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1.- Premessa.
Prima di affrontare la problematica della morale, etica e deontologia nell’esercizio delle libere professioni, è opportuno un breve cenno sui concetti fondamentali di etica, morale e deontologia.
2. - Etica.
Il termine etica deriva dal greco èthos, ed indica un insieme di valori che regolano il comportamento dell’uomo in relazione agli altri: si riferisce, a tutte le condotte umane.
L’etica, quindi, è quel complesso di norme morali e di costume che un individuo (o gruppo di individui) segue nelle proprie azioni e che sono in grado di identificare un preciso comportamento nella vita di relazione con riferimento a specifiche situazioni (es. etica cristiana, etica del lavoro, ecc.).
L’etica è sia un insieme di norme e di valori che regolano il comportamento dell’uomo in relazione agli altri, che un criterio che permette all’uomo stesso di giudicare i comportamenti propri e altrui, rispetto alle categorie del bene e del male. L’etica non pone specifici doveri e non prevede l’applicazione di sanzioni per chi non agisce secondo i suoi dettami. Gli studiosi distinguono una variegata tipologia di “etiche”.
A titolo esemplificativo: etica religiosa (l’etica a base religiosa fissa norme di comportamento che pretende valide per tutti); etica laica (che non mira ad imporre valori eterni e si dimostra attenta alle esigenze umane che tengano conto delle condizioni e delle trasformazioni storiche); etica cristiana (che si fonda su un messaggio universale di riscatto, facendo cadere ogni distinzione etnica e sociale, scoprendo una nuova dignità dell’uomo, chiamando anche gli umili, gli ignoranti, i peccatori al più alto ideale di perfezione morale); etica dei media e della comunicazione (con la crescita di importanza dell’impatto sociale delle tecnologie dell’informazione, ed in particolare di Internet, è maturata una riflessione sugli aspetti etici dell’uso dei mezzi di comunicazione); etica sanitaria (comprende quel complesso di principi e norme che ispirano l’agire, il comportamento e le scelte degli operatori sanitari nell’ambito delle professioni sanitarie); etica dell’ambiente; etica ed economia; etica del lavoro; etica e diritto (tenendo presente che la legge è sempre espressione del potere prevalente in una determinata società), etica professionale (per ogni professione esistono degli standard morali da osservare).
3. - Morale.
Il termine morale, deriva dal latino mos (costume), ed indica la descrizione dei costumi, dei comportamenti, del pensiero e degli stili di vita. La morale non è unica ed immutabile per tutta l’umanità, ma cambia da popolazione a popolazione e si modifica nel corso degli anni anche all’interno della stessa civiltà. Spesso etica e morale sono usati come sinonimi, anche se occorre subito precisare che esiste una differenza: la morale corrisponde all’insieme di valori di un individuo, di un gruppo, mentre l’etica, oltre a condividere questo insieme, contiene anche la riflessione speculativa di norme e valori.
4. - Deontologia.
La deontologia è quel complesso di regole di condotta che devono essere rispettate nell’attività professionale, e proprio perché professionale, è settoriale e non universale. La deontologia è, infatti, un elemento strutturale della professione stessa che serve a tutelarla, a proteggere i consumatori e tutti coloro che entrano in contatto con il professionista. La deontologia “professionale” può definirsi l’insieme dei principi e regole di condotta che un determinato gruppo professionale deve osservare nell’esercizio della sua professione.
La deontologia, in relazione alle professioni intellettuali, indica, quindi, il complesso dei principi e delle regole che disciplinano particolari comportamenti, non di carattere tecnico, del professionista, collegato all’esercizio della professione e all’appartenenza all’ordine professionale.
Le norme deontologiche non vanno, però, confuse con le regole di costume, di buona educazione e di stile (es., deferenza del collega giovane verso l’anziano), giacchè queste non hanno alcun contenuto precettivo, ma si esauriscono nella sfera dell’interiorità di ogni singolo soggetto. A tal proposito è opportuno evidenziare che il giovane professionista deve trattare con riguardo il collega più anziano, il quale con suggerimenti e consigli può rappresentare una guida ed un esempio nell’esercizio della professione. Anche il collega anziano, però, è tenuto a trattare con rispetto il collega più giovane, il quale può mettere a disposizione la sua “fresca” preparazione, il costante aggiornamento e abilità nell’informatizzazione e innovazione delle procedure e della normativa.
5. - Etica e diritto.
In ordine al rapporto etica/diritto occorre evidenziare che entrambe le “istituzioni” regolano i rapporti tra individui affinchè siano garantiti la sicurezza personale e l’ordine pubblico, ma si affidano a mezzi diversi: il diritto si basa sulla legge territoriale, valida solo sul territorio statale e se non rispettata sarà seguita da una pena. L’etica, invece, si basa sulla legge morale universalmente. Mentre il diritto si occupa della convivenza fra individui, l’etica della condotta umana più in generale. La deontologia si distingue, quindi, dall’etica che si riferisce a tutte le condotte umane.
6. - Deontologia espressione di pubblico interesse.
La deontologia deriva direttamente dall’ordinamento giuridico professionale dal quale riceve il fondamentale avallo normativo ed è finalizzato a regolare i comportamenti e a salvaguardare la professionalità dei suoi iscritti. Le norme che regolamentano la deontologia della singola professione non sono espressione di istanze corporative ma veicolo del pubblico interesse al corretto esercizio della professione. Le norme che presiedono alla deontologia della categoria professionale si coniugano, quindi, con la tutela del pubblico interesse ad un idoneo, qualificato e corretto esercizio della professione, e sono finalizzate al corretto esercizio della professione per la tutela dell’interesse pubblico.
“L’esercizio del potere disciplinare è previsto, quindi, a tutela di un interesse pubblicistico, come tale non rientrante nella disponibilità delle parti, rimanendo perciò intatto, per l’organo disciplinare, il potere di accertamento della responsabilità del professionista per gli illeciti a lui legittimamente contestati, anche nel caso in cui sia intervenuta transazione, nel corso del procedimento, tra l’incolpato e il suo assistito (Cass., sez. un., 27 ottobre 2020 n. 23593)”.
7. - Il codice deontologico.
Le norme del codice deontologico sono “contenute” nel codice deontologico, documento che racchiude l’insieme delle norme deontologiche, cioè contiene le regole di condotta che un gruppo professionale deve necessariamente rispettare nell’esercizio della propria professione. Il codice deontologico, configurandosi come una emanazione dell’etica e della morale di una determinata fascia professionale in un definito periodo storico, è soggetto, come l’etica e la morale, a cambiamenti e modificazioni nel corso del tempo a secondo dei contesti culturali. Gli Ordini professionali si sono dati, nel tempo, regole comportamentali valide per tutti i professionisti di quella categoria professionale (es. avvocati, ingegneri) apportatrici di una responsabilità disciplinare, la cui trasgressione implica sanzioni disciplinari. Chi ha effettuato una scelta professionale, deve svolgerla con l’osservanza delle norme deontologiche, composte da regole obiettivamente rilevabili dalla coscienza sociale e dall’etica professionale.
8. - Legalizzazione degli illeciti.
Nella materia “deontologica/disciplinare” dei liberi professionisti vi è stata una progressiva “legalizzazione”, nel senso che sempre più spesso, normative concernenti le regole di comportamento del professionista nell’esercizio dell’attività professionale, vengono ad essere fornite dal legislatore. Infatti, il legislatore in questi ultimi tempi prescrive determinati comportamenti, stabilendo che la violazione degli stessi costituisce illecito disciplinare (si veda la nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense di cui alla legge n. 247 del 2012, che “dedica” alla deontologia vari articoli).
Gli “interventi” del legislatore nel “creare” illeciti disciplinari, non ledono l’autonomia dell’ordinamento professionale, in quanto, come affermato da autorevole dottrina “l’iniziativa legislativa finisce per rafforzare il ruolo dell’ordine …, a cui spetta pur sempre la competenza e l’autonomia per valutare e sanzionare le condotte qualificate come disciplinarmente rilevanti e conferma indirettamente la giuridicità delle norme”. Alla codificazione degli standards di etica per le professioni ha recentemente provveduto anche la Comunità europea.
9. - La tipizzazione dell’illecito disciplinare “forense”.
Il nuovo codice deontologico forense è informato al principio della tipizzazione della condotta disciplinarmente rilevante “per quanto possibile”, poiché la variegata ed illimitata casistica di tutti i comportamenti costituenti illecito disciplinare non ne consente una individuazione tassativa e non meramente esemplificativa. Nella professione forense la mancata “descrizione” di uno o più comportamenti e della relativa sanzione, non genera l’immunità, perché è possibile contestare l’illecito sulla base della norma di chiusura, secondo cui la professione forense deve essere esercitata con indipendenza, lealtà, probità, dignità, decoro, diligenza e competenza, tenendo conto del rilievo sociale e della difesa e rispettando i principi della corretta e leale concorrenza (Cass., sez. un., 18 luglio 2017 n. 17720).
10. - Violazione del codice deontologico ed illeciti disciplinari.
La violazione dei doveri, regole di condotta, principi, norme di comportamento previste dal codice deontologico, costituiscono illecito disciplinare. L’esercizio del potere disciplinare nei confronti del professionista iscritto all’albo professionale tutela il prestigio dell’ordine in presenza di comportamenti idonei a screditarne l’autorevolezza e la credibilità, tenuti dagli iscritti in violazione dei doveri professionali, comportamenti quindi contrari ai doveri di probità, di buona condotta e di deontologia professionale che i professionisti sono tenuti a rispettare nell’esercizio della professione. Per assicurare la dignità e il decoro nonché il rispetto dei valori fondanti della libera professione (ma non solo), più che un apparato di norme virtuose e progressive, è necessaria la vigile sorveglianza e l’intervento solerte dell’ordine professionale, il tutto congiuntamente ad una più diffusa e condivisa etica comune degli esercenti la libera professione, condivisa dai cittadini.
Soltanto se l’Ordine professionale ed i Consigli di disciplina sapranno efficacemente vigilare sugli iscritti, valutando eventuali abusi e mancanza nell’esercizio della professione o fatti comunque disdicevoli al decoro professionale, e facendo uso con la dovuta fermezza, ma anche con tempestività del potere disciplinare, migliorerà la cultura deontologica di tutti gli esercenti la singola professione, consentendo agli stessi di riconoscersi nel codice deontologico come sistema di norme di riferimento essenziali per la professione, e conseguentemente mantenere comportamenti professionali meritevoli di stima e di rispetto nella società. È una cosa molto importante diffondere principi di etica e di deontologia, fare conoscere i comportamenti virtuosi, capaci di influenzare il buon andamento della società. È importante diffondere, propagandare, testimoniare valori di etica e di legalità: vi è un enorme bisogno di più etica e legalità nella nostra società perché ciò vuol dire anche più giustizia, più giustizia sociale.
11. - La potestà disciplinare.
Sul “potere” degli organi professionali di emanare, nell’esercizio delle proprie attribuzioni di autoregolamentazione, norme interne di deontologia vincolanti per gli iscritti, vi è un indirizzo giurisprudenziale consolidato, nel senso che gli ordini professionali deputati per legge a valutare sotto il profilo disciplinare il comportamento degli iscritti, hanno il potere, nell’esercizio delle proprie attribuzioni di autoregolamentazione, di emanare norme di deontologia vincolanti per i singoli professionisti. Il fondamento della potestà disciplinare in capo agli organi ordinistici (per gli avvocati è strato, peraltro, espressamente previsto dalla l.n. 247/2012) è stato confermato dalla stessa Corte costituzionale (Corte cost. 12 luglio 1967 n. 110), che con riferimento all’esercizio della professione di avvocato era intervenuta affermando come il potere disciplinare sia “dato dalla legge per l’attuazione del rapporto che si instaura per l’appartenenza all’ordine, il quale impone comportamenti conformi ai fini che esso deve perseguire” e come sia “espressione di un’autonomia concessa per la più diretta e immediata protezione di questi fini, e soltanto di essi”.
E sempre la Corte costituzionale, con decisione n. 189 del 2001, aveva richiamato il codice deontologico forense del 1997 quale modo per assicurare il corretto espletamento del mandato e giustificare, nei congrui casi, l’esercizio del potere disciplinare degli organi professionali. Su tale problematica era intervenuta anche la Suprema Corte di Cassazione (Cass. 12 dicembre 1995 n. 12723) statuendo che gli ordini professionali hanno il potere, nell’esercizio delle proprie attribuzioni di autoregolamentazione, di emanare le regole di deontologia vincolanti per i propri iscritti, quale espressione di autogoverno della professione e autodisciplina dei comportamenti degli iscritti.
12. - Natura giuridica delle norme deontologiche.
In ordine alla natura giuridica delle norme deontologiche, si sono “fronteggiati” per anni due indirizzi giurisprudenziali. Un primo orientamento giurisprudenziale (Cass., sez. un., 10.7.2003 n. 10482), colloca le regole deontologiche tra le norme pattizie, con la conseguenza che le disposizioni deontologiche vanno interpretate secondo i canoni ermeneutici di cui all’art. 1362 codice civile.
In pratica le disposizioni dei codici deontologici predisposti dagli organi professionali, se non recepite dal legislatore, non hanno né la natura né le caratteristiche di norme di legge, ma sono espressione di poteri di autoorganizzazione degli ordini professionali. Sono norme che operano quali regole interne della particolare categoria professionale cui si riferiscono. Le disposizioni dei codici deontologici predisposti dagli ordini forensi, secondo tale orientamento, quindi, se non recepite direttamente dal legislatore, non hanno natura di norme di legge, e quindi non assoggettabili al criterio interpretativo di cui all’art. 12 preleggi.
Il secondo indirizzo giurisprudenziale (Cass., sez. un., 20.12.2007 n. 26810) ritiene, invece, che le norme del codice deontologico si qualificano come norme giuridiche vincolanti nell’ambito dell’ordinamento di categoria, e che trovano fondamento nei principi dettati dalla legge professionale. Le norme del codice deontologico, secondo tale indirizzo giurisprudenziale, sono fonti normative e non soltanto regole interne della categoria, e che, come tali, sono soggette al controllo della Cassazione ai sensi dell’art. 3 dell’art. 360 codice di procedura civile per violazione o falsa applicazione di norme di diritto. Le norme deontologiche sono, quindi, vere e proprie norme giuridiche e non rimangono limitati al campo etico. Del resto la giuridicità delle norme deontologiche è confermata dal fatto che la violazione di esse comporta sanzioni giuridiche (es., la sospensione dall’attività professionale; la radiazione dall’albo) E la Cassazione, sezioni unite 23 marzo 2004 n. 5776, ha ribadito che nell’ambito della violazione di legge va compresa anche la violazione delle norme dei codici deontologici degli ordini professionali, trattandosi di norme giuridiche obbligatorie valevoli per gli iscritti all’albo ma che integrano il diritto oggettivo ai fini della configurazione dell’illecito disciplinare.
13. - Le conseguenze dell’inosservanza delle regole deontologiche.
L’inadempimento del libero professionista ai propri obblighi professionali (tra cui anche l’osservanza delle regole deontologiche) configura una responsabilità che può essere civile, penale e disciplinare, in relazione ai precetti violati. Infatti, un medesimo fatto può essere valutato sotto diversi profili, e determinare una responsabilità civile, secondo i criteri fissati dalle leggi civili, una responsabilità disciplinare, quando vi è stata violazione dei principi deontologici, ed una responsabilità penale, quando l’omissione sia stata intenzionalmente realizzata, es. con patrocinio infedele. In ordine al rapporto tra responsabilità disciplinare e responsabilità civile, è indubbio che quando un fatto sia stato sanzionato disciplinarmente per accertata violazione dei doveri di comportamento, è possibile farne discendere una responsabilità anche civile secondo i principi generali.
Nel delineare il rapporto tra responsabilità deontologica e responsabilità civile, occorre evidenziare che la responsabilità civile e la responsabilità disciplinare appartengono a due mondi separati: i fenomeni sono disciplinati da diverse leggi e non solo le modalità di accertamento e repressione degli illeciti trovano autonomi momenti, ma anche le fattispecie fonte di responsabilità sono diverse; mentre la responsabilità civile tende a diventare responsabilità deontologica, la responsabilità deontologica non si trasforma automaticamente in responsabilità civile.
Il passaggio dalla qualificazione della norma deontologica da regola interna della categoria a fonte normativa, non è priva di conseguenze sul rapporto tra responsabilità deontologica e responsabilità civile. Infatti, se si qualifica la norma deontologica come “regola interna della categoria”, nessuna conseguenza o riflessi ha la violazione della norma deontologica sulla responsabilità civile; se l’illecito deontologico non costituisce anche illecito civile, dal “fatto” posto in essere dal professionista, ne discende la sola responsabilità deontologica, e non anche un contestuale giudizio civile di responsabilità. Se si qualificano, invece, le norme del codice deontologico come fonti normative e non soltanto regole interne della categoria e/o espressione di poteri di autorganizzazione degli ordini, la violazione delle regole deontologiche è violazione di una “fonte normativa” (e non solo violazione di una regola interna della categoria), con la conseguenza che ogni loro infrazione è sempre infrazione di un precetto giuridico e quindi un illecito civile.
14. - Responsabilità contrattuale e responsabilità extracontrattuale.
La responsabilità deontologica, però, non è anche sempre responsabilità civile, in quanto occorre separare la responsabilità civile contrattuale, che il professionista può avere nei confronti del cliente, dalla responsabilità civile extracontrattuale che il professionista può avere nei confronti di soggetti terzi. Quanto alla responsabilità contrattuale (che il professionista può avere nei confronti del cliente) in presenza della violazione di una norma deontologica, non dovrebbero sussistere dubbi, atteso che in base alla normativa del codice civile (artt. 1375, 1176, 1175), il contratto deve essere adempiuto secondo buona fede.
Il mancato rispetto di un precetto del codice deontologico che abbia connessione con l’attività professionale svolta, comporta infrazione ai doveri assunti con il cliente, e conseguentemente fa seguire la responsabilità civile. E ciò in quanto non una qualsiasi violazione del codice deontologico può costituire per il professionista responsabilità contrattuale, ma solo quelle che possano considerarsi in connessione con il mandato ricevuto; e così è da escludere una responsabilità civile contrattuale in caso di violazione dei doveri previdenziali e fiscali o nei confronti del Consiglio dell’Ordine. Quanto alla responsabilità extracontrattuale (che il professionista può avere nei confronti di terzi soggetti, ad es., controparte, Consulente Tecnico d’Ufficio), dalla qualificazione di fonte normativa alla norma deontologica, consegue che se il mancato rispetto della regola deontologica è atto illecito, perché atto commesso in violazione di una norma giuridica, e produce un danno ad un terzo e vi è nesso di causalità con l’atto illecito e il danno che il terzo ha subito, sussistono gli elementi della fattispecie di cui all’art. 2043 codice civile e quindi tutti i presupposti per una responsabilità extracontrattuale.
15. - Ambito di applicazione delle norme deontologiche.
Presupposto per l’applicazione del codice deontologico è l’iscrizione del professionista nell’albo professionale. L’iscrizione negli albi professionali consente non solo di acquisire uno status e dei diritti, ma determina anche l’ingresso in una “comunità” con norme di organizzazione e regole di condotta da osservare. Il professionista iscritto nell’albo professionale ha rapporti con clienti, magistrati, colleghi, rapporti che vanno sempre mantenuti nel rispetto non solo delle disposizioni di diritto ma anche dei principi etici e regole deontologiche che i professionisti si sono dati da anni, e che ormai hanno il valore di norme giuridiche, e che disciplinano la condotta del professionista in quanto appartenente all’ordine professionale. Le norme deontologiche, intese, come già detto, come quel complesso di regole di condotta che devono essere rispettate nell’attività professionale, si applicano: Etica, morale e deontologia nell’esercizio delle libere professioni
a) Ai professionisti nella loro attività professionale, nei reciproci rapporti (con i colleghi) e in quelli con i terzi.
b) Ai comportamenti del professionista nella vita privata, quando ne risulti compromessa la reputazione personale o l’immagine della professione categoriale. Sono “valutati” non solo i comportamenti del professionista nell’attività professionale, ma anche i comportamenti che riguardano la vita privata, quando vi sia una lesione soggettiva della figura del professionista categoriale od oggettiva della categoria; qualsiasi azione dell’iscritto all’albo, in qualsiasi modo posta in essere, che leda la dignità e il prestigio della classe professionale di appartenenza. Il professionista risponde, sotto il profilo deontologico, anche di fatti commessi al di fuori dell’esercizio dell’attività professionale (Cass. 8 ottobre 2018 n. 24679), atteso che il dovere dell’iscritto all’albo professionale di comportarsi in modo corretto, probo e leale si estende non solo ad ogni avvenimento della sua vita professionale, ma anche alla sua vita privata per quegli aspetti che investano in qualche modo la dignità della professione: la deontologia è vita di tutti i giorni per un professionista, fuori e dentro lo studio. Il professionista, quindi, anche al di fuori dell’attività professionale, deve osservare i doveri di probità, dignità e decoro, nella salvaguardia della propria reputazione e della immagine della professione cui appartiene. La tutela del prestigio della categoria professionale interessata deve essere, quindi, esercitata sia in relazione ad abusi o mancanze nell’esercizio della professione che a fatti non conformi alla dignità ed al decoro della professione.
c) Ai praticanti professionisti, essendo gli stessi soggetti ai doveri e alle norme deontologiche, a nulla rilevando che i medesimi siano iscritti nel registro speciale dei praticanti; il loro status si presenta preliminare a quello del professionista e pertanto sono anch’essi assoggettabili alle norme deontologiche e al potere disciplinare dell’Ordine (Cons. naz. forense 4 ottobre 2019 n. 93). Destinatari delle norme deontologiche forensi sono, quindi, anche i praticanti, anche se non hanno l’abilitazione al patrocinio.
d) Al professionista per atti di associati, collaboratori e sostituti. Il professionista è responsabile per le condotte, determinate da suo incarico, ascrivibili ai suoi associati, collaboratori e sostituti (salvo che il fatto integri una loro esclusiva e autonoma responsabilità); ciò, sempreché all’associato, collaboratore o sostituto siano richiesti compiti esecutivi di una specifico atto, che non involga loro autonome valutazioni e determinazioni sulla legittimità dell’atto stesso.
e) Alla società tra professionisti. La responsabilità disciplinare della società concorre con quella del socio quando la violazione deontologica commessa da quest’ultimo è ricollegabile a direttive impartite dalla società.
16. - Responsabilità disciplinare e volontarietà dell’azione.
La responsabilità disciplinare discende dalla inosservanza dei doveri e delle regole di condotta dettati dalla legge e dalla deontologia, nonché dalla coscienza e volontà delle azioni od omissioni.
La “coscienza e volontà delle azioni o omissioni” consistono nel dominio anche solo potenziale dell’azione o omissione che possano essere impedite con uno sforzo del volere e siano quindi attribuibili alla volontà del soggetto. Per la responsabilità disciplinare, è necessaria, quindi, anche la volontarietà dell’azione, nel senso che è rilevante ogni attività determinata e voluta comunque dall’incolpato, a prescindere dal dolo o dalla colpa, elementi, questi ultimi rilevanti al fine della “quantificazione” della sanzione disciplinare. Infatti, la responsabilità disciplinare prescinde dall’elemento intenzionale del dolo o della colpa: una condotta cosciente e volontaria è sufficiente a configurare la violazione, a prescindere dalle eventuali finalità dell’azione volitiva della condotta.
È sufficiente, quindi, ad integrare l’illecito disciplinare l’elemento della suitas della condotta, intesa come volontà consapevole dell’atto che si compie, dovendo la coscienza e volontà essere interpretata in rapporto alla possibilità di esercitare sul proprio comportamento un controllo finalistico e, quindi, dominarlo; quanto all’elemento soggettivo, per l’integrazione degli illeciti disciplinari non si richiede la consapevolezza dell’illegittimità della condotta (dolo o colpa) ma si ritiene sufficiente la c.d. suitas, ossia la volontà consapevole dell’atto che si compie.
L’evitabilità della condotta, pertanto, delinea la soglia minima della sua attribuibilità al soggetto, intesa come appartenenza della condotta al soggetto stesso. Il dolo invece, denotando una più intensa volontà di trasgressione del comando deontologico, rileva nella determinazione della misura della sanzione; è sufficiente, quindi, la volontarietà con la quale è stato compiuto l’atto deontologicamente non corretto, a nulla rilevando la ritenuta sussistenza da parte del professionista di una causa di giustificazione o non punibilità (Cass., sez. un., 30 gennaio 2018 n. 2273).
E ciò in quanto il professionista, essendo in possesso delle necessarie conoscenze tecniche/giuridiche per prevenire ed evitare le conseguenze del suo comportamento, in presenza di vicende non dovute a caso fortuito o forza maggiore, ben può rappresentarsi le stesse conseguenze. È irrilevante che il professionista non abbia previsto o non abbia voluto l’effetto della condotta (o dell’omissione): è sufficiente la volontarietà dell’azione per sanzionare il comportamento. La condotta rilevante deontologicamente può essere anche omissiva, nel caso in cui da parte del professionista vi siano vere e proprie omissioni o negligenze.
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