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SOMMARIO: 1. La nuova legge sui domini collettivi. – 2. La storia della proprietà collettiva agro-silvo-pastorale. – 3. Il valore ambientale e paesaggistico dei domini collettivi. – 4. Il ridimensionamento delle competenze regionali. – 5. Conclusioni. La proprietà collettiva del territorio come valore solidale e identitario.
1. La nuova legge sui domini collettivi. – Quando, sul finire della scorsa legislatura, il Parlamento ha approvato la legge 20 novembre 2017 n. 168, Norme in materia di domini collettivi, la percezione del rilievo di tale materia non era diffuso all’interno dei palazzi della politica, e probabilmente ben pochi parlamentari si erano resi conto delle conseguenze che siffatta normativa avrebbe prodotto sia sull’assetto normativo dei beni, sia sull’articolazione e sulla disciplina civilistica della proprietà collettiva agraria, che era ancora regolata dalla vecchia legge 17 giugno 1927 n. 1766. Una legge, quest’ultima, fermamente voluta dal regime fascista e che, con luci ed ombre, aveva dato un assetto stabile ad un fenomeno che si presentava singolarmente eccentrico rispetto all’ordinamento classico della proprietà. Una nozione, quella dei domini collettivi, che tende ad assorbire la più risalente espressione usi civici, che si era affermata a partire dalla demanialistica napoletana dei primi anni dell’Ottocento e che era stata mantenuta proprio per evitare di confondere tali istituti con la proprietà, singola o collettiva che fosse. Il pregiudizio liberista nei confronti della comunione ordinaria era ancora più accentuato nei confronti della proprietà collettiva di tipo agro-silvo-pastorale, ritenuta diffusamente un residuo del Medioevo e di conseguenza un freno all’economia moderna.
Al contrario, tuttavia, il fenomeno rappresentato dagli usi civici persisteva in tutto il territorio della penisola, e si strutturava in due principali direzioni: da un lato gli usi civici aperti, caratteristici del Mezzogiorno, dove tutti i residenti di un comune partecipavano, sia pur senza quote, alla comunione dei beni demaniali civici; dall’altro gli usi civici chiusi, caratteristici dell’Arco alpino, spesso chiamati regole, dove alla comunione dei beni civici partecipavano solo i discendenti degli antichi originari dei luoghi (si pensi alle regole ampezzane e cadorine). Il rilievo sociale ed economico della materia non è venuto mai meno, ma solo negli ultimi decenni la dottrina giuridica ed economica si è interessata con rinnovata attenzione a tale fenomeno, sottolineando i valori ad esso sottesi, come il rispetto dell’ambiente, la solidarietà tra generazioni presenti e future, la valorizzazione dell’identità e della coesione territoriale, il riconoscimento degli usi e delle tradizioni come espressione di una comunità, la prevalenza del valore d’uso del bene su quello di scambio. Proprio quest’ultimo riferimento permetteva di sottolineare, con riguardo alla proprietà codicistica, la valorizzazione nella materia degli usi civici della facoltà di godere rispetto a quella di disporre (art. 832 cod. civile).
2. La storia della proprietà collettiva agro-silvo-pastoriale. - Il problema della proprietà collettiva emerge sostanzialmente nel Regno di Napoli ai primi dell’Ottocento, quando Giuseppe Napoleone prima, e Gioacchino Murat dopo, decidono che un significativo rinnovamento delle strutture sociali non poteva non passare anche e soprattutto attraverso l’eversione della feudalità e dunque lo stravolgimento di un sistema economico, giuridico e sociale che, sebbene con cambiamenti rilevanti (ad esempio la fiscalizzazione dei doveri un tempo di natura personale) e con differenze su base geografica (ad esempio l’assunta possibilità di devolvere senza limiti il feudo siciliano), si era mantenuto per più di sette secoli, a partire quanto meno dalle assise di Ariano volute da Ruggero secondo, re di Sicilia, tra il 1140 ed il 1142, che definiranno la particolare struttura del feudo meridionale. In realtà gli epigoni di Napoleone volevano soprattutto affermare, assecondando anche il pensiero illuminista napoletano, la proprietà individuale come modello del diritto soggettivo e come paradigma della cultura proprietaria dello stato liberale e liberista, ottenendo al contrario – ed il paradosso è in realtà spiegabile – la valorizzazione di quei terreni che i contadini del Mezzogiorno utilizzavano da sempre come bosco e pascolo. Quindi l’abolizione del feudo, nel Regno di Napoli, comportò la divisione delle terre in una parte che veniva assegnata ai baroni e restava privata, ed una parte che veniva assegnata alle Università, come all’epoca erano chiamati i comuni.
Questa seconda parte, assai estesa soprattutto nelle zone di montagna, marginali per la coltivazione, darà vita agli usi civici. Così chiamati perché essi si strutturano come un uso degli abitanti dei borghi su determinati territori derivante da consuetudini assai risalenti nel tempo, consuetudini che non hanno alla loro base un provvedimento legislativo o amministrativo, bensì il fatto stesso di nascere e di perpetuarsi nel tempo, senza alcuna mediazione giuridica. Tanto è vero che tutta la legislazione in materia parlerà sempre di riconoscimento degli usi civici, e le sentenze che ne dichiarano l’esistenza sono, appunto, dichiarative di una situazione di fatto (e, non a caso, il primo articolo della legge 168/ 2017 si intitolerà proprio “Riconoscimento dei domini collettivi”). L’Ottocento dimenticherà assai presto gli usi civici. Il Risorgimento prima, e lo Stato unitario poi, avranno ben altri compiti da realizzare. Tuttavia, come ci racconta Paolo Grossi nel suo libro Un altro modo di possedere (Milano, 1977, 2017), gli usi civici continuano a manifestarsi nelle colline e nelle montagne italiane: se ne accorgono, e ne fanno tesoro, due professori dell’Università di Camerino a fine Ottocento. Si tratta di Giacomo Venezian, civilista triestino che morirà nel 1915 volontario sulle giogaie del Carso, e di Oreste Ranelletti, studioso abruzzese del diritto amministrativo, allievo di Vittorio Scialoja. Il primo pubblicherà nel 1888 la sua prolusione camerte su Le reliquie della proprietà collettiva in Italia, dove rifletterà su tali istituti traendo ispirazione dalle comunanze marchigiane e proponendo una loro valorizzazione economica e giuridica; il secondo si occuperà nel 1898 del demanio pubblico, ed all’interno di tale opera, che per molti decenni influenzerà la dottrina italiana in materia, farà ampi cenni agli usi civici, riscoperti attraverso le pagine di studiosi europei come l’inglese Sir Henry Maine, il belga Emile de Laveleye ed il tedesco Otto Von Gierke. Anzi, come ha ben notato Bernardo Sordi, sarà proprio lo studio degli usi civici ad incrinare la visione statalistica del Ranelletti, dove semplicisticamente tutto il diritto pubblico è all’interno dello Stato.
Quindi il regime fascista, nell’intento di mantenere la promessa fatta ai reduci della prima guerra mondiale di assegnare loro dei terreni da coltivare, approvò la legge 17 giugno 1927 n. 1766 ed alcuni provvedimenti collegati, che disegnavano un quadro in parte liquidatorio degli usi civici sui terreni privati ed in parte conservativo dei beni di uso civico, istituivano il commissario degli usi civici con funzioni amministrative e giurisdizionali, stabilivano i principi fondamentali della materia, cioè che tali beni non sono usucapibili, non si prescrivono, non possono circolare se non attraverso speciali autorizzazioni, sono sottoposti ad un vincolo di destinazione permanente. Principi, questi, che venivano ripresi dalla giurisprudenza della Commissione feudale napoletana, nominata dal Murat nel 1808, presieduta da Giacinto Dragonetti ed animata da David Winspeare, e che in sostanza estendevano a tutti i beni di uso civico della Penisola (con la sola eccezione dell’Arco alpino) la legislazione meridionale in materia. La legge ebbe qualche ritardo nella sua applicazione e, nel momento in cui poteva entrare pienamente in funzione, venne ulteriormente frenata dalla guerra, dalla caduta del regime, dal ritorno alla democrazia, tutti fenomeni che ne rallentarono l’operatività. Altri affanni impegnavano la giovane Repubblica Italiana. Quindi lo spopolamento delle campagne, l’emigrazione verso le zone industriali del Settentrione ed il declino dell’agricoltura fecero il resto, tanto che la materia rimase marginale sotto il profilo economico e dimenticata in disperse massime della Cassazione sotto il profilo giuridico. Dovrà passare qualche decennio, ma gli usi civici dimostreranno un’insospettabile capacità di resistere alle insidie del mondo moderno.
3. Il valore ambientale e paesaggistico dei domini collettivi. – In un quadro di profondo disinteresse per la materia della proprietà collettiva, così come lo abbiamo tratteggiato, quando non di aperta ostilità, il legislatore prima, e le massime Corti dopo, avranno la felice intuizione di affidare a questi beni una precipua funzione ambientale e paesaggistica che non sostituisce ma si aggiunge a quella agro-silvo-pastorale tradizionale. Se ne farà interprete, in primo luogo, la legge 8 agosto 1985, n. 431 (oggi confluita nel Codice dei beni culturali e del paesaggio), cosiddetta legge Galasso, dal nome del suo ispiratore, il prof. Giuseppe Galasso, che a metà degli anni ottanta era sottosegretario al Ministero dei La cultura dei domini collettivi e la riforma degli usi civici beni e delle attività culturali. I beni di uso civico entrano così a far parte dei beni tutelati per legge, venendo ad essi attribuita una specifica protezione ambientale.
Nella stessa direzione andranno le principali sentenze della Cassazione e della Corte costituzionale: in particolare quest’ultima negli anni novanta si gioverà della cultura giuridica di Luigi Mengoni, nativo del Trentino e dunque profondo conoscitore delle regole dell’Arco alpino, che in alcune decisioni di rilevante spessore porrà la questione in termini espliciti. In questo senso vanno ricordate la decisione 1 aprile 1993 n. 133 che, nel dichiarare la fondatezza dei poteri d’ufficio del Commissario, ne argomenta la ragionevolezza rilevando che “Accanto agli interessi locali, di cui sono diventate esponenti le Regioni, emerge l’interesse della collettività generale alla conservazione degli usi civici nella misura in cui essa contribuisce alla salvaguardia dell’ambiente e del paesaggio”. Ed ancora la decisione 20 febbraio 1995 n. 46, in cui si afferma che “la sovrapposizione tra tutela del paesaggio e tutela dell’ambiente si riflette in uno specifico interesse unitario della comunità nazionale alla conservazione degli usi civici, in quanto e nella misura in cui concorrono a determinare la forma del territorio su cui si esercitano, intesa quale prodotto di una integrazione tra uomo e ambiente naturale”.
Questa funzione ambientale verrà dunque ribadita, più di recente, dalla legge 168/2017, che espressamente attribuirà una rilevante valenza ambientale e paesaggistica ai domini collettivi. E, significativamente, ciò avverrà in un quadro di riconoscimento costituzionale degli enti gestori. Non che il rilievo costituzionale di tali beni non fosse stato già affermato dalla Corte costituzionale, ma la precisa dizione della legge lo rende ormai stabile assegnandogli un ruolo ben preciso all’interno degli enti locali esponenziali di situazioni identitarie. In particolare gli enti gestori dei domini collettivi vengono definiti ordinamenti giuridici primari delle comunità originarie, viene attribuita loro la personalità di diritto privato (che metterà fine ad un annoso dibattito), l’autonomia statutaria ed organizzativa, la piena capacità di amministrare il proprio patrimonio.
4. Il ridimensionamento delle competenze regionali. – La legge 168/2017 non si limita soltanto a stabilire il rilievo costituzionale degli enti esponenziali dei domini collettivi, che godono ormai di ampia autonomia statutaria, ma ridimensiona il ruolo di amministrazione e controllo delle regioni, ruolo che gli era stato attribuito dal DPR 616 del 1977 che, nel trasferire alle regioni i poteri amministrativi dei commissari aveva ad essi lasciato soltanto attribuzioni giurisdizionali.
Dunque le regioni svolgevano, prima dell’approvazione della legge 168/2017, una serie di attività come i mutamenti di destinazione e le reintegre, che oggi gli sono state sottratte, residuando solo alcune attribuzioni stabilite dalla terza legge della montagna, ovvero la legge 31 gennaio 1994 n. 97: anzi, le regioni avrebbero dovuto approvare entro un anno dall’approvazione della legge nazionale una propria normativa che, ad oggi, non risulta ancora definita in alcuna regione. Viene così a riestendersi la competenza statale, perché se la funzione dei domini collettivi (o, come preferisco chiamarli, assetti fondiari collettivi) è quella ambientale e paesaggistica, allora il controllo e l’indirizzo spettano allo Stato che, nell’elencazione dell’art. 117 della Costituzione, alla lettera s), ha la relativa potestà in materia di tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali. Peraltro, anche la Corte costituzionale è andata nella stessa direzione con la decisione 113 del 31 maggio 2018 che, nel dichiarare l’incostituzionalità dell’art. 8 della legge della Regione Lazio 3 gennaio 1986, n. 1 (Regime urbanistico dei terreni di uso civico e relative norme transitorie), come modificato dall’art. 8 della legge della Regione Lazio 27 gennaio 2005, n. 6 (disposizione questa che permetteva una sanatoria generalizzata dei demani civici abusivamente occupati), ha ribadito come, essendo la funzione principale degli usi civici una funzione ambientale e paesaggistica e non più soltanto agro-silvo-pastorale, il riferimento amministrativo non sono più le regioni bensì il Ministero dell’ambiente. In particolare la Corte costituzionale, nella predetta sentenza, riprendendo un principio espresso dalla Cassazione, afferma che “Vi è, dunque, una connessione inestricabile dei profili economici, sociali e ambientali, che “configurano uno dei casi in cui i principi combinati dello sviluppo della persona, della tutela del paesaggio e della funzione sociale della proprietà trovano specifica attuazione, dando origine ad una concezione del bene pubblico (…) quale strumento finalizzato alla realizzazione di valori costituzionali” (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza n. 3811 del 2011, a proposito della fattispecie analoga delle “valli da pesca”)”. Concludendo sul punto va sottolineata un’ulteriore considerazione della sentenza 113/2018 del Giudice delle leggi, e cioè che la materia degli usi civici fa parte del cosiddetto ordinamento civile, ovvero di quelle norme relative ai rapporti tra soggetti privati (in primo luogo il codice civile) che sono sempre state riservate all’esclusiva potestà legislativa dello Stato.
5. Conclusioni. La proprietà collettiva del territorio come valore solidale e identitario. – Può apparire strano come proprio in un’epoca di globalizzazione imperante gli usi civici e i domini collettivi vengano riscoperti e protetti, così come i valori che ad essi sono connaturati: la tutela dell’ambiente e del paesaggio, la responsabilità intergenerazionale, la riscoperta delle tradizioni e dell’identità dei luoghi, la solidarietà che nasce da un’esperienza comune, il riconoscersi in una natura di cui l’uomo è parte e non padrone.
Si badi bene: la tutela dei territori connaturale ai domini collettivi non è una tutela astratta, meramente conservativa, così come quella fatta propria, a volte, dai parchi nazionali e dalle riserve integrali. È al contrario una tutela basata sulla compenetrazione della natura e del lavoro dell’uomo, una tutela basata sulla consapevolezza che il territorio è la nostra casa, che deve dunque essere abitata e può anche essere trasformata, purché se ne rispettino le sostenibilità, si pongano dei limiti, si salvaguardino ambienti naturali particolari, si conservi la storia e le pietre che ne sono testimonianza, si prendano decisioni urbanistiche razionali e non ispirate al consumo di suolo ed all’acquisizione di facile consenso. Insomma, una tutela che discende dalla valorizzazione conservativa dai fenomeni antropici frutto delle generazioni passate, ben consapevoli che anche il lavoro del contadino è fondamentale per il mantenimento di un equilibrio che si protragga nel tempo. Infatti è da questi due elementi, la natura ed un lavoro compatibile con essa, che storicamente nasce la grande bellezza della nostra penisola. Una grande bellezza di cui andare fieri, ma che deve essere conservata e valorizzata, un’eredità del passato che deve essere lasciata intatta alle nuove generazioni, un legato cui gli usi civici ieri, ed i domini collettivi oggi, hanno sempre contribuito in misura rilevante. In questa prospettiva, i domini collettivi restano un fenomeno giuridico del tutto eccentrico rispetto ad un diritto civile che nella proprietà classica si è troppo spesso illuso di trovare il suo centro ed il suo modello. Tanto è vero che, dopo la citazione di Carlo Cattaneo recuperata da Paolo Grossi nel suo volume Un altro modo di possedere, e posta simbolicamente quale titolo dell’opera, mi sono permesso, anche in omaggio al Maestro, di definire questo fenomeno come Un’altra proprietà.
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