deontologica – e non la mera opportunità ed il buon senso – impone che si astenga dall’assumere la difesa un avvocato non specializzato. Il regolamento prevede fin dalla sua originaria formulazione non a caso che possa essere iscritto negli elenchi degli avvocati specialisti l’avvocato “che non ha riportato, nei tre anni precedenti la presentazione della domanda, una sanzione disciplinare definitiva, diversa dall’avvertimento, conseguente ad un comportamento realizzato in violazione del dovere di competenza o di aggiornamento professionale” (art. 6, comma 2, lett. b, DM giustizia cit.).
4. La specializzazione come diritto; la libertà professionale dell’avvocato.
La valorizzazione dei profili di responsabilità che incombono sull’avvocato in relazione al dovere di competenza non deve peraltro impedire di cogliere nella specializzazione l’oggetto di una posizione giuridica attiva dell’iscritto all’albo, pienamente ricollegabile – ad avviso di chi scrive – al diritto di libertà professionale. Con questa espressione si intende richiamare il diritto dell’avvocato di esercitare la professione in libertà ed autonomia, in piena indipendenza dai poteri pubblici e privati, diritto protetto e garantito al massimo livello delle fonti europee, e cioè dall’art. 15 della Carta europea dei diritti fondamentali, assunta, dopo il Trattato di Lisbona (2009), allo stesso rango dei Trattati dell’Unione europea14. Non è questa la sede per addentrarci ulteriormente nel terreno affascinante della relazione preziosa, giuridicamente e storicamente consolidata, tra libertà professionale dell’avvocato e dell’avvocatura da un lato, e sviluppo e crescita delle dinamiche democratiche dall’altro. Basti qui ricordare il ruolo dell’Avvocatura tunisina nella caduta del regime autoritario di Ben Alì, il conferimento del Premio Nobel per la Pace all’Ordine degli avvocati tunisini, insieme ad altri soggetti della società civile riuniti nel cd. “quartetto”, e l’art. 105 della Costituzione tunisina del 2014, in base al quale “La professione di avvocato è una professione libera e indipendente, che partecipa alla realizzazione della giustizia ed alla difesa dei diritti e delle libertà. L’avvocato beneficia delle garanzie della legge che gli assicurano una protezione e gli permettono l’esercizio delle sue funzioni” (traduzione libera dell’Autore).
Vista nell’ottica della libertà professionale, quello alla specializzazione può essere considerato il diritto proprio di ciascun avvocato non solo di scegliere il campo di attività prevalente ma anche di raggiungere e mantenere in quel campo una particolare soglia di competenza superiore a quella della generalità degli iscritti nell’albo, nonché il diritto a che l’ordinamento riconosca e tuteli giuridicamente tale soglia di competenza specialistica. L’art. 9 della legge 247 sembra confermare tale tesi laddove, al primo comma, afferma appunto che “è riconosciuta agli avvocati la possibilità di ottenere e indicare il titolo di specialista”. L’uso del verbo “riconoscere” non può considerarsi casuale: è il verbo con cui il diritto pubblico, e quello costituzionale in particolare, intendono riferirsi a realtà giuridiche che l’ordinamento non fonda o istituisce, bensì trova nella realtà materiale e, più semplicemente, appunto “riconosce”. È il verbo con cui la tradizione si riferisce ad esempio ai cd diritti naturali… Ma non addentriamoci oltre. Basti qui osservare che, nelle tradizioni costituzionali comuni europee, la libertà professionale include sicuramente il diritto di piena autodeterminazione del singolo nello scegliere il luogo e la forma del proprio percorso di formazione e qualificazione, e cioè il diritto di scegliere liberamente il proprio profilo culturale e professionale specifico, come insegna l’art. 12 del Grundgesetz (la legge fondamentale tedesca).
5. Specializzazione e dinamiche concorrenziali.
“È riconosciuta agli avvocati la possibilità di ottenere e indicare il titolo di specialista”, recita come detto l’art. 9, l. 247 cit.
Si tratta appunto di una possibilità ulteriore riconosciuta agli iscritti nell’albo, che “non comporta riserve di attività professionale” (art. 9, comma. 7, l. cit.). È presumibile ritenere che il nuovo istituto si affermi progressivamente e si sviluppi in alcune parti d’Italia, come in alcuni settori del mercato dei servizi legali, e resti invece recessivo e poco praticato in altre. Questo è nella logica di un meccanismo appunto opzionale, che non autorizza alcuna segmentazione degli albi e/o limitazio-ne del patrocinio. È peraltro possibile che, se l’istituto 49 prenderà piede, gli elenchi di avvocati specialisti annessi all’albo potranno assumere una valenza significativa, almeno in punto di fatto, o comunque giocare un ruolo non marginale nel conferimento degli incarichi professionali, specialmente dal lato dei committenti pubblici. Sul piano motivazionale, infatti, la scelta di un avvocato iscritto ad esempio nell’elenco degli specialisti in diritto amministrativo potrebbe essere più plausibile rispetto alla scelta di un avvocato iscritto ad altro elenco o semplicemente iscritto all’albo, se ad esempio il cliente è un ente pubblico che deve difendersi dall’impugnativa al TAR di un proprio atto. Viceversa, seppur alcun obbligo in questo senso possa ravvisarsi senza espressa previsione normativa, potrebbe essere ritenuta gravata da un onere motivazionale superiore la pubblica amministrazione che scegliesse per quel tipo di incarico uno specialista nel diritto penale.
Sotto questo profilo, a meno di non indulgere in una prospettiva formalistica, l’assenza di riserve non può essere brandita come un argomento talmente forte da negare la possibilità che, magari non nell’immediato e non dovunque, il possesso del titolo di specialista possa prima o poi influenzare le dinamiche concorrenziali tra iscritti, incorporando una qualche forma di vantaggio, come pure accennato nel paragrafo iniziale del presente scritto. A ben vedere, però, proprio in ragioni del genere affondano ulteriori fattori di legittimazione dell’indirizzo intrapreso dal legislatore. Va infatti considerato che la questione delle specializzazioni si intreccia con quella della pubblicità professionale e che è proprio la necessità di regolare forme e condizioni per la spendita del titolo di specialista una delle esigenze cui tenta di rispondere, non senza criticità, la disciplina regolamentare appena introdotta. La difficoltà per il pubblico meno avveduto di distinguere la mera “attività prevalente”, che il codice deontologico consente da tempo di indicare, da una vera e propria specializzazione è infatti una delle questioni che rende meno trasparente e più vulnerabile il mercato dei servizi professionali. Non mancano infatti iscritti che, approfittando della buona fede dei clienti, spacciano su fantasiose carte intestate e/o inserzioni pubblicitarie riferimenti ai rami di attività come a vere e proprie specializzazioni. Conuna normativa organica, l’uso del termine specialista è ormai concesso solo a chi consegue il titolo nelle due forme indicate dalla legge, e cioè per comprovata esperienza, o a seguito di un corso biennale specifico, e sarà dunque perseguibile chi utilizza il titolo senza averne titolo (si perdoni il bisticcio di parole). Se il nuovo DM corregge quello del 2015 sopprimendo il richiamo esplicito all’illecito disciplinare – “Commette illecito disciplinare l’avvocato che spende il titolo di specialista senza averlo conseguito”, recitava l’art. 2, comma 3, DM cit., ora abrogato – questo non significa affatto che un contegno del genere non assuma rilievo disciplinare. L’abrogazione è il frutto, più semplicemente, del recepimento di una statuizione del giudice amministrativo, che ha correttamente ritenuto da un lato come sia il codice deontologico a dover individuare i fatti di rilievo disciplinare, dall’altro come, nel caso concreto, la spendita del titolo falso possa violare diverse fattispecie già previste dal codice, come l’art. 35 sul “dovere di corretta informazione” o l’art. 36 sul “divieto di attività professionale senza titolo e di uso di titoli inesistenti”. Un ulteriore fattore di legittimazione dell’introduzione dell’istituto può dunque a mio avviso essere rinvenuto in un’esigenza di maggiore trasparenza del mercato dei servizi professionali.
Non a caso già in questo senso si esprimeva a suo tempo il CNF nella relazione di accompagnamento al Regolamento poi colpito da declaratoria di nullità: “(…) nella pratica la spendita del titolo di specialista e l’indicazione della materia di attività prevalente, possono dar vita ad un messaggio potenzialmente decettivo tutte le volte che la comunicazione circa quest’ultima (materia di attività prevalente) risulti ambigua tanto da far supporre di essere in presenza di uno specialista. Occorrerà vagliare, caso per caso, il potenziale decettivo dell’indicazione circa la materia di attività prevalente al fine di sanzionare adeguatamente il comportamento di chi, facendo leva su ciò che il codice deontologico forense consente di indicare, crea, per le modalità e per il contenuto del messaggio, confusioni ed ambiguità. Queste conseguenze negative – da mettere in conto e che si può contribuire ad eliminare anche tramite una revisione degli artt. 17 e 17 bis del codice deontologico forense – co-stituiscono un costo certamente accettabile a fronte dei ben più gravi effetti distorsivi derivanti dall’auto-proclamazione di competenze che la mancanza di un regolamento sulle specializzazioni potrebbe comunque generare”.
Va da sé che se il sistema delineato nella legge e nel regolamento attuativo dovesse funzionare male, o addirittura consentire o favorire pretese egemoniche in danno della pluralità degli iscritti, finendo per creare ingiustificate riserve di fatto, se non di diritto, le distorsioni concorrenziali che si determinerebbero sarebbero probabilmente peggiori di quelle che si volevano rimuovere con l’intervento normativo. È dunque fondamentale assicurare al sistema di acquisizione del titolo di specialista sia la virtuosità del percorso che passa per la comprovata esperienza, sia la pluralità di offerta normativa ed il contenimento dei costi per il percorso che passa attraverso i corsi universitari. Specialisti si dovrà diventare per meriti effettivi, e non per aver magari acquistato a caro prezzo l’accesso ai corsi biennali.
6. I nodi cruciali: settori ed indirizzi di specializzazione; il colloquio di verifica della comprovata esperienza.
Il titolo di specialista è concesso dal CNF sia che si consegua all’esito della frequenza con profitto di un corso biennale di specializzazione, sia che si ottenga in base alla verifica della comprovata esperienza (art. 9, l. cit.). Ma gli aspetti di maggiore delicatezza sono – come si è detto – quelli relativi all’individuazione delle materie specialistiche, ed al numero dei titoli di specialista che si consente di ottenere. Quali e quante materie individuare è sempre stato uno dei nodi più delicati da sciogliere. La legge non effettua tale scelta, e la demanda al regolamento. Il regolamento del 2015 individuava com’è noto 18 materie, ma – come si è detto – proprio questo elenco è caduto all’esito del contenzioso sopra richiamato. Il nuovo sistema risulta ora articolato su di un doppio livello: esistono meno settori di specializzazione (13), ma i tre principali (civile, penale, amministrativo) si articolano ciascuno in numerosi “indirizzi”: ve ne sono ben 11 per il settore civile (es.: diritto successorio, diritti reali, condominio e locazioni, diritto dei contratti, etc.), 7 per il penale (es.: diritto penale della persona, diritto penale della P.A., diritto penale dell’ambiente, dell’urbanistica e dell’edilizia, etc.), 8 per l’amministrativo (diritto del pubblico impiego e della responsabilità amministrativa, diritto urbanistico, dell’edilizia e dei beni culturali, diritto dell’ambiente e dell’energia, etc.). Ne risulta una mappatura complessa degli attuali campi di esercizio della professione, segnata anche dall’evidente tentativo di accompagnare le trasformazioni sociali più recenti in chiave di modernizzazione (si pensi ad esempio al diritto penale dell’informazione, di internet e delle nuove tecnologie). In linea di principio, appare peraltro ragionevole sviluppare un sistema su due livelli, almeno per le tre macro aree che corrispondono ai plessi principali dell’organizzazione giudiziaria: la giustizia civile, la giustizia penale e la giustizia amministrativa. Secondo il nuovo sistema, dunque, non si potrà essere semplicemente un avvocato specialista in diritto civile, ma tale si sarà, se ed in quanto si ottiene il titolo di specialista in uno degli indirizzi nei quali la macro area civilistica si articola (es. diritto successorio): la menzione corretta del titolo dovrebbe dunque essere “specialista in diritto civile, con indirizzo in diritto successorio”. Attesa l’ampiezza della materia civilistica, su tale versante la scelta del regolamento appare senz’altro ragionevole. Dichiararsi semplicemente “specialista in diritto civile”, nell’attuale livello di complessità dell’ordinamento, e delle novità in materia di relazioni contrattuali e commerciali, potrebbe infatti sembrare una pretesa di onniscienza, o, peggio ancora, una millanteria. Lo stesso criterio che per il civile pare ragionevole, potrebbe però non essere altrettanto efficiente per il diritto penale e per il diritto amministrativo, dove resta forte l’ambizione ad una idea di unitarietà del settore. Ciononostante, la scelta del regolamento è analoga: non ci saranno semplicemente specialisti in diritto penale o in diritto amministrativo, perché per potersi fregiare di questo titolo occorre maturare il diritto ad almeno uno degli indirizzi nei quali tali macroaree si articolano. Non avremo dunque specialisti in diritto penale, bensì, ad esempio, specialisti in diritto penale, con indirizzo diritto penale della persona, e/o diritto penale dell’economia e dell’impresa. Non avremo specialisti in diritto amministrativo, bensì, ad esempio, specialisti in diritto amministrativo con indirizzo diritto del pubblico impiego e della responsabilità amministrativa, e/o dirittosanitario. Per questo motivo i corsi biennali dedicati 51 a tali aree dovranno prevedere una parte generale ed una parte speciale dedicata proprio al singolo indirizzo (così dispone il nuovo comma 12 bis dell’art. 7).
In ogni caso, l’elenco dei titoli non è un insieme chiuso e può essere aggiornato: il ministero sembra quasi prefigurare da subito tale ipotesi, se subito dopo l’elenco (art. 3), ha ritenuto di precisare nell’articolo successivo (art. 4) che “L’elenco dei settori di specializzazione di cui all’articolo 3 può essere modificato ed aggiornato con decreto del Ministro della giustizia, adottato con le forme di cui all’articolo 1, comma 3, della legge 31 dicembre 2012, n. 247”. Precisazione giuridicamente inutile, secondo i principi in materia di fonti del diritto, ma politicamente (evidentemente) necessaria.
Molto discussa anche la fissazione di un tetto al numero delle specializzazioni conseguibili. Se essere specialista in troppe materie può suonare per certi versi inverosimile, il tetto dei due titoli in altrettanti settori viene confermato anche nel nuovo regolamento. Nei settori dotati di indirizzi, questa misura può in effetti avere un effetto moltiplicativo macroscopico, se si considera che, ai sensi del nuovo ultimo periodo dell’art. 5, si possono ottenere fino ad un massimo di tre indirizzi per ciascun settore.
Concretamente, potremmo avere un avvocato specialista in diritto civile, con indirizzo della responsabilità civile, della responsabilità professionale e delle assicurazioni, nonché con indirizzo in diritto industriale, della proprietà intellettuale e dell’innovazione tecnologica, e con indirizzo in diritto bancario e dei mercati finanziari, che sia al contempo anche specialista in diritto amministrativo, con indirizzo in diritto dei contratti pubblici e dei servizi di interesse economico generale, nonché con indirizzo in diritto urbanistico dell’edilizia e dei beni culturali, e in diritto delle autonomie territoriali e contenzioso elettorale. I tipografi dovranno certamente industriarsi per elaborare biglietti da visita e carte intestate in grado di contenere tanto sapere professionale.
l nuovo DM, in stretta aderenza alle indicazioni ricevute dal Giudice amministrativo, riscrive completamente la disciplina del colloquio di verifica della comprovata esperienza, o, meglio, la introduce ex novo, visto che la vecchia norma si limitava ad indicare l’autorità competente (il CNF) e a precisare che il colloquio avrebbe riguardato la materia della specializzazione. Viene ora introdotta una commissione di valutazione composta di cinque membri, di cui tre avvocati e due professori di ruolo: ciò che più conta, però, è che, probabilmente per evitare critiche di corporativismo, solo un componente avvocato è nominato dal CNF, mentre gli altri quattro membri sono nominati dal Ministro della giustizia. Andrà definito presso il ministero un elenco di possibili commissari dal quale si pescherà volta per volta in relazione alle materie che saranno trattate nelle singole sedute. Uno sforzo di maggiore precisazione è stato effettuato non solo sul versante dell’organo competente per il colloquio, ma anche per meglio definire i contenuti del colloquio stesso, nell’ambito del quale andrà valutata la congruenza rispetto al settore o all’indirizzo dei titoli presentati e degli incarichi documentati rilevanti (che scendono da 15 a 10 per anno). Certo resterà un’inevitabile margine di discrezionalità nella valutazione della particolare rilevanza degli incarichi documentati (cfr. art. 8, comma 2, come ora modificato).
7. I soggetti: Università, Ordini e associazioni specialistiche.
Completano i riferimenti di rango legislativo in tema di specializzazioni l’art. 29, co. 1, lett. e), che impone ai Consigli dell’ordine di promuovere l’organizzazione dei corsi di specializzazione (e quindi stipulare le convenzioni con le Università finalizzate all’organizzazione dei corsi), “d’intesa con le associazioni forensi” specialistiche; e l’art. 35, co. 1, lett. s), in base al quale il CNF “istituisce e disciplina con apposito regolamento l’elenco delle associazioni specialistiche maggiormente rappresentative”. Il regolamento sul riconoscimento delle associazioni specialistiche maggiormente rappresentative è stato invero il primo dei regolamenti attuativi della riforma ad essere adottato (Regolamento CNF 11 aprile 2013, n. 1). Ed invero quello relativo alle associazioni forensi specialistiche è uno dei nodi cruciali della riforma. Insieme alla questione del rapporto tra queste associazioni, le università e le istituzioni ordinistiche forensi (CNF e COA). È noto che talune delle più consolidate e radicate associazioni specialistiche hanno svolto un ruolo importante nella promozione della riforma forense, il cui iter parlamentare è stato lungo e travagliato. È del pari noto che un emendamento parlamentare al testo dell’art. 9 espulse di fatto le associazioni da un ruolo decisivo nella realizzazione dei corsi di specializzazione, e che tale ruolo è stato recuperato nei lavori parlamentari successivi, proprio richiamando tali associazioni nella citata lett. e) dell’art. 29, laddove si definiscono i compiti degli ordini forensi in materia. Nel corso della definizione dei regolamenti attuativi, il “braccio di ferro” tra associazioni forensi ed università è probabilmente proseguito.
Ad avviso di chi scrive, emerge dal quadro fornito dalla legge e dal regolamento attuativo un modello cooperativo articolato su tre punti di riferimento: Università, CNF e COA, e associazioni specialistiche. Potremmo dire in effetti che il legislatore ha avuto fiducia nei corpi intermedi (così Giovanni Canzio, allora presidente della Corte d’appello di Milano, nel convegno svoltosi presso l’Aula Magna del Palazzo di Giustizia in Milano, l’11 novembre 2014). Nessuno di questi tre soggetti è in grado di operare da solo. È ciò per ragioni sostanziali, prima ancora che giuridiche: le Università non paiono avere la esperienza pratico-applicativa, e forse neanche la forza e la volontà per occuparsi di specializzazione degli avvocati prescindendo dalle espressioni istituzionali ed associative della categoria. E queste ultime hanno probabilmente bisogno delle Università per assicurare adeguati livelli qualitativi ai corsi (già oggi i migliori corsi tenuti dalle associazioni forensi specialistiche annoverano tra i docenti molti professori universitari, per lo più a tempo definito, e cioè esercitanti la professione).
Sul piano strettamente giuridico, forse, stando ad una lettura formalistica dell’art. 9, l. cit., le Università (rectius, i dipartimenti di giurisprudenza) potrebbero anche organizzare corsi di specializzazione in via autonoma, giacché le convenzioni previste dall’art. 9, comma 3, con CNF e COA non “debbono”, ma “possono” essere stipulate. Ma il regolamento dice, più semplicemente, all’art. 7, comma 3, che “Ai fini della organizzazione dei corsi, il Consiglio nazionale forense o i consigli dell’ordine degli avvocati stipulano con le articolazioni di cui al comma 1 (le Università, ndr) apposite convenzioni (…)”, di talché tali convenzioni sembrano ora necessarie. La cooperazione tra i tre soggetti di cui sopra dovrebbe in qualche modo essere garantita anche dal meccanismo che il DM configura per garantire omogeneità e qualità dei corsi biennali: una Commissione ministeriale composta di sei membri (due magistrati, di cui uno presidente, due avvocati, e due professori) cui è conferita la delicata responsabilità di fissare “le linee generali per la definizione dei programmi dei corsi di formazione specialistica, tenendo conto delle migliori prassi in materia” (art. 7, comma 2), e di verificare, a domanda, la conformità dei programmi didattici dei corsi alla normativa ed alle linee guida (art. 7, comma 1)17. È bene precisare che “I corsi di specializzazione non possono avere inizio se non è stata verificata la conformità dei relativi programmi didattici a quanto disposto dal presente regolamento e alle linee generali elaborate a norma del comma 2” (art. 7, comma 1, secondo periodo).
Che questo modello cooperativo funzioni nei fatti, è probabilmente una delle maggiori scommesse dell’introduzione del nuovo istituto. Nella dialettica tra le associazioni forensi specialistiche e le università, un ruolo decisivo potrebbe e dovrebbe essere svolto proprio dagli Ordini forensi. Tra il polo privato (associazioni) ed il polo pubblico (università), una funzione di equilibrio e di cerniera può assicurarla l’Ordine, cioè un ente che presenta nella sua conformazione giuridica soggettiva una ontologica vocazione ambivalente, essendo sì un ente pubblico previsto dalla legge, ma ancheun ente esponenziale di una comunità di professionisti 53 (ente pubblico a carattere associativo, lo definisce ora l’art. 24 della l. 247/2012). Un corpo intermedio tra Stato e comunità, potremmo dire, riprendendo antica dottrina. Che l’Ordine forense, spesso accusato di corporativismo, possa essere argine e rimedio ai rischi di corporativismi delle università e delle associazioni specialistiche è probabilmente una delle sfide più delicate – ma anche più affascinanti – che nei prossimi anni si porranno di fronte alla categoria forense.
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