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In “punto di penna”, tocco un tema molto vasto, che qui sarà trattato per sintesi “estrema”, tenendo conto – prendendo spunto dalla Costituzione di Uzupis – ogni lettore ha il diritto di non leggere e, se legge, ha il diritto di non pensare! Questo testo trae spunto dal volume (International Business Law,Ed. WolkersKluwer, 2017) di Lucio Ghia e qui di seguito svolgo alcune brevi riflessioni:
Punto 1°- il libro è un elaborato frutto di cultura giuridica. Questo enunciato deve essere denotato dall’attributo dalla verità (altrimenti esso è falso o meramente celebrativo ed encomiastico). E la verità sta in ciò, che nel “volumetto” (misurato quanto a numero di pagine, ma prezioso anche per questo) si narra di diritto internazionale pubblico e privato nonché di Diritto tout court.
In esso, si narra di istituzioni internazionali (WTO e Uncitral, a titolo esemplificativo) e di contratti internazionali, di leggi sostanziali e processuali, ratione materiae applicabili nel tempo.
Ora, per governare questi campi occorre avere il dominio del territorio giuridico su cui ci si muove; bisogna cioè avere una visione olistica di questo settore del sapere che è il diritto, perché solo la capacità di una visione d’insieme genera cultura, che non è mera erudizione, bensì conoscenza elaboratadelle informazioni. Qui, a beneficio di Lucio Ghia, risuscito alla memoria del lettore la frase icastica di T. Eliot: “Whereis the wisdomwehavelost in knowledge? Whereis the knowledgewehavelost in information?”
Punto 2°- Il Diritto Internazionale degli Affari rifiuta il concetto di statualità del diritto e non riconosce a ragione la primazia del giudice, il cui ruolo viene ridimensionato a possibile (ma non probabile) compartecipe (neppure primario) alla formazione delle regole (pur sempre legali) che sovrintendono gli affari:ciò dimostra che il Diritto precede (non segue) lo Stato.
Il diritto del commercio internazionale, in particolare,diffida della statualità dei magistrati, perché esso diritto esige regole certe e prevedibili (negli esiti interpretativi), che siano cioè applicate senza devianze; paradossalmente il diritto liquido degli “affari” osserva e rispetta il valore della certezza del diritto, in misura maggiore rispetto all'ossequio prestato dai giudici locali della comunità internazionale.
Punto 3°- Gli interessi dei mercanti ha indotto gli avvocati e gli arbitri internazionali a costruire clausole contrattuali che i giudici nazionali, pur non essendone artefici, devono applicare ai fini della eventuale risoluzione delle liti: 3.1- la clausola hardship che Lucio Ghia così definisce (p. 235): “providing the opportunity to renogotiateparticularterms, helps to avoid long and costly court proceedings to determineliability and damagesthatwillonlyincrease the costsrelated to achieving the contract’sgoals”. 3.2- WithdrawalClause, in forza della quale le parti sono obbligate in areasonable time a rinegoziare il contratto, quando gli eventi abbiano reso la prestazione più onerosa di quanto era possibile prevedere al momento della conclusione del negozio; 3.3- la clausola relativa alla legge applicabile, in forza della quale sono le parti a stabilire quali saranno le norme sostanziali e processuali applicabili al contratto e alla sua esecuzione.
Lo stesso dicasi per la giurisdizione, che le parti scelgono liberamente per evitare che operino le norme di conflitto(tra le leggi interne o internazionali). Queste clausole (ed altre ancora) mirano alla certezzadella negoziazione, della sua esecuzione e della regolamentazione della eventuale fase patologica che dovesse sfociare in un contenzioso. Ciò perché da tutti i contratti nascono non solo crediti da soddisfare, ma soprattutto debiti da estinguere, che – come dice McLeod – sono a loro volta “merce vendibile” (che è la scoperta, dice Galgano, che ha “più influenzato le fortune della razza umana”).
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