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1.Obbligo di informazione e attività professionale
Gli obblighi informativi nelle relazioni contrattuali, oltre ad essere sottoposti alla continua attenzione della giurisprudenza, sono ampiamente esplorati dalla dottrina, con una produzione che non è arduo definire «monumentale»; i limiti dettati dalla presente sede impongono di tralasciare il richiamo alle questioni relative al fondamento (anche costituzionale) dell’informazione, alla sua rilevanza autonoma (con «affrancamento» rispetto alla buona fede) ed agli effetti connessi– sotto molteplici aspetti - alla sua violazione, per concentrare la riflessione su un profilo che invece potrebbe apparire carente di risultanze completamente consolidate, ossia quello relativo all’obbligo di informazione che incombe sul professionista intellettuale.
Invero, nessuno dubita che il professionista sia tenuto ad informare, in modo chiaro e completo, la propria controparte in merito a tutti gli aspetti rilevanti del rapporto contrattuale; tuttavia può essere lecito domandarsi se la particolare diligenza richiesta al professionista intellettuale possa dare ingresso ad una diversa considerazione dell’obbligo informativo.
In particolare, ci si chiede: tale obbligo potrebbe avere valenza differenziata se una parte contrattuale è un professionista intellettuale? In altre parole, è possibile declinare in modo peculiare l’obbligo informativo quando esso si riferisce ad un professionista?
In merito può ricordarsi che il comma 2 dell’art. 1176 c.c. richiede al professionista una diligenza da valutarsi con riguardo alla «natura dell’attività esercitata», quindi certamente diversa da quella genericamente riferita dal comma 1 al «buon padre di famiglia»; sul punto, dottrina e giurisprudenza hanno chiarito che la differenziazione si modula non già sull’aspetto quantitativo, bensì su quello qualitativo, facendo riferimento ad una diligenza non «maggiore» bensì «qualificata».1
La natura dell’attività esercitata è dunque destinata a ripercuotersi anche sull’obbligo informativo, e di conseguenza ad incidere in modo peculiare sulla responsabilità, ponendo una serie di quesiti ai quali non sempre sono state date risposte univoche.
2. Informazione e responsabilità medica
Nella trattazione del tema che ci occupa, un’attenzione particolare va certamente rivolta alla responsabilità medica, ove la disciplina generale in tema di obbligazioni e responsabilità professionale va integrata da normative specifiche.
In merito è necessario ricordare che la L. n. 219/2017 (c.d. legge sul biotestamento, ovvero sulle disposizioni anticipate di trattamento) ha inserito una previsione specifica in tema di consenso informato, dando veste formale ad un’esigenza da tempo molto avvertita in dottrina e – naturalmente – già ricavabile da principi fondamentali (artt. 2, 13 e 32 Cost., artt. 1, 2 e 3 Carta Diritti Fondamentali UE, Convenzione di Oviedo2) che vengono puntualmente richiamati nell’art. 1, comma 1, in quanto fondamenti del “diritto alla vita, alla salute, alla dignità ed all’autodeterminazione della persona”3 .
La disciplina contenuta nel comma 3 del medesimo art. 1 individua in modo puntuale i caratteri delle indicazioni che devono essere fornite al paziente, stabilendo che ogni persona ha diritto di essere informata in modo “completo, aggiornato e a lei comprensibile” riguardo alle proprie condizioni di salute e ai trattamenti sanitari che si reputano opportuni, nonché alle possibili alternative ed alle ipotetiche conseguenze in caso di rifiuto 4.
Occorre sottolineare come la norma si riferisca non già ad una comprensibilità in astratto, ma alla comprensione concreta del paziente (come ben si evince dall’inciso “a lei”), ponendo un obbligo di informazione ritagliato sulla singola persona, che deve essere messa in grado di conoscere e capire.
Sul punto, può peraltro precisarsi che se l’informazione risultasse priva dei suindicati caratteri, darebbe luogo ad un consenso non informato, e dunque non validamente prestato, con violazione – tra l’altro – della libertà di autodeterminazione.5
La giurisprudenza che ha affrontato in modo sistematico le questioni legate al consenso prestato dal paziente, ha chiarito con nettezza la differenza fra danno alla salute e danno alla lesione del diritto all’autodeterminazione, statuendo che entrambi sono possibili esiti della violazione degli obblighi informativi, ma tuttavia sono autonomi e diversi: il primo si riferisce al caso in cui sia ragionevole ritenere che il paziente, se correttamente informato, avrebbe rifiutato di sottoporsi al trattamento onde non subirne le conseguenze invalidanti, mentre il secondo è predicabile quando il paziente, a causa del deficit informativo, ha subito un pregiudizio diverso dalla lesione del diritto alla salute. 6
In merito, particolarmente incisiva si rivela una pronuncia del 2019 che ha elaborato un vero e proprio elenco delle possibili situazioni che si collegano alla mancanza di consenso informato, 7 tra le quali si segnala la lesione della libertà di scelta per non aver compreso la valenza diagnostica dell’attività esercitata.8
Questo profilo richiama la «comprensibilità concreta» sopra riferita, e rende evidente come la “natura dell’attività esercitata” disegni un onere di diligenza – ex art. 1176, comma 2, c.c. – che va oltre la mera informazione, perché specifica gli obblighi del professionista imponendogli la verifica in merito all’effettiva consapevolezza dell’interlocutore; in altre parole, non sarà sufficiente aver informato il paziente, ma sarà altresì necessario verificare che egli abbia compreso le informazioni ed abbia acquisito tutti gli elementi necessari per compiere una scelta consapevole.
Ma è a questo punto che sorgono dubbi consistenti. Risulta infatti corrispondente a regola di normale esperienza che l’uomo comune, seppure ampiamente e chiaramente informato, possa non essere in grado di comprendere fino in fondo tutte le implicazioni connesse ad un trattamento sanitario: un esempio in tal senso è facilmente riscontrabile con riferimento alla vaccinazione, ove si è intervenuti con prescrizioni obbligatorie per i minori,9 giustificate dalla prevalenza dell’interesse della collettività sull’autodeterminazione dei singoli individui.
In assenza di interesse pubblico, è evidente che qualunque intervento sul singolo deve essere conforme alle previsioni contenute nell’art. 32 Cost., ove si stabilisce che nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizioni di legge e comunque senza mai violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana: di conseguenza, in caso di rifiuto, al medico è preclusa ogni azione.
Tuttavia, bisogna ancora una volta ricordare che la L. 219/97, quando parla di rifiuto del trattamento, si riferisce ad una scelta consapevole; di conseguenza, se non c’è piena consapevolezza e comprensione da parte del paziente, non solo il consenso ma lo stesso rifiuto delle cure sarebbero prestati in modo non conforme, esponendo il medico a responsabilità.10
Per chiarire il punto, può essere utile l’esempio del rifiuto di sottoporsi a trasfusione di sangue per motivi religiosi: la giurisprudenza ha costantemente affermato la legittimità del mancato consenso, ponendo una serie di questioni – che qui si tralasciano – con riferimento alle determinazioni che riguardano i minori 11, ma potrebbe sorgere il problema di vedersi opposta la mancata comprensione della gravità delle conseguenze del rifiuto da parte del paziente.
All’ultimo profilo occorre peraltro aggiungere un’altra considerazione: il comma 6 dell’art. 1 della ripetuta L. 219/97 prevede che il medico possa rifiutare trattamenti contrari “alle buone pratiche clinico – assistenziali”: quindi, a fronte della mancata accettazione dell’emotrasfusione, il medico potrebbe rifiutare un intervento chirurgico – anche necessario per la salvezza della vita – che comporti un forte rischio emorragico, a prescindere dal consenso prestato dal paziente con esclusivo riferimento alla prestazione chirurgica;12 in pratica, volendo usare un’espressione cruda, in tali casi il medico può rifiutare la cura.
Si evidenzia dunque la presenza di un equilibrio molto difficile fra autodeterminazione del paziente ed obblighi professionali del medico, difficoltà che si riscontra in tutti i casi ove la comprensione delle informazioni fornite dal professionista non può dirsi facilmente acquisibile dall’interlocutore.
Si pensi, ancora a titolo di esempio, all’attività del notaio: è davvero possibile immaginare che un «normale» - per quanto colto – individuo comprenda i sofisticati meccanismi della trascrizione, della prevalenza degli acquisti a titolo originario, degli effetti della comunione legale o del fondo patrimoniale, della pendenza di procedure esecutive con possibili interventi, della valenza tributaria delle operazioni, ecc.?
O, ancora, con riferimento alla prestazione dell’ingegnere: si può riuscire a rendere comprensibili i rischi geologici legati alla conformazione del terreno o le valutazioni relative ai calcoli del cemento armato? In tali (ed altri) casi, è presumibile che il soggetto non competente, semplicemente si «affidi» al professionista, ma qui si pone il successivo problema relativo alla circostanza secondo cui, se il professionista si accorge che il suo cliente non ha pienamente compreso i termini del suo intervento, dovrebbe rifiutare la prestazione, anche per tutelare la sua libertà di scelta. Da quanto esposto sorgono, peraltro, ulteriori questioni. La prima è relativa alla – già riferita – necessità che il professionista verifichi la comprensione del soggetto specifico, incorrendo in caso contrario in violazione del suo obbligo informativo; la seconda – più nevralgica – questione, attiene invece all’ipotesi in cui, per circostanze contingenti, il cliente non possa in alcun caso raggiungere la consapevolezza richiesta.
In merito, non sembra potersi ritenere che il professionista sia esonerato da responsabilità per il solo fatto di aver informato, e magari di aver fatto firmare al cliente il «consenso informato», poiché tale conclusione sarebbe contraria al disposto dell’art. 1229 c.c. (relativo alla nullità delle clausole di esonero da responsabilità) qualora il medesimo professionista si sia accorto, o avrebbe potuto accorgersi, della mancata consapevolezza dell’altra parte.
Emerge, dunque, una situazione peculiare, che sembrerebbe modularsi nel seguente modo: non basta informare, ma occorre altresì accertarsi che l’altro abbia compreso e, in caso contrario, rifiutare la prestazione professionale.
L’assunto che precede è evidentemente denso di profili problematici, che raggiungono la loro massima ampiezza con riferimento alla regolazione dei rapporti nella professione forense.
3. Informazione e responsabilità dell’avvocato
In tema di obblighi professionali dell’avvocato13, si è pacificamente ritenuto che tale professionista deve operare non solo secondo i canoni della diligenza qualificata, ma deve altresì compiere tutte le attività utili o necessarie a preservare gli interessi del cliente, tra le quali riveste importanza centrale fornire all’assistito un’informazione puntuale e completa, tale da metterlo in condizione di determinarsi consapevolmente14.
In assenza di una disposizione specifica in tal senso – come invece previsto in tema di attività medica – parte della giurisprudenza ha sostenuto che l’obbligo di informazione discende dal canone di buona fede oggettiva che determina la prestazione dovuta15, integrando il contenuto contrattuale16; in altre pronunce, invece, si è sottolineato che già «il combinato disposto di cui agli artt. 1176, comma 2, e 2236 c.c. impone all’avvocato di assolvere, sia all’atto del conferimento del mandato che nel corso dello svolgimento del rapporto, (anche) ai doveri di sollecitazione, dissuasione ed informazione del cliente», giungendo fino a sconsigliarlo dall’intraprendere o proseguire un giudizio dall’esito probabilmente sfavorevole17.
I limiti della presente sede non permettono un’analisi puntuale del fondamento degli obblighi informativi per i professionisti forensi18, ma appare di palmare evidenza che la “natura dell’attività esercitata”, idonea a qualificare la diligenza, impone all’avvocato di informare con continuità il proprio cliente, in modo da renderlo edotto anche di possibili diversi esiti della propria istanza a seguito di elementi fattuali emergenti dalle difese avverse, ovvero da modifiche legislative o mutamenti dell’orientamento giurisprudenziale; di conseguenza, il dovere di informare avrebbe rilevanza a prescindere dalla considerazione di meccanismi integrativi, poiché rileverebbe in fase di esecuzione della prestazione, dando luogo ad inadempimento o adempimento inesatto.
Per altro verso, certamente può convenirsi che l’individuazione della prestazione dovuta da (qualunque) debitore esula dal dato formale, per modellarsi con riferimento alla causa concreta del rapporto contrattuale19, e dunque – nel caso di specie – dell’incarico conferito all’avvocato; in tale ottica, è evidente che l’attività informativa deve necessariamente considerarsi parte necessaria e fondamentale del comportamento doveroso richiesto al professionista, poiché la funzione di tutela degli interessi (specifici) di (quel) cliente (ossia, l’interesse concreto che sorregge il contratto stipulato tra le parti) non potrebbe altrimenti realizzarsi.
Sul punto, meritano peraltro sicura attenzione le disposizioni contenute nel Codice deontologico forense20 che, pur nella piana consapevolezza della loro diversa rilevanza 21, rappresentano forti «indicatori» della modulazione dei rapporti tra avvocato e cliente o parte assistita, espressamente disciplinati nel titolo II del suddetto codice.
Il dovere di informazione, in particolare, è previsto dall’art. 27, che specifica come l’avvocato debba precisare al proprio assistito le possibili iniziative (da intraprendere) e le (diverse) ipotesi di soluzione; inoltre, l’art. 23 dispone chiaramente che “l’avvocato non deve consigliare azioni inutilmente dannose”22, dando forza al già citato dovere di dissuasione, che dunque appare complementare a quello informativo.
Con riferimento a tale ultimo profilo, la giurisprudenza afferma costantemente che l’obbligo di diligenza professionale impone all’avvocato di assolvere il dovere di dissuasione, consistente nello «sconsigliare» l’introduzione o la prosecuzione del giudizio23; tuttavia non sembrano esservi pronunce – o voci dottrinarie – che ipotizzino un onere di rifiuto della prestazione professionale a fronte di una richiesta palesemente priva di supporto giuridico o comunque evidentemente infondata, fatta salva naturalmente la necessità di rifiutare la prestazione quando si desuma che essa è finalizzata alla realizzazione di operazioni illecite (caso peraltro espressamente previsto dall’art. 23, comma 5, del Codice deontologico).
Sotto tale aspetto è possibile scorgere dunque una differenza con quanto affermato in tema di responsabilità medica: il sanitario, come già esposto, non solo «può» rifiutare la prestazione non conforme alle buone pratiche clinico-assistenziali, ma altresì «è tenuto» al rifiuto qualora l’attività non risponda all’interesse del paziente, incorrendo altrimenti in responsabilità professionale (si pensi alla richiesta di prescrizione di un farmaco che si ritiene inutile o dannoso).
Con riferimento all’attività dell’avvocato, invece, ci si limita a prescrivere un obbligo di dissuasione e ad affermare la – ovvia e sempre possibile – «libertà» di non accettare l’incarico, ma non sembra in alcun caso contemplata l’ipotesi di doverosità del rifiuto.
Tale posizione appare giustificata da una serie di importanti considerazioni: la necessità di tutelare interessi costituzionalmente protetti (il diritto di difesa) impedirebbe di configurare un obbligo di rifiuto, ed inoltre (più prosaicamente) si ritiene che l’incertezza implicita nel giudizio comporti l’impossibilità di prevedere un sicuro esito infausto 24, per cui non si deve rifiutare l’incarico ma solo dissuadere il cliente.
Sia tuttavia consentito, sul punto, di operare una serie di puntualizzazioni.
Appare certamente incontrovertibile che la «tutela» dei propri diritti ed interessi – tanto in sede penale che civile o amministrativa – debba essere garantita in virtù del dettato costituzionale, ma non sembra che tale affermazione possa tradursi nella necessità di azione giudiziaria, a fronte di domande palesemente infondate25.
In particolare, mentre è evidente che chi viene coinvolto in un procedimento (specialmente in sede penale) al debba necessariamente difendersi, la medesima doverosità non appare sostenibile in merito alla promozione del giudizio; inoltre, con specifico riferimento al processo civile, vi sono numerosi indici normativi che suggeriscono di rileggere in chiave diversa persino la posizione della parte convenuta.
Il primo riferimento è ovviamente all’art. 96 c.p.c. ed all’ipotesi di «lite temeraria», che, com’è noto, contempla la responsabilità della parte soccombente per l’abuso dell’agire o resistere in giudizio; prescindendo da valutazioni di tipo sistematico o che involgono la natura della condanna, ai fini della presente trattazione è utile segnalare una pronuncia della Cassazione che, premettendo di voler “valorizzare la sanzionabilità dell’abuso del processo al fine di evitare la dispersione delle risorse … e consentire l’accesso alla tutela giudiziaria dei soggetti meritevoli e dei diritti violati” afferma: “nella giustizia civile, il primo filtro valutativo - rispetto alle azioni ed ai rimedi da promuovere - è affidato alla prudenza del ceto forense coniugata con il principio di responsabilità delle parti”26.
L’assunto che precede, a ben vedere, contiene una indicazione specifica: l’avvocato è chiamato a compiere una valutazione “prudente” in ordine alla “meritevolezza” della tutela giudiziaria richiesta dal proprio cliente, e deve operare come “filtro” per evitare al medesimo assistito le conseguenze derivanti dalla responsabilità processuale.
Pur non giungendosi, dunque, ad affermare la necessità del rifiuto della prestazione da parte del professionista, si adombra una sua valutazione che sembra andare oltre il dovere informativo o dissuasivo, poiché implica un giudizio prognostico in merito all’abusività dell’azione; un ulteriore corollario di tale impostazione potrebbe essere l’ipotizzabilità di responsabilità professionale per non aver correttamente adempiuto alla funzione di “filtro” - e dunque, in sostanza, per non aver rifiutato – ovvero per non aver adeguatamente informato il cliente su tutte le possibili conseguenze derivanti dall’abuso dello strumento processuale.
Un ulteriore indice normativo, anch’esso qualificabile come strumento dissuasivo rispetto ad azioni dilatorie e defatigatorie, è rappresentato dal comma 4 dell’art. 1284 c.c., ove si dispone che “dal momento in cui è proposta domanda giudiziale, il saggio degli interessi legali è pari a quello previsto dalla legislazione speciale relativa ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali”, ossia il tasso di interesse applicato dalla Banca centrale europea alle sue più recenti operazioni di rifinanziamento principali, maggiorato di otto punti percentuali27.
In base a tale previsione, la resistenza ad una domanda giudiziale (fondata) espone il debitore a conseguenze economiche più gravi perfino di quelle derivanti dall’usura: il tasso applicato si rivela, infatti, più alto dei tassi soglia che segnano il limite degli interessi usurari in molte categorie di operazioni per l’erogazione del credito, per cui sarebbe senz’altro conveniente chiedere un finanziamento ed aderire alla richiesta; l’impatto della disposizione, peraltro, è davvero tranciante, dato che la giurisprudenza più recente è orientata a ritenere che il saggio di interessi di cui all’art. 1284, comma 4, c.c., non è applicabile alle sole obbligazioni di fonte contrattuale, ma anche a quelle nascenti da fatto illecito o da altro fatto o atto idoneo a produrle, in virtù della sua ratio deflattiva del contenzioso che si pone in termini identici a prescindere dalla fonte dell’obbligazione28.
In ordine a questa situazione, è lecito chiedersi se il cliente possa davvero comprendere l’entità delle conseguenze a cui si espone; invero, la reale consapevolezza è legata a dati continuamente variabili, che implicano un costante controllo sul tasso di rifinanziamento della BCE (che, ad esempio, nel 2022 era allo 0,50 ed oggi è al 4,50) ed una previsione sulla possibile durata del processo (che è influenzata anche dalla contingente e mutevole situazione degli uffici giudiziari): dunque, valutazioni che non sono alla portata dell’uomo comune, per cui il professionista dovrà farsi carico di esemplificazioni e suggerimenti che vanno ben oltre un’informativa – per quanto chiara – che attenga alla (in) fondatezza delle ragioni.
Nel caso di obbligazioni diverse da quelle pecuniarie, e dunque fuori dal perimetro di applicazione dell’art. 1284, comma 4, c.c., il provvedimento di condanna all’adempimento può essere accompagnato da una c.d. “penale giudiziaria” ex art. 614 bis c.p.c.: il giudice fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dall’obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento, e determina l’ammontare della somma tenendo conto del valore della controversia, della natura della prestazione dovuta, del vantaggio per l’obbligato derivante dall’inadempimento, del danno quantificato o prevedibile e di ogni altra circostanza utile.
Per quanto la disposizione si profili certamente meno incisiva di quella relativa agli interessi (anche perché i suoi effetti sono successivi alla sentenza di condanna), potrebbe verificarsi una situazione peculiare per il soccombente, che magari non è “pronto” all’adempimento ma si vede esposto ad una misura coercitiva di notevole impatto economico: anche in tal caso, quindi, vale il quesito già posto in merito alla (reale) consapevolezza delle conseguenze relative alla partecipazione ad un giudizio dal presumibile esito infausto.
La panoramica che precede induce ad interrogarsi attentamente sul contenuto e sull’ampiezza del dovere informativo dell’avvocato, nonché sulla sufficienza dell’obbligo di dissuasione, in ordine al quale sia consentita un’ultima suggestione. Come riferito, il medico è tenuto al rifiuto se gli viene richiesta un’attività contraria agli interessi del paziente; siamo dunque certi che la stessa regola non debba mai valere per l’attività forense, e dunque basti «sconsigliare»?
Probabilmente la risposta è strettamente legata alle modalità informative del professionista e all’obbligo di verifica della consapevolezza del cliente; in sostanza, l’avvocato deve procedere ad una attività esplicativa estremamente attenta e quasi capziosa (dovrà, ad esempio, spiegare che se le ragioni della controparte sono fondate, l’opposizione dilatoria ad una richiesta di pagamento risulta più onerosa di un mutuo o di un’apertura di credito in conto corrente), ed inoltre deve accertarsi che il suo assistito abbia correttamente compreso: se entrambe le condizioni risultano verificate (con onere della prova a carico del professionista) potrà limitarsi a dissuadere, se invece dovesse mancare – ad esempio – la piena consapevolezza del cliente in ordine alle possibili conseguenze delle azioni da intraprendere, la dissuasione potrebbe non bastare ai fini dell’esclusione di responsabilità professionale.
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