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La riforma della giustizia civile, che oggi tutti chiamano Cartabia dal nome della signora Ministra che l’ha voluta tanto fortemente da farla rientrare tra gli “affari correnti” dei quali può continuare ad occuparsi un Governo dimissionario, è ormai entrata in vigore: dobbiamo interpretarla ed applicarla. Sorge spontanea una prima domanda: è giusto attribuirne la maternità alla signora Ministra, tanto da identificarla con il suo nome?
Direi di sì: tutte le scelte, anche quelle tecniche e non politiche, sono state fatte dal Ministero. Ed infatti, su di uno snodo essenziale quanto può esserlo il giudizio di primo grado, le due proposte che aveva formulato la Commissione Luiso sono state accantonate, e si è preferito resuscitare qualcosa che somiglia parecchio al vecchio rito societario.
Inoltre, nei gruppi di lavoro costituiti per predisporre la bozza di decreto legislativo il confronto è stato reale, e qualche volta persino serrato, ma sin dall’inizio era stato chiarito che il risultato di quel lavoro avrebbe avuto il valore di una proposta, ma poi sarebbe stata la Sig.ra Ministra a decidere, come del resto era giusto che fosse.
La fretta è stata eccessiva, e ci sono degli errori tecnici a volte addirittura macroscopici, cui la brusca accelerazione forse imposta dall’Europa ha impedito di porre tempestivamente rimedio. Certo, le cambiali che si firmano vanno onorate, perché ne va della credibilità di un paese; ma confesso di non riuscire a capire perché si possono rinviare i balneari, ma bisogna anticipare l’entrata in vigore di una riforma che molti giudicano in più punti sbagliata.
È innegabile che ci sono alcune novità che, se usate bene, possono ridurre il contenzioso, anche se forse a spese dell’ampiezza della dialettica tra gli avvocati, i giudici del merito, e quelli di legittimità: il rinvio pregiudiziale in Cassazione probabilmente consentirà di evitare i giudizi seriali, ma la soluzione prescelta verrà fuori da un confronto limitato a poche persone.
Sarà più veloce, certamente. Sarà meno ponderata, e meno giusta? Non lo so, ma il problema esiste. A me, nel complesso, la riforma non piace.
Al di là dei singoli dettagli, direi che è la visione di fondo della giustizia civile che è cambiata, e mi sembra diventata estranea alla nostra cultura giuridica, e non solo a noi avvocati.
Questa riforma nasce per “smaltire” l’arretrato, se necessario anche a scapito dell’esercizio del diritto di di- fesa e della qualità della giurisdizione.
Per questo, ha per suo obiettivo un processo rapido, non un processo giusto. Intendiamoci: i tempi dei nostri giudizi civili sono da anni inaccettabili.
Ma i tempi dei giudizi sono dati dal rapporto tra il numero dei processi pendenti e quelli dei processi decisi, e baloccarsi con il rito serve a ben poco. La difficile individuazione di un equilibrio tra una sen- tenza giusta ed una sentenza pronta è una impresa titanica, ma quel bilanciamento deve essere ricercato a tutti i costi, e non si può puntare tutto sulla velocità, anche a scapito della qualità: altrimenti, si fa una giustizia sommaria, non una giustizia efficiente.
L’ufficio del processo, con i suoi addetti, può costituire uno strumento utile, se usato bene. Ma se quegli stessi addetti li si mette a scrivere sentenze diventa inaccettabile. L’equilibrio che è stato individuato dalle nuove leggi è giusto? Dipende, e bisogna valutare caso per caso. Il primo, massiccio, intervento, più che sulle ADR, è stato sulla mediazione.
Da tempo, sulla mediazione c’è una specie di guerra di religione per la quale non pro- vo più alcun interesse. Nella sua versione originaria, la mediazione era inaccettabile, e cadde dinanzi alla Corte costituzionale, condannata dalla miopia di chi aveva abusato della delega, imponendola obbligatoria, onerosa ed irrispettosa del diritto di difesa.
Nella versione utilizzata fino ad oggi, trasformava in obbligo di legge quel preliminare tentativo di composizione che dovrebbe rientrare nel bagaglio deontologico di qualsiasi avvocato, anche se va riconosciuto che non sempre tutti lo fanno.
Forse, in questa prospettiva un senso poteva averlo: suppliva a qualche mancanza nostra. Ma non mi sembra condivisibile il tentativo, che si legge in filigrana nella riforma, di rovesciare il rapporto tra mediazione e processo, imponendo la prima come regola, e trasformando l’accesso alla giustizia in un’eccezione, sotto la minaccia di sanzioni severe.
Nella mediazione si negoziano interessi, il che è assolutamente legittimo, naturalmente: ma l’art. 24 della Costituzione impone allo Stato il dovere di garantire a tutti la tutela dei diritti, che è cosa diversa.
E la differenza risalta di più agli occhi quando il negoziato sugli interessi si svolge in una sede che non offre quelle garanzie di indipendenza (e non di sola imparzialità) che sono tipiche della giurisdizione, e che sono tanto più necessarie quanto maggiori sono le diseguaglianze tra le parti.
Mi sfugge, poi, perché continua a negarsi ai cittadini la libertà di scegliere lo strumento di composizione della lite in cui credono di più: non mi sembra saggio, cercare di obbligare qualcuno a fare quel che non gli piace, quando esistono strumenti alternativi che potrebbero essere di suo gradimento.
Nel giudizio di primo grado, mi pare sia evidente che il Legislatore vorrebbe ribaltare i rapporti finora esistenti tra i due moduli processuali: preso atto che il tentativo di rendere obbligatorio per tutti il sommario anni fa, era naufragato tra le proteste degli avvocati, ha “riesumato” quel processo societario che era stato rottamato con un sospiro di sollievo generale, e su di esso ha improntato la disciplina del giudizio ordinario.
La speranza, nemmeno troppo nascosta, è che pur di non rivivere quella esperienza, tutti si precipitino a fare quel procedimento sommario mascherato che non si era riusciti ad imporre anni fa. Per ora, gli è stato cambiato il nome, e si è raddoppiato il contributo unificato.
È probabile che il tentativo possa essere coronato dal successo: sento da più parti, anche molto autorevoli, suggerire di fare così.
Personalmente, non ho intenzione seguire quei consigli. Nel processo semplificato, la ampiezza del diritto di difesa e dello jus variandi (che incide sui limiti oggettivi del giudicato), la possibile esistenza di preclusioni e decadenze, e la concessione delle memorie integrative sono rimessi ad una decisione del giudice, discrezionale quanto può esserlo l’accertamento della ricorrenza di un giustificato motivo. Per me, è inconcepibile.
Il diritto di difesa, per me, si esercita non solo “contro” la controparte, ma anche, quando occorre, “contro” il giudice: per questo, non può essere lui a stabilirne le modalità di esercizio, e per questo l’articolo 111 della Costituzione vuole che sia la legge a farlo.
E, per carità, nessuno dica che, nel semplificato, la possibilità di difendersi (magari da una riconvenzionale complessa e onerosa) comunque c’è, perché lo si può fare in udienza. In un ordinamento che nello stesso tempo impone di contestare “specificamente” i fatti affermati dalla con- troparte (art. 115 c.p.c.) e vieta ai difensori di dettare le loro deduzioni nel processo verbale di udienza, se non ne sono autorizzati dal giudice (art. 84 disp. att.) mi pare curioso che la difesa di un avvocato possa essere “riassunta” dal magistrato nel verbale di udienza: di chi sarà la colpa, se le contestazioni contenute in quel riassunto dovessero essere ritenute non sufficientemente specifiche?
Una previsione del genere, io temo, è figlia di un problema di fondo: nel Ministero, come nelle commissioni o nei gruppi che svolgono l’attività di supporto, i magistrati sono in maggioranza schiacciante, e perciò la possibilità di un errore da parte del giudice semplicemente non è presa in considerazione.
Sotto la formula anglo- sassone del “case management” si attribuisce al giudice un potere discrezionale che non solo è vietato dall’art. 111 Cost., ma non trova neppure un contrappeso nella responsabilità per il caso in cui esso venga esercitato in modo inappropriato.
Le ordinanze – di accoglimento o di rigetto – che si sarebbero dovute chiamare anticipatorie, ma che nel testo definitivo hanno perso tale denominazione, credo finiranno presto nel dimenticatoio come quelle che le hanno precedute: perché mai, se una domanda dovesse essere manifestamente fondata (o infondata) complicarsi la vita con ordinanze che producono molti più problemi di quanti non ne risolvono?
Quid juris, nelle azioni costitutive? Si possono trascrivere, oppure no? E come si impugna la condanna alle spese, che dovesse sopravvenire o essere pronunciata in sede di reclamo? E nell’eventuale, successivo giudizio di accertamento, è possibile pronunciare di nuovo un’ordinanza?
Non ha senso, farsi carico di tutte queste complicazioni: se una domanda è fondata (o infondata) addirittura manifestamente, perché non invitare le parti alla discussione orale, pronunciare una sentenza ex art. 281 sexies, e sbarazzarsi di qualsiasi dubbio?
Mistero. Forse, è questo un altro dei problemi di fondo della riforma: c’è troppa scienza giuridica, ma non altrettanto buon senso. La riforma del processo di appello dovrebbe essere centrata su un’altra riesumazione: quella della figura del consigliere istruttore, che era anch’essa scomparsa nelle nebbie del passato.
Nessuno ha capito perché quel che è stato giudicato dannoso pochi anni fa adesso dovrebbe tornare utile; ed infatti i Presidenti di importanti Corti di appello hanno già dichiarato che loro non intendono procedere a quella nomina, e preferiscono invece proseguire il lavoro di razionalizzazione che era in corso. Verrebbe da commentare: tanto rumore per nulla.
Ma a pensare male, si sa, si fa peccato, ma spesso si indovina: viene il sospetto che sia un tentativo di trasformare anche l’appello in un giudizio monocratico. Speriamo non sia così. C’è poi un’assurdità, e un errore tecnico evidente.
L’assurdità è che, se è stato designato l’istruttore, e c’è sospensiva, ex art. 351 la discussione orale deve essere fatta davanti a lui, che poi la riferisce al Collegio.
Una ragione in più, direi, per non nominarlo: confesso che troverei imbarazzante discutere una causa dinanzi ad un giudice diverso da quello che deve deciderla. Il secondo è un errore tecnico, e tanto grave – a mio parere – da imporre un correttivo. Tutti sappiamo che, in appello, una sospensiva (che ri- corre più o meno nel 70% dei casi) concessa o negata può stravolgere l’assetto economico degli interessi.
E per questo il Legislatore si è giustamente preoccupato di prevedere che, se sopravviene un mutamento delle circo- stanze, espressamente richiamato nella relativa istanza, essa possa essere chiesta nel corso del processo, e per- sino richiesta di nuovo, se prima era stata negata. Bene. Ma cosa succede, se il mutamento delle circostanze sopravviene dopo che essa è stata concessa? L’appellato godrà delle stesse facoltà dell’appellante, e potrà chiedere di revocarla, o il suo diritto di difesa è, per così dire, meno ampio?
Il dato testuale sembrerebbe negargli quelle facoltà che riconosce alla sua controparte, ma è evidente che se ci si ferma a quello è difficile evitare dubbi di costituzionalità per violazione dell’art. 3, tanto sotto il profilo della eguaglianza, quanto sotto quello della ragionevolezza.
Ed è proprio sotto il profilo della ragionevolezza che io credo che, quando un adeguato periodo di rodaggio avrà fatto emergere tutte le criticità nascoste, un correttivo sarà inevitabile.
Certo, nel frattempo la riforma avrà fatto un imprevedibile numero di vittime innocenti che forse si sarebbe potuto evitare con un supplemento di riflessione, che non ci è stato concesso. Peccato.
Sempre in tema di appello, non mi straccerei le vesti sulla formulazione del “nuovo” art. 342 c.p.c.: come al solito, ognuno aveva una sua formula preferita da suggerire, e capisco i timori di tutti, ma è difficile ipotizzare in buona fede che il testo approvato abbia voluto elevare i criteri di chiarezza e sinteticità nella redazione dell’atto a requisiti di ammissibilità della impugnazione.
Forse, sarebbe stato meglio che ad essere più chiaro ancora fosse il Legislatore, ma va sottolineato che, ex art. 46 delle disposizioni di attuazione, la violazione dei criteri e limiti di redazione di un atto giudiziario non comporta invalidità, e bisogna riconoscere che le Corti di merito – a differenza di quella di legittimità – solo molto raramente hanno ecceduto in formalismo. In Cassazione, la nuova formulazione dell’art. 366 che richiede la illustrazione del contenuto rilevante degli atti processuali, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi sui quali si fonda il motivo di ricorso, è un (dichiarato) tentativo di superare l’incubo dell’autosufficienza, che né le Sezioni Unite né il protocollo erano riuscite a fugare: negli atti, bisogna trascrivere i testi, oppure no?
Sarà coronato dal successo, quel tentativo? Voglio sperare di sì : confesso di aver provato molta vergogna, quando ho letto che il nostro Paese era stato condannato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo perché un eccesso di formalismo si era tramutato in un diniego di giustizia.
Spero non accada mai più. Il modello decisorio accelerato previsto dall’art. 380 bis, con il suo richiamo all’art. 96 ed al suo corredo di sanzioni che si vorrebbero automatiche, e che vengono col- legate persino alla semplice soccombenza, e non più al dolo o alla colpa grave, è semplicemente inaccettabile, come lo è la norma richiamata. Introdurre sanzioni predeterminate nel massimo in misura tale da costituire un deterrente efficace soltanto per chi vive del suo stipendio, significa trasformare l’accesso alla giustizia in una selezione per censo.
Naturalmente, io sono consapevole che la Corte è letteralmente sommersa dai ricorsi, e questo può pregiu- dicare la qualità della sua risposta alla domanda di giustizia. Ma lo Stato, per me, può comminare sanzioni a chi è in colpa, non minacciarle a chi dovesse chiedere alla Corte di rivedere i propri orientamenti: farlo, significa esercitare un diritto, come si desume agevolmente dall’art. 360 bis n.1.
La verità, è che ormai le impugnazioni, e soprattutto quelle di legittimità, sono viste come un intralcio ad un esercizio efficiente della giurisdizione. Mi chiedo se la capacità di evoluzione dell’ordinamento in relazione al mutamento della sensibilità sociale, la interpretazione costituzionalmente orientata, la creazione di nuovi diritti di origine pretoria, la continua ricerca di una tutela più moderna ai rinnovati bisogni delle persone, sopravviveranno a questa nuova visione aziendalistica della giustizia civile, nella quale qualsiasi richiesta di riesame è vista come un ostacolo allo smaltimento dei flussi.
E, nel chiudere, mi rispondo di s ì. A veva ragione chi diceva che non esiste una legge processuale tanto sbagliata da impedire di fare un buon processo: sono gli interpreti che trasformano i testi di legge in norme, e l’equità e la giustizia, se sono rinchiuse nel cuore di avvocati e magistrati, continueranno ad ispirare difese e sentenze, quali che siano le sanzioni che ci vengono minacciate. Per questo, sopravviveremo alla riforma Cartabia, utilizzando lo stesso sistema con il quale siamo sopravvissuti alle molte altre riforme epocali che la hanno preceduta: la interpreteremo.
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