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Il valore democratico del binomio dignità-lavoro

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Lorenzo Del Balzo

1. Note introduttive

Secondo le efficaci parole di Carlo Smuraglia, la dignità può essere definita come la «posizione complessiva di un individuo come persona e dunque come membro di aggregati sociali; onde la [sua] menomazione […] si riverbera necessariamente sulla sfera della personalità nel suo complesso» 1 .

Si tratta, come è evidente, di un concetto extra-giuridico, suscettibile di modificazione ed evoluzione ad opera di ambiti delle scienze umane altri e diversi rispetto al diritto. Ciò nondimeno, è proprio nel campo dei rapporti giuridici che, spesso con troppa facilità, la dignità della persona viene ignorata, disconosciuta.

Tra tutti i rapporti giuridici, il rapporto di lavoro è quello esposto a tale rischio in misura più consistente. Non è un caso che Madri e Padri costituenti predisposero un impianto nel quale il principio di dignità assume una rilevanza sistemica 2 , tale per cui si potrebbe ritenere il vero e proprio trait d’union tra i due cuori pulsanti dell’articolo 1 Cost.: democrazia e lavoro.

2. Dall’homo oeconomicus alla persona

Per comprendere la connessione tra lavoro, dignità e democrazia è necessario partire dal mutamento del soggetto costituzionale nel passaggio dallo Stato mono- classe allo Stato pluriclasse.

Ebbene, con riferimento allo Stato di diritto liberale ottocentesco si parla di «Stato monoclasse» per indicare i depositari della sovranità nazionale, ossia gli esponenti maschi della classe borghese che, in virtù del suffragio censitario e della regola secondo cui l’elettorato passivo spettava a chi godesse dell’elettorato attivo, per concessione regia eleggevano un Parlamento che fosse loro esclusiva espressione 3.

Il diritto di voto spettava soltanto a chi fosse dotato di denaro e istruzione, poiché capace di formulare un giudizio politicamente libero.

La classe proletaria, non-abbiente e non-libera per definizione, era perciò necessariamente esclusa dal circuito della rappresentatività. Altra caratteristica propria degli Stati monoclasse era il divieto di formazione dei sindacati, in quanto possibili intralci all’esplicazione della volontà statale, da un lato, e alla libertà di impresa, dall’altro 4 .

In buona sostanza, il funzionamento dell’intero paradigma statale ottocentesco dipendeva dalla riserva asso- luta del potere politico in capo allo Stato e da un potere economico esercitabile atomisticamente dai singoli: in entrambi i casi, i componenti del ceto borghese 5 .

Soggetto di diritto era il solo homo oeconomicus: individuo astratto, definito da rapporti di tipo utilitaristico.

Diversamente, lo Stato costituzionale pluriclasse, pur conservando gran parte delle istituzioni e della struttura precedenti, si discosta da quel modello soprattutto per quanto riguarda il tessuto sociale.

In particolare, le lotte deflagrate nella seconda metà del XIX sec. e l’emersione della classe operaia – accelleratori del disfacimento dello Stato borghese – abbattevano quella contraddizione capitale costituita dal divieto di organizzazioni professionali e sindacali in uno Stato che tuttavia si diceva liberale.

Il sindacato dei lavoratori, allora, sorgeva come ente esponenziale dell’intera classe lavoratrice, per poi seguire – nella specificità italiana, all’indomani dell’esperienza fascista – il criterio della specializzazione, così ponendosi a presidio delle singole categorie lavorative. In questo modo le organizzazioni di categoria si sono rese vere e proprie istituzioni intermediarie tra il tessuto sociale e lo Stato, riuscendo ad imperniare l’azione di tutela del lavoratore sull’autonomia collettiva e, perciò, a farsi attrici di una politica economico-sociale capace di concorrere col potere statale anche dal punto di vista delle fonti del diritto.

L’avvento del suffragio universale, infine, ha posto il potere politico in capo al popolo, questa volta nella sua totalità. La stessa Carta fondamentale non è più una concessione (flessibile) dell’Autorità regia, ma un «compromesso delle possibilità» 6, votato e rigido, di pertinenza dell’intera collettività.

2.1. Il ruolo della dignità tra il principio personalista e il principio pluralista

Partendo dal presupposto secondo il quale «tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati» 7 ,si deve evidenziare il ruolo centrale svolto dall’umanesimo cristiano verso il riconoscimento a ogni singolo individuo di un valore ad esso connaturato; di un «irriducibile umano» fondativo ed ulteriore rispetto ai diritti e alle libertà che sostanziano l’ambito di realizzazione dell’uomo 8: la dignità.

La ripresa dei valori dell’umanesimo cristiano, unitamente alla necessità di reagire alla privazione di qualsiasi valore umano all’indomani dell’esperienza nazifascista, ha dunque portato i Costituenti a porre la dignità in cima ai fini del futuro ordinamento.

Non è un caso che l’art. 3, comma 2, Cost., nella versione precedente alla semplificazione operata dal Comitato di Redazione, ponesse in capo allo Stato il compito di rimuovere quegli ostacoli di ordine economico-sociale che «impediscono il raggiungimento della piena dignità della persona umana e il completo sviluppo fisico, economico e spirituale di essa».

È la dignità, dunque, il presupposto per il riconoscimento dei diritti; quel valore super-costituzionale che opera come norma di chiusura del sistema, fungendo da principio «riassuntivo e fondante la natura teleologicamente personalista del nostro ordinamento»9.

Inoltre, se da un punto di vista religioso la dignità è anche il motore dell’interazione, poiché consente di riconoscersi nel «Prossimo», da un punto di vista laico è proprio tramite questo reciproco riconoscimento che il singolo partecipa alla società con i suoi simili e che, di conseguenza, acquista la consapevolezza di sé e la capacità di partecipare attivamente alla vita dello Stato 10 .

Fu dunque la dimensione sociale dell’essere umano a formare, in Assemblea Costituente, il terreno d’intesa tra il personalismo di matrice cattolica e lo storicismo propugnato da socialisti e comunisti.

Da questa sintesi nacque il riferimento alle «formazioni sociali» di cui all’art. 2 Cost., ad indicare tutti quei corpi intermedi (tra cui il sindacato) che compongono la società e che non soltanto sono strumentali allo sviluppo del singolo, ma che al pari di questo si elevano a soggetti privati di diritto costituzionale, in quanto tali dotati dello stesso margine giuridico d’azione e degli stessi diritti e libertà che pertengono ai loro membri.

In tal senso sono emblematiche le parole dell’On. La Pira in Prima Sottocommissione: «se non sono rispettati i diritti della comunità familiare, della comunità religiosa, della comunità di lavoro […] la violazione dei diritti essenziali di queste comunità costituisce una violazione dei diritti essenziali della persona umana ed indebolisce o addirittura rende illusoria quelle affermazioni di libertà, di autonomia e consistenza sociale che sono contenute nelle dichiarazioni dei diritti».

2.2. La persona e i suoi diritti

La comprensione del soggetto dell’ordinamento, allora, con la Costituzione repubblicana si sposta «dalla “natura” alla “società”» 11 , facendovi confluire, in una connessione inscindibile, sia il suo primato rispetto allo Stato (principio personalista), sia la sua dimensione collettiva (principio pluralista) sia la responsabilità solidale che ne deriva (principio solidarista).

Così l’individuo borghese ottocentesco cessa di essere il paradigma antropologico sotteso all’ordinamento e lascia spazio ad un soggetto sociologicamente opposto, la persona: essere concretamente sociale, definito in termini dinamici dalle condizioni materiali in cui vive e titolare di diritti che, trovando nella dignità umana il proprio presupposto, vengono qualificati come «inviolabili»(art. 2 Cost.). «Inviolabilità», peraltro, significa non soltanto «irrivedibilità» ad opera della maggioranza parlamentare del momento; vale a dire che non ci si limita a conferire a tali diritti una particolare resistenza passiva tanto nei confronti della legge ordinaria, quanto nei confronti del potere di revisione costituzionale, masi attribuisce loro altresì il compito di riempire di contenuto il tipo di democrazia che regola la vita associata. Come riconosciuto dal Giudice delle Leggi, essi incorporano un valore «della personalità avente un carattere fondante rispetto al sistema democratico voluto dal Costituente» 12 .

E allora, tali diritti attengono ad una dimensione che va anche oltre la persona o la collettività che ne gode, le trascendono, acquisendo un valore strutturale per l’intero assetto democratico: è la loro inviolabilità a renderli la misura di valutazione della democrazia; il loro rispetto a contrassegnare la legittimità dell’azione della maggioranza e delle sue decisioni 13 .

3. Il lavoro

Il vero «epicentro ideologico del passaggio di regime» 14 , però, è da individuare in un altro dato di ordine sociologico: il fatto-lavoro. È con esso che Madri e Padri Costituenti decisero di aprire il testo costituzionale, sintetizzando in una stretta connessione i caratteri co- essenziali del nuovo ordinamento: democrazia, sovranità popolare e, appunto, lavoro15.

Porre il lavoro a fondamento dell’istituto repubblicano, allora, non può che significare che, al pari della dignità e dei diritti che ne derivano, esso concorre a riempire di sostanza gli altri due elementi indicati dall’art. 1 Cost.

Detto altrimenti, l’articolo di apertura impone di non guardare alla struttura statale con la lente della sola democrazia politica – che è mera democrazia formale –, ma pone un riferimento concreto ad una democrazia di tipo sociale, economico 16.

In questo modo, il ruolo del lavoro in Costituzione va ben oltre il peso specifico che già gli appartiene in quanto primo tra i diritti sociali. Infatti, da un punto di vista individuale esso costituisce lo strumento con cui la persona si procura il proprio sostentamento, si autorealizza e alimenta la propria dignità, mentre da un punto di vista collettivo agisce non soltanto come dovere di natura solidaristica (ciascuno deve «concorrere al progresso materiale e spirituale della società», art. 4 Cost.), ma anche come titolo di legittimazione della partecipazione politica del singolo, intesa quest’ultima innanzitutto in termini etimologici, ossia come partecipazione alla cura della polis.

In sintesi, il lavoro assurge a vera e propria componente strutturale dell’ordinamento democratico: se nello Stato monoclasse l’essere lavoratore era criterio di esclusione dalla vita politica, adesso ne costituisce il principio d’inclusione 17 .

Quel «fondata sul lavoro», dunque, lungi dal potersi ridurre a mero esercizio di retorica, deve essere inteso innanzitutto come il rifiuto di quei dis-valori dominanti nel sistema precedente 18 – su tutti, il privilegio economico –, ma soprattutto come la proclamazione di un nuovo tipo di collegamento fra comunità e Stato: una democrazia di tipo partecipativo, nella quale il fatto-lavoro costituisce il principale elemento di raccordo tra persona e ordinamento 19.

Con la Costituzione, pertanto, la questione democratica diventa prima di tutto questione del lavoro, che deve svolgersi in modo libero e dignitoso.

4. Il mutamento nelle fabbriche: lo Statuto dei Lavoratori

Come noto, il mutamento che si è sopra osservato a livello costituzionale non è stato automatico nei luoghi della produzione. Dall’entrata in vigore della Costituzione, la concezione organicistica, autocratica e totalizzante dell’impresa ha resistito per oltre vent’anni, mentre le proteste sociali rimanevano perlopiù perimetrate dalle mura delle aule universitarie.

È soltanto nell’«autunno caldo» del ’69 che i consistenti aggregati sociali presenti nelle fabbriche diedero il via a quella stagione che trovò nel conflitto l’unico linguaggio capace di imporre alle istituzioni di rimodellare l’organizzazione tecnico-produttiva dell’impresa sull’uomo, e non più viceversa.

Ne nacque, il 20 maggio del 1970, lo Statuto dei Lavoratori, con le sue due anime complementari.

La prima, di matrice pubblicistica, rivolta alla tutela dei diritti fondamentali, al fine di rendere concreto il loro esercizio nelle imprese tramite norme inderogabili piantona- te da un adeguato apparato sanzionatorio.

La seconda, di stampo privatistico, intenta invece a colmare i vuoti lasciati dall’inattuazione della seconda parte dell’art. 39 Cost., promuovendo lo sviluppo del sindacato nel luogo di lavoro tramite una più larga partecipazione.

Per mutuare l’incisiva immagine fornitaci da Vittorio Foa, «la Costituzione varca finalmente i cancelli della fabbrica».

Non è la sede per un’analisi delle disposizioni dello Statuto, che certo peccherebbe di eccessiva sommarietà. È però opportuno ricordare che la Legge 300/1970 era esplicitamente intesa a «creare un clima di rispetto della dignità e della libertà umana nei luoghi di lavoro»; ad assicurare, cioè, ai lavoratori «l’effettivo godimento di taluni diritti e libertà fondamentali che, pur trovando nella Costituzione una disciplina e una garanzia complete sul piano dei principi, si prestano tuttavia, in carenza di disposizioni precise di attuazione, ad essere compressi nel loro libero esercizio» 20 .

5. Conclusioni

Come ricordava Norberto Bobbio in un risalente saggio intitolato La democrazia e il potere invisibile, da quando la democrazia è intesa come la miglior forma di governo possibile, i regimi democratici sono giudicati dal punto di vista delle promesse non mantenute.

Tra queste, il binomio dignità-lavoro è forse la più eclatante.

Dopo poco più di cinquant’anni dall’entrata in vigore dello Statuto, infatti, si può dire che quelle parti che avevano impresso al diritto del lavoro un’identità fondata sulla giustizia sociale e sull’uguaglianza sostanziale sono state in gran parte sacrificate sull’altare della concorrenza. È il frutto dell’inversione del rapporto tra lo Stato e il Mercato: non più mercati-entro-lo-Stato, ma Stati-entro-il-Mercato, con la conseguente imposizione delle leggi dell’economia su ogni altra legge e «con buona pace per i diritti, per quelli sociali in particolare» 21 .

A ben vedere, però, tale inversione mette in discussione il contenuto stesso del patto sociale, per come sopra analizzato. Infatti, da un lato viene abiurata la funzione protettiva del diritto del lavoro: non più strumento con cui modificare i rapporti di forza dettati dall’assetto economico, tramite una compensazione delle disuguaglianze del potere contrattuale volta alla tutela della dignità (e della libertà e dell’uguaglianza) della persona che lavora, ma oggetto di valutazioni ed interpretazioni pro business, dettate da canoni esclusivamente efficienti- sti che ne piegano le regole al calcolo di utilità 22.

Dall’altro lato viene meno il ruolo delle «formazioni sociali» e, segnatamente, di quelle sindacali. In un sistema di relazioni industriali malato di estrema frammentarietà ed ipertrofia, l’identità collettiva del sindacato si polverizza; questo perde, insomma, la capacità di sintetizzare le debolezze della forza lavoro e convertirle in potere contrattuale. Viceversa, finisce per agevolare quel dumping contrattuale e sociale che negozia al ribasso i diritti di chi lavora.

Allora ciò che si spezza è il legame di solidarietà: anche il sindacato snaturala sua funzione originaria e diventa strumento di concorrenza. Cosa rimane, quindi, di quel binomio dignità-lavoro che avrebbe dovuto caratterizzare, riempendola di con- tenuto, la nostra democrazia?

La condizione di validità delle leggi introdotta dal paradigma del costituzionalismo rigido, che aveva connesso al “chi” e al “come” della decisione il “cosa” della medesima 23 , torna ad una forma che non ha più la funzione di garantire la sostanza, ma che stenta a garantire se stessa.

In altri termini, ciò che rimane è la procedura democratica: un guscio vuoto che accomuna le odierne «post-democrazie di massa»24, tutte caratterizzate dalla disgregazione delle identità collettive e nelle quali dominano istanze di tipo individualistico ed utilitaristico. Un ritorno all’homo oe- conomicus.


Note

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