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Sommario: 1. Premessa. – 2. Il gender pay gap e la Legge sulla parità salariale n.162/2021 – 3. La certificazione della parità di genere. Profili normativi. – 4. Il primo passo verso la certificazione: informazione e formazione sulla normativa in tema di parità di genere nei luoghi di lavoro. – 4.1. Le tutele nel Codice delle pari opportunità. – 4.2. Convenzione Oil sulla violenza e le molestie nel mondo del lavoro. – 4.3. La responsabilità del datore di lavoro. – 5. Certificazione della parità di genere e profili operativi: requisiti e benefici – 6. Violazioni che precludono la certificazione di genere. – 7. Conclusioni
1. Premessa Samira Ahmed, giornalista inglese della Bbc, dopo aver scoperto di aver ricevuto 700mila sterline (circa 830mila euro) in meno rispetto al collega Jeremy Vine, con un incarico analogo in altra trasmissione, ha instaurato una causa contro la sua emittente per discriminazione salariale: il 10 gennaio 2020, il London Central Employment Tribunal ha accolto la sua domanda: i giudici hanno sentenziato che la differenza è spiegabile solo in un quadro di discriminazione.
Questo caso emblematico vuole essere l’incipit del presente contributo per segnalare come il divario retributivo di genere continui a rappresentare una delle ingiustizie sociali più diffuse a livello globale e come la discriminazione di genere sia un problema centrale per le politiche di sviluppo sociale a livello mondiale.
L’Italia, in particolare, è tra le ultime nazioni in termini di divario sul lavoro, ove le donne hanno meno possibilità di occupazione, diversità di redditi e stipendi inferiori. È stato rilevato che queste disuguaglianze sono in larga parte il riflesso della “specializzazione” di genere tra lavoro retribuito e non retribuito, in virtù del quale le donne più frequentemente sono costrette ad accettare retribuzioni inferiori a fronte di vantaggi in termini di flessibilità e orari.
Invero, dati alla mano, se volgiamo lo sguardo al lavoro retribuito, emerge che tra uomo e donna c’è un gap enorme: a parità di lavoro gli uomini vengono pagati di più. Trattasi di gap di genere alimentato da discriminazioni, che si inserisce tra le principali forme discriminatore che comunemente sono chiamate allocativa e valutativa. La prima sta a indicare la differente allocazione di donne e uomini nel mercato del lavoro, per cui è più probabile trovare un maggior numero di donne nelle occupazioni meno redditizie; la seconda riguarda la minor valutazione del lavoro delle donne rispetto a quello degli uomini anche quando svolgono gli stessi compiti, con capacità quindi comparabili.
Di certo non si esauriscono così tutte le varie forme di discriminazione, ma l’ipotesi è che queste discriminazioni siano l’effetto di un pregiudizio di genere. E’ per questo motivo che la questione della parità di genere e della disparità salariale tra donne e uomini è al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica mondiale, tanto da essere al quinto punto dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite, nonché uno dei pilastri nei progetti del PNRR.
L’Italia, proprio per mettere in atto strategie concrete e verificabili per ridurre il divario di genere, ha redatto nel luglio 2021, per la prima volta, la “Strategia Nazionale per la Parità di genere 2021-2025”.
Uno degli strumenti previsti dalla strategia è la Certificazione della Parità di Genere, istituita poi formalmente dalla Legge 5 novembre 2021 n.162.
2. Il gender pay gap e la Legge sulla parità salariale n.162/2021
Il divario retributivo di genere nel nostro Paese, come evidenziato in premessa, rappresenta un problema molto grave e sentito. Ciò emerge dal World Economic Forum che, con il suo Global Gender Gap Report, ci indica anno per anno a che punto ci collochiamo come Paese per quanto riguarda il divario di diseguaglianza di genere.
Il Global Gender Gap Index è stato introdotto nel 2006 e fornisce un quadro dei divari di genere in tutto il mondo, evidenziando anche la classifica dei Paesi. L’edizione del 2023 del Global gender gap Report del World Economic Forum evidenzia un dato importante: il livello di parità di genere nel mondo è passato da 68,1% del 2022 a 68,4% nel 2023. Questo miglioramento pari a 0,3 punti percentuali significa che a livello globale si stima che ci vorranno circa 131 anni per raggiungere la piena parità di genere (un anno e mezzo in meno rispetto a quanto stimato l’anno precedente).
Circa la situazione italiana, il World Economic Forum del 2023 attesta che l’Italia scende di alcune posizioni: dal 63esimo posto nel 2022 al 79esimo posto nel 2023 su 153 Paesi: da qui l’esigenza di interventi normativi più consoni ad una reale promozione della parità di genere in una prospettiva dove, ridurre il divario retributivo, significa cambiare paradigma, indicatori e logiche delle organizzazioni del lavoro. In questa direzione va la Legge 5.11.2021 n. 162, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 18 novembre 2021 e rubricata “Modifiche al codice di cui al decreto legislativo 11 aprile 2006, n.198 e altre disposizioni in materia di pari opportunità tra uomo e donna in ambito lavorativo”.
La legge, dai più denominata legge sulla parità salariale, contiene varie modifiche ed integrazioni al codice delle pari opportunità (D.lgs. 198/2016), con una serie di interventi atti a contrastare il gap retributivo di genere. Essa favorisce la trasparenza e le buone pratiche in materia di parità di genere e cerca, con misure concrete, di scoraggiare le discriminazioni indirette per raggiungere la parità retributiva.
Le novità più rilevanti sono le seguenti:
- L’art. 2 della Legge 5 novembre 2021, n.162, va a modificare e implementare l’art. 25 del D.lgs. n.198/2006 con l’integrazione della nozione di discriminazione diretta e indiretta (di cui all’art. 25 del codice pari opportunità). In particolare, tra le fattispecie discriminatorie, vengono inseriti anche gli atti di natura organizzativa o incidenti sull’orario di lavoro o che limitino lo sviluppo di carriera per la donna. La nozione di discriminazione è estesa anche agli atti compiuti nei confronti di “candidate e candidati in fase di selezione del personale” e non più solamente alle lavoratrici e ai lavoratori.
- L’art.3 della Legge 5 novembre 2021, n.162, di notevole impatto, modifica l’art. 46 del D.lgs. n.198/2006, estendendo, in capo ad aziende che occupano oltre i cinquanta dipendenti (prima la norma prevedeva la soglia di 100 dipendenti), l’obbligo di redigere un rapporto sulla situazione del personale maschile e femminile almeno ogni due anni. A chi viola detto obbligo saranno sospesi per un anno i benefici eventualmente goduti (se l’inerzia si protrae per oltre un anno dall’invito ad adempiere).
- L’art. 4 della Legge 5 novembre 2021, n.162, con l’introduzione del nuovo art. 46 bis del D.lgs n.198/2006 (Codice delle Pari Opportunità), ha istituito dal 1 gennaio 2022 la certificazione della parità di genere volta ad attestare l’efficacia delle politiche e delle misure organizzative adottate dal datore di lavoro al fine di ridurre il divario di genere, in relazione alle opportunità di carriera, ai livelli retributivi a parità di mansione, alle politiche per la gestione delle differenze di genere e alla tutela della maternità.
Obiettivo della nuova legge sulla parità salariale, è quello di sostenere le aziende “sane” che rispettano e diffondono le buone pratiche in materia di uguaglianze di genere.
3. La certificazione della parità di genere. Profili normativi
La Certificazione della Parità di Genere è stata istituita formalmente dalla Legge 5 novembre 2021 n.162, laddove all’art. 4 ha inserito il nuovo art. 46 bis all’interno del Codice delle Pari Opportunità (Dlgs. n.198/2006). L’obiettivo è incentivare le imprese a politiche di sostenibilità aziendale, volte a “ridurre il divario di genere in relazione alle opportunità di crescita in azienda, alla parità salariale e parità di mansioni, alle politiche di gestione delle differenze di genere e alla tutela della maternità”.
La finalità è quella di migliorare la possibilità per le donne di accedere al mercato del lavoro, di leadership e di armonizzazione dei tempi vita. Al fine di promuovere l’adozione della certificazione della parità di genere da parte delle imprese, il sistema prevede un principio di premialità che si realizza con l’introduzione di meccanismi di incentivazione.
Più nello specifico, in base all’art. 5, comma 2, della legge 5 novembre 2021 n. 162, alle aziende private che siano in possesso della certificazione della parità di genere è concesso un esonero dal versamento di una percentuale dei complessivi contributi previdenziali a carico del datore di lavoro per il settore privato, quale attestazione del loro concreto impegno per la riduzione delle disparità di genere.
Va precisato che, ai sensi del decreto del Ministro per le pari opportunità e la famiglia del 29 aprile 2022, potranno accedere all’esonero contributivo soltanto le imprese in possesso della certificazione rilasciate da Organismi di certificazione accreditati alla Prassi di riferimento UNI/PdR 125:2022.
Il 20 ottobre 2022è stato poi adottato dal Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con i Ministri per le pari opportunità e la famiglia e dell’economia e delle finanze, il decreto attuativo dell’art. 5 l n.162/2022, che ha definito i criteri e le modalità di concessione di tale esonero, per il quale serve apposita domanda all’INPS.
Sempre la Legge n.162/2021 ha riconosciuto (art. 5, comma 3) alle aziende, che alla data del 31 dicembre dell’anno precedente a quello di riferimento siano in possesso della certificazione della parità di genere, un punteggio premiale per la valutazione di proposte progettuali da parte di autorità titolari di fondi europei nazionali e regionali, ai fini della concessione di aiuti di Stato a cofinanziamento degli investimenti sostenuti.
Ancora, il decreto legge 30 aprile 2022, n. 36recante “Ulteriori misure urgenti per l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza”, art. 34, ha introdotto nel “Codice dei contratti pubblici”, rispettivamente agli articoli n. 93 e n. 95 del decreto legislativo n. 50 del 2016, una diminuzione della garanzia prevista per la partecipazione alle procedure di gara da parte di aziende certificate, oltre alla possibilità per le amministrazioni aggiudicatrici di istituire sistemi premiali legati al possesso della certificazione di genere.
4. Il primo passo verso la certificazione: informazione e formazione sulla normativa in tema di parità di genere nei luoghi di lavoro
L’azienda che aspira alla certificazione deve dotarsi di una politica globale di parità di genere e, a tal fine, dovrà istruire il personale ad una nuova cultura aziendale, che rimuova gli stereotipi e sia improntata alla inclusione e valorizzazione della diversità.
Una delle prime fasi del processo volto ad ottenere la certificazione di genere è, dunque, quella conoscenza all’interno dell’azienda della normativa volta al contrasto delle discriminazioni di genere nei luoghi di lavoro e degli strumenti di tutela. In tal senso un importante contributo può essere dato dall’avvocato giuslavorista, cui le aziende potrebbero rivolgersi onde procedere alla necessaria formazione sia dei lavoratori sia dei datori di lavoro.
Il benessere organizzativo aziendale ha infatti un’importanza cruciale e sono fondamentali la consapevolezza ed il rispetto della dignità personale del lavoratore, proprio per contrastare le discriminazioni basate sul genere nei luoghi di lavoro. In tal senso é di primaria importanza conoscere il Codice delle Pari Opportunità (D.Lgs 198/2006), ancora poco conosciuto, e, soprattutto, poco “invocato” nelle aule giudiziarie, nonostante esso costituisca la prima forma di tutela giurisdizionale specifica in materia di discriminazioni di genere nei luoghi di lavoro.
4.1. Le tutele nel Codice delle pari opportunità
Da un punto di vista giuridico, con riferimento alla tutela legale, la normativa che regola nel nostro ordinamento le discriminazioni di genere nei luoghi di lavoro è contenuta nel d.lgs.198/06, il cosiddetto “Codice delle pari opportunità”, agli articoli 25 e successivi.
Esso rappresenta la fonte giuridica nazionale vigente in materia di parità e pari opportunità fra uomo e donna e, da un punto di vista processuale, esso rappresenta il primo riconoscimento della necessità di una tutela giurisdizionale specifica in materia di discriminazioni di genere nei luoghi di lavoro. La vera novità della normativa resta quella di avere dato uno strumento di tutela stragiudiziale e processuale ad una figura di garanzia, la/il Consigliera/e di parità, definendone compiti e funzioni.
All’interno del Codice delle Pari Opportunità sono individuate le fattispecie tipiche di discriminazione: in particolare l’art. 25 definisce le fattispecie di discriminazione diretta e indiretta. Nell’ambito della discriminazione di genere rientra anche il concetto di molestie, al quale si affianca quello di molestie sessuali che vengono definite, dall’art. 26 del Codice delle pari opportunità, come comportamentiindesiderati a connotazione sessuale espressi in forma fisica, verbale e non verbale, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima di disagio o intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo.
Le singole azioni giudiziali contro le discriminazioni esclusivamente legate al genere sono disciplinate nel Codice Pari Opportunità dagli artt. 36 al 41bis.
L’art. 36 (Legittimazione processuale) prevede che chi intende agire in giudizio per la dichiarazione delle discriminazioni poste in essere in violazione dei divieti di cui al Codice Pari opportunità (ad es. art. 25 discriminazione e art. 26 molestie e molestie sessuali) e non ritiene di avvalersi delle procedure di conciliazione previste dai contratti collettivi, può promuovere il tentativo di conciliazione ai sensi dell’articolo 410 del codice di procedura civile, anche tramite la/il Consigliera/e di Parità.
Tale norma rafforza e dà estremo rilievo alla funzione istituzionale svolta dalle/dai Consigliere/i di Parità, nei casi di discriminazione e molestie di genere, che si esprime nell’assistenza alle singole vittime e nell’azione giudiziaria, con legittimazione diretta in caso di discriminazione a carattere collettivo e diritto di costituirsi parte civile in caso di azione penale.
Il tentativo di conciliazione, infatti, appare molto più proficuo allorquando la parte si rivolga all’istituzione pubblica per essere coadiuvata nella denuncia degli atti discriminatori, ovvero la Consigliera di Parità, che è pubblico ufficiale ed agisce gratuitamente su delega della lavoratrice o del lavoratore che si rivolga al suo ufficio.
La/il Consigliera/e può convocare, con azione informale, il datore di lavoro, al fine di verificare i fatti e trovare, quando è possibile, un accordo.
L’obiettivo principale della figura di garanzia è quello di tutelare il più possibile il principio di non discriminazione, ricercando una soluzione che tuteli i diritti della lavoratrice o del lavoratore e migliori il clima aziendale, facendo comprendere, a chi spesso neppure lo intravede, il comportamento discriminatorio vietato ed eventualmente concordando un piano di azioni positive all’interno della struttura imprenditoriale.
Questa procedura è quella da privilegiare in quanto porta a risultati efficaci e soddisfacenti per entrambe le parti.Se il tentativo di conciliazione non va a buon fine, viene redatto un verbale di mancato accordo che potrà essere prodotto e valutato nella eventuale successiva fase giudiziale.
In caso di mancata conciliazione, la vittima di molestie può far ricorso al Giudice, in funzione dei Giudice del Lavoro, per violazione dei divieti previsti all’interno del Codice delle Pari Opportunità, anche tramite la Consigliera di Parità, dietro espressa delega, oppure tramite proprio difensore. In tale ipotesi la Consigliera di Parità può fare un intervento autonomo ad adiuvandum.
Provvedimento del giudice (Art. 38 Codice Pari Opportunità): il Giudice, qualora la vittima di condotte discriminatorie e molestie proceda in sede giudiziale, a fronte dell’accertata discriminazione, può ordinare la cessazione della condotta, condannare il convenuto al risarcimento del danno anche non patrimoniale1 e può rimuovere l’atto discriminatorio pregiudizievole adottando, anche nei confronti della pubblica amministrazione, ogni provvedimento idoneo a rimuoverne gli effetti.
Il risarcimento patrimoniale alla parte discriminata non dovrà essere puramente simbolico, ma effettivamente compensativo del pregiudizio subito; quel che viene in rilievo in tutto il diritto antidiscriminatorio è proprio la lesione del diritto primario della persona e dell’interesse pubblico incarnato nell’istituzione preposta alla sua tutela: dunque tutt’al più saranno la gradazione della condotta illegittima del soggetto agente, le modalità del fatto, la sua durata, la sua offensività che potranno determinare l’entità del risarcimento del danno non patrimoniale.
Onere della prova.
Sul versante giudiziario il diritto antidiscriminatorio si rivela particolarmente efficace in virtù della parziale inversione dell’onere della prova. La norma regolatrice degli oneri di prova della sussistenza o meno della discriminazione si trova nell’art. 40 Codice pari Opportunità: Quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico relativi alle assunzioni, ai regimi retributivi, all’assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera ed ai licenziamenti, idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso, spetta al convenuto l’onere della prova sull’insussistenza della discriminazione.
Vittimizzazione.
All’interno del Codice Pari Opportunità è prevista una norma specifica per evitare/vietare la vittimizzazione della parte lesa, ovvero l’art. 41-bis Codice Pari opportunità: “ La tutela giurisdizionale di cui al presente capo si applica, altresì, avverso ogni comportamento pregiudizievole posto in essere, nei confronti della persona lesa da una discriminazione o di qualunque altra persona, quale reazione ad una qualsiasi attività diretta ad ottenere il rispetto del principio di parità di trattamento tra uomini e donne.
Con tale disposizione si sono intesi contrastare quei comportamenti ritorsivi e pregiudizievoli contro coloro che hanno denunciato una discriminazione di genere in ambito lavorativo e contro qualunque altra persona che abbia svolto un ruolo solidale a favore della parte discriminata (ad es. colleghi che abbiano testimoniato in giudizio in favore del soggetto discriminato), prevedendo la medesima tutela giurisdizionale avanti il Tribunale in funzione di giudice del lavoro.
La protezione riguarda dunque non solo chi è stato leso direttamente da una discriminazione, ma anche chi ha agito per il rispetto della parità di trattamento, esponendosi a ritorsioni Prevenzione delle discriminazioni ex art. 50 bis Codice della Pari Opportunità: i contratti collettivi possono prevedere misure specifiche, ivi compresi codici di condotta, linee guida e buone prassi, per prevenire tutte le forme di discriminazione sessuale e, in particolare, le molestie e le molestie sessuali nel luogo del lavoro, nelle condizioni di lavoro, nonché nella formazione e crescita professionale. Importanti misure volte a prevenire molestie e violenze nei luoghi di lavoro sono i codici aziendali, siano essi codici etici o di condotta, intesi comunque come atti di autonormazione all’interno di un ente o di una azienda, pubblica o privata che sia. T
ali strumenti si inseriscono nella gerarchia delle fonti in posizione sussidiaria, poiché integrano, affiancano e supportano le regole contenute nei contratti collettivi e nelle leggi, specialmente nell’ambito del pubblico impiego, nella normativa interna (circolari, regolamenti, ecc..).
I Codici etici e/o di condotta esistenti oggi nelle Pubbliche Amministrazioni, come in molte grandi aziende private, sono stati redatti a partire dagli anni 90 e hanno subito nel tempo una profonda evoluzione in termini di ambiti di tutela, di competenze e di effettiva prevenzione. La finalità è quella di disciplinare azioni positive volte a realizzare, quanto più possibile, un clima favorevole rispetto alla dignità delle lavoratrici e dei lavoratori. In questi codici è implicita l’inclusione, con procedure di intervento mirate, delle fattispecie più critiche quali, appunto, molestie sessuali o mobbing. I codici etici o di condotta prevedono normalmente anche strumenti di attuazione della prevenzione o repressione delle violenze o molestie: in molti casi i Codici fanno espresso riferimento a soggetti con competenze specifiche quali i/le Consiglieri/e di fiducia, figura prevista dalla normativa europea e in particolare dalla Risoluzione del Parlamento Europeo A3/0043/94.
Questa figura nasce nell’ambito della tutela dalle molestie sessuali e delle discriminazioni di genere, quale “professionista di fiducia della azienda” (pubblica o privata) chiamato ad attuare il Codice di condotta con l’obiettivo di eliminare i fattori negativi e di promuovere un clima favorevole nel luogo di lavoro, secondo precise procedure (prevalentemente attraverso una procedura informale, diretta a prevenire, mediare e risolvere i conflitti).
4.2. Convenzione Oil sulla violenza e le molestie nel mondo del lavoro
Il 29 Ottobre 2021 l’Italia ha completato il processo di ratifica della Convenzione OIL del 2019 sulla violenza e le molestie nel mondo del lavoro (n. 190), alla presenza del Direttore Generale dell’OIL, diventando il nono Paese al mondo — e il secondo in Europa — a ratificare il trattato internazionale Il provvedimento riconosce, innanzitutto, nella violenza e nelle molestie sul lavoro ipotesi di abuso o violazione dei diritti umani capaci di rappresentare una minaccia alle pari opportunità.
La convenzione, accompagnata dalla Raccomandazione n. 206 del 21/06/2019, che ne specifica meglio i dettagli, arricchiscono il codice internazionale del lavoro e promuovono il rafforzamento della legislazione, delle politiche e delle istituzioni nazionali al fine di rendere effettivo il diritto ad un mondo del lavoro libero da violenza e molestie. Viene riconosciuto che la violenza e le molestie nel mondo del lavoro sono inaccettabili e incompatibili con il lavoro dignitoso (OIL).
La convenzione e la raccomandazione si articolano su tre pilastri principali:
- protezione e prevenzione;
- verifica dell’applicazione e meccanismi di ricorso e di risarcimento;
- orientamento, formazione e sensibilizzazione.
La Convenzione muove dal presupposto che nessuno deve essere vittima di violenza e molestie nel mondo del lavoro. Quanto agli strumenti di tutela e all’apparato sanzionatorio, la Convenzione all’art.10 enuncia l’obbligo di istituire meccanismi di controllo sull’applicazione delle leggi che vietano la violenza e le molestie nei luoghi di lavoro, nonché meccanismi di ispezione e di indagine efficaci anche attraverso gli Ispettorati del lavoro, di assicurare il diritto di accedere a strumenti di ricorso e risarcimento adeguati.
Gli obblighi derivanti dalla Convenzione possono consentire di estendere e rafforzare il sistema di tutele già esistenti nel nostro ordinamento. Quello delle molestie e delle violenze nei luoghi di lavoro è un fenomeno sempre più diffuso che spesso si alimenta della situazione di subalternità tra chi subisce la violenza e chi la compie.
4.3 La responsabilità del datore di lavoro
I datori di lavoro sono tenuti, ai sensi dell’articolo 2087 del codice civile, ad assicurare condizioni di lavoro tali da garantire l’integrità fisica e morale e la dignità dei lavoratori. In capo al datore di lavoro grava inoltre l’obbligo di prevenzione del rischio dai danni psicosociali, conseguenti a molestie e ad ogni tipo di vessazione nei luoghi di lavoro, ipotesi normata anche dal Testo Unico per la sicurezza sul lavoro (D. Lgs.81/2008) laddove, all’art.2 co.1, lett. O, si definisce lo stato di salute quale: “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non consistente solo in un’assenza di malattia o d’infermità”.
Il D.Lgs. n. 81/2008 si applica a tutti i settori di attività, privati e pubblici, e a tutte le tipologie di rischio (art. 3 comma 1). Esso definisce la prevenzione come «il complesso delle disposizioni o misure necessarie anche secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, per evitare o diminuire i rischi professionali nel rispetto della salute della popolazione e dell’integrità dell’ambiente esterno (art. 2 comma 1)». L’uniformità della tutela anche con riguardo alle differenze di genere rientra tra le “finalità” del Testo Unico D. Lgs.81/2008, aggiornato con le modifiche apportate, da ultimo, dal D.L. 4 maggio 2023, n. 48, convertito, con modificazioni, dalla L. 3 luglio 2023, n. 85, come emerge dalle seguenti norme.
L’art.1 comma 1 D.Lgs. 81/08 (“Finalità”), prevede che “il presente decreto legislativo persegue le finalità di cui al presente comma […] garantendo l’uniformità della tutela delle lavoratrici e dei lavoratori sul territorio nazionale attraverso il rispetto dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, anche con riguardo alle differenze di genere, di età e alla condizione delle lavoratrici e dei lavoratori immigrati”. L’articolo 28 comma 1 del D.Lgs.81/08 (“Oggetto della valutazione dei rischi”) prevede che “la valutazione di cui all’articolo 17, comma 1, lettera a), anche nella scelta delle attrezzature di lavoro e delle sostanze o dei preparati chimici impiegati, nonché nella sistemazione dei luoghi di lavoro, deve riguardare tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro-correlato, secondo i contenuti dell’accordo europeo dell’8 ottobre 2004, e quelli riguardanti le lavoratrici in stato di gravidanza, secondo quanto previsto dal D.Lgs.151/01, nonché quelli connessi alle differenze di genere, all’età, alla provenienza da altri Paesi e quelli connessi alla specifica tipologia contrattuale attraverso cui viene resa la prestazione di lavoro.”
Quindi assumerà autonoma rilevanza anche la figura del Responsabile della Sicurezza sul lavoro, il quale, secondo quanto espressamente previsto dall’art. 28 co. 1 del Testo Unico, dovrà richiedere che la valutazione dei rischi di danno stress lavoro-correlato del personale riguardi tutti i rischi per la sicurezza e la salute, ivi compresi quelli riguardanti le lavoratrici in stato di gravidanza e quelli connessi alle differenze di genere.
E’ ben vero infatti che, ai sensi dell’art. 2087 c.c., l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa tutte le misure necessarie a tutelare non solo l’integrità fisica ma anche la personalità morale dei dipendenti e che tale obbligo di protezione impone al datore di lavoro, cui sia noto il compimento di atti discriminatori nell’ambito dell’impresa, di intervenire.
E, quindi, ad esempio, è importante informare le aziende che, se anche l’atto discriminatorio o molesto è effettuato da un collega di lavoro, il datore di Lavoro ha l’obbligo di intervenire mettendo in sicurezza la vittima e sanzionando il dipendente molestatore, altrimenti, proprio sulla scorta dell’art.2087 c.c., può essere chiamato dalla vittima a rispondere in prima persona dinanzi al Giudice del Lavoro.
5. Certificazione della parità di genere e profili operativi: requisiti e benefici
In attuazione delle previsioni del nuovo articolo 46 bis del codice delle pari opportunità, è stato emanato il Decreto 29 aprile 2022, che fornisce importanti indicazioni operative per il conseguimento e il mantenimento della certificazione di genere. In particolare esso precisa che i parametri minimi per il conseguimento della certificazione della parità di genere alle imprese sono quelli di cui alla Prassi di riferimento UNI/PdR 125:2022, pubblicata il 16 marzo 2022, contenente le linee guida sul sistema di gestione per la parità di genere che prevede l’adozione di specifici KPI (Key Performance Indicator - indicatori chiave di prestazione) inerenti alle politiche di parità di genere nelle organizzazioni.
Al rilascio della certificazione alle imprese, in conformità alla UNI/PdR 125:2022, provvedono gli organismi di valutazione accreditati in questo ambito ai sensi del regolamento (CE) n. 765/2008.
La certificazione della parità di genere avviene su base volontaria, è soggetta a monitoraggio (audit di sorveglianza a 12 e 24 mesi), e comporta una serie di benefici per le imprese che ne siano dotate:
a) riconoscimento di un punteggio premiale per l’accesso a finanziamenti europei (art. 5, comma 3, L. 162/2021);
b) riconoscimento di un punteggio premiale nelle gare d’appalto pubbliche (art. 95, comma 13, del D.lgs. 50/2016);
c) riduzione del 30 % della garanzia fideiussoria per la partecipazione alle gare d’appalto pubbliche (art. 93, comma 7, del D.lgs. 50/2016)
d) per i datori privati, sgravio dal versamento di contributi previdenziali dell’1% e sino a massimo 50.000 euro/anno (= euro 4.166,66/mese, in relazione alle mensilità di validità della certificazione di genere): quest’ultimo beneficio, introdotto inizialmente solo per il 2022 dall’art. 5, L. 162/2021, è stato stabilizzato con il Decreto Interministeriale 20.10.2022 pubblicato il 28.11.2022 , recante anche il dettaglio della disciplina sull’esonero, ulteriormente circostanziata dall’Inps con la Circolare n. 137 del 27.12.2022.
L’azienda che aspira alla certificazione deve dotarsi di una politica globale di parità di genere e del relativo sistema di gestione, partendo dalla nomina di un Comitato di alto profilo (AD-Presidente o DG, il Direttore del personale, ed eventuale anche Consulente esterno), cui compete redigere il piano strategico, assumere i conseguenti provvedimenti e formalizzare un documento, da pubblicare sul proprio sito, in cui siano definiti:
– obbiettivi concernenti l’uguaglianza di genere, che siano “semplici, misurabili, raggiungibili, realistici, pianificati nel tempo ed assegnati come responsabilità di attuazione;
– strategie per realizzare detti obbiettivi;
– risorse e budget adeguati.
I passi fondamentali da realizzare sono: informazione e formazione: istruire il personale ad una nuova cultura aziendale, che rimuova gli stereotipi e sia improntata alla inclusione e valorizzazione della diversità, a partire dalla comunicazione; revisione dei modelli gestionali ed organizzativi: necessario rivedere/creare le policy per adeguarle ai requisiti quantitativi e qualitativi richiesti per l’ottenimento della certificazione di genere; nomina di un Referente cui inviare, anche in forma anonima, segnalazioni e reclami per situazioni rilevanti ai fini della discriminazione, da coinvolgere e consultare su tematiche di inclusione e per valutare l’impatto di nuove misure aziendali; autovalutazione costante durante il percorso di adeguamento, per misurare i progressi e verificare le chances di ottenimento della certificazione.
Il datore di lavoro deve poi fornire annualmente, alle rappresentanze sindacali aziendali e alle consigliere e consiglieri territoriali e regionali di parità, anche sulla base delle risultanze dell’audit interno, un’informativa aziendale sulla parità di genere, che rifletta il grado di adeguamento alle prassi UNI/PdR 125:2022; ciò al fine di consentire loro di esercitare il controllo e la verifica del rispetto dei requisiti necessari al mantenimento dei parametri minimi per il conseguimento della certificazione della parità di genere.
È inoltre previsto che le rappresentanze sindacali aziendali e le/i consigliere/i territoriali e regionali di parità, qualora sulla base dell’informativa aziendale di cui sopra e dei dati risultanti dal Rapporto biennale sulla situazione del personale maschile e femminile di cui all’art. 46 del Decreto Legislativo 11 aprile 2006, n. 198 (per le aziende che siano tenute a presentarlo) rilevassero anomalie o criticità, potranno segnalarle all’organismo di valutazione della conformità che ha rilasciato la certificazione della parità di genere, previa assegnazione all’impresa di un termine, non superiore a centoventi giorni, per la rimozione delle stesse.
6. Violazioni che precludono la certificazione di genere
Esistono alcune ipotesi che precludono la possibilità di conseguire la certificazione di genere:
a) violazioni delle norme a tutela della genitorialità (per 2 anni dall’accertamento): rifiuto/opposizione all’ottenimento di congedo di paternità, congedo di maternità, congedo parentale, riposi giornalieri, permessi e riposi riconosciuti per il figlio disabile in situazione di gravità;
b) omessa priorità alla richiesta del genitore-lavoratore di poter svolgere la propria attività anche in regime di lavoro agile, laddove adottato dall’azienda (art. 18, c. 3-ter della Legge n. 81/2017);
c) assenza di misure di conciliazione vita/lavoro;
d) presenza di comportamenti discriminatori, diretti o indiretti, nei vari aspetti dell’attività lavorativa: selezione, remunerazione, orario lavorativo, ferie, maternità, garanzia occupazionale, incarico, formazione, valutazione di performance, avanzamento di carriera e salariale, sicurezza e salute, conclusione dell’impiego;
e) omessa presentazione del rapporto sulla situazione del personale per le imprese con oltre 50 dipendenti. Su punto il D.lgs. n.105/2022 (cd “Decreto Congedi”), dando attuazione alla Direttiva UE 2019/1158, ha modificato alcune disposizioni normative (tra cui il D. Lgs. N.151/2001, la L. n.104/1992 e la L.81/17), con lo scopo di rafforzare il sistema di tutele in tema di pari opportunità, potenziando gli strumenti sanzionatori con ripercussioni anche sulla possibilità di ottenere la certificazione di genere.
7. Conclusioni
La certificazione della parità di genere e lo sforzo del legislatore volto alla sua introduzione, sono senz’altro tesi ad incentivare una effettiva politica di parità e di trasparenza all’interno delle aziende contribuendo seriamente al benessere di lavoratrici e lavoratori, così come alla produttività e alla sostenibilità aziendale.
Ciò potrebbe portare a quel necessario cambiamento culturale che è la base di partenza per raggiungere la parità di genere e che potrebbe essere un importante cambio di passo nel lungo e difficile percorso volto a superare il gender gap.
Sul tema, a conclusione della disamina, un cenno merita la nuova direttiva europea sulla parità salariale: al fine di colmare il divario retributivo esistente tra uomini e donne (gender pay gap), l’Unione Europea ha messo a punto la direttiva n. 970/2023, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione il 17 maggio 2023 ed entrata in vigore nei 20 giorni successivi.
La direttiva (che si applica sia al settore pubblico che a quello privato) impatterà sui processi di ricerca e selezione del personale, ma soprattutto sul tema delle retribuzioni.
Innanzitutto, le offerte di lavoro dovranno essere neutre sotto il profilo di genere e le procedure di selezione del personale dovranno essere condotte in modo non discriminatorio. In materia retributiva, in particolare, viene introdotta una disposizione che sancisce il diritto dei lavoratori di conoscere lo stipendio dei propri colleghi e di chiedere il risarcimento dei danni all’azienda se, a parità di mansioni, la busta paga risulterà inferiore.
La direttiva poi, per combattere la discriminazione retributiva, impone anche un obbligo di comunicazione dei livelli salariali di uomini e donne per le aziende di più grandi dimensioni. In particolare, quelle con più di 250 dipendenti, saranno tenute a riferire annualmente all’autorità nazionale competente in merito al divario retributivo all’interno della propria organizzazione.
Le norme comunitarie dovranno essere recepite dal nostro Paese entro il 7 giugno 2026 e sono finalizzate ad aumentare la trasparenza all’interno delle organizzazioni aziendali. Il concetto di trasparenza non viene tuttavia declinato a livello individuale, nel senso che difficilmente, dopo il recepimento della direttiva, verrà introdotto il diritto di conoscere lo stipendio di un singolo collega.
Si agirà invece probabilmente su dati aggregati, suddivisi per sesso e per livello professionale. La trasparenza retributiva dovrebbe consentire, così, alle lavoratrici e ai lavoratori, di individuare e contrastare eventuali discriminazioni tra donne e uomini e pregiudizi di genere nei sistemi retributivi. Inoltre, potrebbe contribuire a sensibilizzare i datori di lavoro sulla questione e aiutarli a individuare disparità retributive discriminatorie basate sul genere, che non possono essere spiegate da validi fattori discrezionali e che potrebbero essere anche involontarie.
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