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Ricorrendo nel 2019 il quarantesimo anniversario dell’omicidio, commesso a Milano l’11 luglio 1979, dell’avvocato Giorgio Ambrosoli, per mano di un sicario di Cosa nostra, William Aricò, su incarico del finanziere Michele Sindona, appare doveroso ricordare il valore di esempio che la professionalità e l’integrità morale dell’avvocato milanese (nel settembre 1975 nominato dalla Banca d’Italia Commissario Liquidatore della Banca Privata italiana di Michele Sindona) hanno in questi anni rappresentato, e continuano a rappresentare, per tutta l’avvocatura italiana, e non solo.
Spesso è difficile sottolineare certi concetti senza scadere nella retorica, ma riteniamo che ciò che deve essere evitata sia la “vuota” retorica, non l’uso di parole “alte” nel trattare princìpi e figure di altissimo livello. Del resto, tali esempi di professionalità e moralità continuano a vivere e ad avere un senso se vengono ricordati nel contesto della loro umanità e anche delle loro debolezze e non come dei “marziani” che vivono in un’altra dimensione. Per quanto difficile possa essere, la scelta compiuta dall’avv. Ambrosoli di assumersi i rischi che si sono poi concretizzati con il suo assassinio, può essere letta anche come un esercizio di dignità professionale, come una forma di rispetto per sé stesso e per la propria professione, ovviamente declinata con un alto grado di idealità. Il coraggio, infatti, in tutti i campi della vita, non è non avere paura, ma andare avanti nonostante la paura, gestirla, conviverci e, spesso solo a tratti, dominarla. L’eroismo che tale vicenda incarna (e nel ricordo della quale ignorare tale concetto, per quanto difficile da maneggiare, appare davvero arduo) crediamo non sia stato quello di un superuomo che non ha paura e va avanti imperterrito, a prescindere da tutto e da tutti. Il suo eroismo, che potremmo definire quotidiano, oltre che “borghese” (anche la felice espressione di Corrado Stajano è imprescindibile) probabilmente è stato quello di chi sapeva che, una volta accettato quell’incarico, un costo altissimo in un caso o nell’altro sarebbe stato pagato.
Ovviamente si tratta di costi elevati ma espressi “in moneta” molto diversa. Da un lato, l’opzione di “non vedere”, di ammorbidire relazioni, valutazioni e… “stati passivi”, abdicando in tal modo ai propri doveri di legge e di etica professionale. Dall’altro lato, la diversa opzione di fare quello che sapeva essere doveroso (e, forse, per la sua coscienza, imprescindibile), pur conoscendo o immaginando i rischi che ciò comportava. Siamo convinti che l’idea del dovere che lo ha animato non è stata quella di una cosa pesante e noiosa, un fardello che schiaccia e colora di grigio le giornate, ma semplicemente l’idea del dovere come componente, come parte di un ruolo, di una identità e come l’occasione di dare un contributo, piccolo o grande, per raddrizzare torti ed ingiustizie, per migliorare il mondo intorno intorno a sé.
Vorremmo chiudere questo breve ricordo con un brano estratto dal testamento morale che la moglie Annalori ritrovò, il marito ancora in vita, tra le sue carte: “Anna carissima, è il 25.2.1976 e sono pronto per il deposito dello stato passivo della Bpi, atto che ovviamente non soddisferà molti e che è costato una bella fatica (…) I nemici non aiutano, e cercheranno in ogni modo di farmi scivolare su qualche fesseria, e purtroppo, quando devi firmare centinaia di lettere al giorno, puoi anche firmare fesserie. Qualunque cosa succeda, comunque, tu sai che cosa devi fare e sono certo che saprai fare benissimo. Dovrai tu allevare i ragazzi e crescerli nel rispetto di quei valori nei quali abbiamo sempre creduto (…) Abbiano coscienza dei loro doveri verso sé stessi, verso la famiglia nel senso trascendente che ho, verso il Paese, si chiami Italia o si chiami Europa”.
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