{{slotProps.data.titolo}}
{{slotProps.data.sottoTitolo}}
{{slotProps.data.anteprima}}
{{slotProps.data.autore}}
{{elencoDettaglioArticolo.sottoTitolo}}
È nozione istituzionale, e soprattutto luogo comune tra i pratici, che la concessione di un provvedimento cautelare (e, per estensione, di quello che sospende l’esecutività di una sentenza di primo grado) presuppone di solito il fumus boni iuris e il periculum in mora.
Ma, mentre le motivazioni dei giudici e i commenti degli studiosi, in materia, analizzano diffusamente il secondo presupposto, con riguardo al quale si è infatti formata una ricca casistica, del primo trattano frettolosamente, e si direbbe malvolentieri. Si parla di apparenza del diritto, di probabilità, di verosimiglianza, di prova superficiale, o sommaria, o prima facie, e via dicendo, ma senza rigore epistemologico né terminologico, cosicché la relativa definizione teorica rimane, per l’appunto, «fumosa». Forse le candeline e i caminetti natalizi potrebbero fornire l’occasione per indagare a fondo sulle origini e sulla natura di questo fumus.
Ma ciò richiederebbe competenze non tanto processualistiche quanto storico- giuridiche e filologiche, oltre che un notevole dispendio di energie e di tempo: tutte dotazioni che chi scrive purtroppo non possiede. Non volendo tuttavia rinunciare almeno alla formulazione di qualche congettura, ho chiesto aiuto a uno straordinario hacker di biblioteche blindate, qual è un mio antico alunno, l’avvocato Davide Pozzoli, dotato come il Mefistofele del Faust di una «quasi onniscienza» e però refrattario a farne uso (come ben potrebbe) per la produzione in proprio di dotti studi critici: ottenendone, in tempi brevissimi, alcune indicazioni preziose. Di fumus boni iuris non parlano, a quanto sembra, né le fonti romane, né i grandi dottori medioevali come Guglielmo Durante, Baldo o Bartolo. L’espressione compare però, con una certa frequenza, a partire dal tardo Cinquecento, nelle trattazioni di materie eterogenee di diversi giuristi, noti e meno noti, come il perugino Sforza Oddi (ricordato anche come drammaturgo), il pavese Giovanni Battista Costa, il forlivese Andrea Facchinei, il romano Statilio Pacifici, il grande Prospero Farinaccio (anche lui romano), il cesenate Grazioso Uberti, fino al cardinale Giovanni Battista De Luca (venusino di nascita), il Doctor vulgaris, autore del celeberrimo Theatrum Veritatis et Iustitiae. Gli elementi più interessanti che possono ricavarsi da una rassegna più che sommaria di queste fonti sembrano sostanzialmente quattro.
Il primo riguarda il probabile luogo di nascita della locuzione fumus boni iuris (o talvolta fumus veritatis): l’ambiente della Curia romana e il foro della Sacra Rota, frequentemente menzionati in modo esplicito dai predetti scrittori, inclini a considerare determinanti, in materia, gli insegnamenti della stessa Rota. Il secondo è la sua diffusione soprattutto nel linguaggio dei practici, o pragmatici, come i trattatisti si danno cura di precisare, quasi per declinarne la responsabilità. «Fumum appellant pragmatici», dice il Tractatus de remediis subsidiariis del Costa; «fumus boni iuris, ut loquuntur practici», si legge in una raccolta di casi del Facchinei. Il terzo consiste nella estrema varietà delle materie e delle situazioni processuali in cui il fumus può venire apprezzato come presupposto per l’emanazione di un provvedimento interinale, o comunque non definitivamente decisorio (restitutio in integrum, litterae remissoriae per l’assunzione di una «prova delegata», corresponsione provvisoria di alimenti, esenzione dalle spese di lite, etc.): fattispecie accomunate dalla attribuzione al giudice di ampi poteri discrezionali. Il quarto è l’incertezza della collocazione (comunque non elevata) del fumus nella gerarchia delle fonti di convincimento.
Secondo Sforza Oddi, il fumus non può equipararsi a una probatio plena, o semi plena, ma è piuttosto una probatio aliqualis, cioè «una qualche prova» (!). L’accostamento più frequente è comunque quello tra fumus e praesumptio: per lo meno quando il fumus è magnus (così una sentenza rotale citata dal Pacifici) o vehemens (così il De Luca). Ma sempre secondo il parere della Rota, riferisce Farinaccio, le prove testimoniali assunte invalidamente «non faciunt indicium nec praesumptionem, nec etiam faciunt fumum»: con il che l’efficacia probatoria del fumus (puro e semplice) si collocherebbe al livello più basso della scala. L’indeterminatezza della nozione nella dottrina dei nostri giorni, come si vede, ha origini remote. 1 Questo articolo è stato pubblicato nel fascicolo n. 6/2019 della Rivista di diritto processuale, che ringraziamo per la cortese concessione.
Ora, prescindendo per il momento dal primo elemento (l’origine specificamente romana e «rotale» della nostra locuzione), dagli altri tre si può desumere che, mentre nozioni come probatio plena, probatio semiplena, praesumptio (al netto delle variegate aggettivazioni), per quanto si possa discutere delle loro definizioni teoriche e della loro applicazione in ciascun caso concreto, rimandano a determinati percorsi epistemologici, e alla maggiore o minore efficacia dimostrativa o persuasiva delle informazioni raccolte dal giudice in funzione di un suo giudizio razionale, il fumus boni iuris è, e non può non rimanere, una semplice metafora, che rimanda a una percezione puramente sensoriale, o istintiva, della situazione di fatto e di diritto sulla quale il giudice è chiamato a pronunciarsi rapidamente e discrezionalmente, al riparo da analitici controlli della razionalità della sua decisione.
E questo può contribuire a spiegare sia l’origine pratica e forense, non teorica e dottrinale, della nozione, sia l’impossibilità di stabilire a quale livello della «gerarchia delle prove» possa collocarsi il fumus: esso si colloca in realtà al di fuori di quella scala o, potremmo dire, su una scorciatoia capace di aggirarla. L’ipotesi può trovare perfino qualche conferma testuale nell’antica letteratura di cui si è detto: per esempio nel Tractatus de Citationibus di Grazioso Uberti, dove si spiega (in tema di remissoria, cioè di autorizzazione all’assunzione di prove al di fuori della sede dell’organo giudicante) che «fumum dare … significat dare colorem, seu praesumptionem, seu inditium, quod materiae articulatae sint probabiles»; o nel quindicesimo volume del Theatrum del Cardinale De Luca (De Iudiciis), dove si parla di «particulares circumstantiae maiorem vel minorem redolentes fumum veritatis», e addirittura, con riguardo a un’istanza di esenzione dal carico delle spese di lite praetextu paupertatis, che il giudice può accoglierla se è assistita da un gustus boni iuris! Il fumus boni iuris, insomma, può avere un colore, un odore, un gusto, e il giudice ne può dunque riconoscere l’esistenza utilizzando i corrispondenti sensi, non la ragione. Per la verità, il riferimento al gusto potrebbe apparire azzardato, nonostante la grande autorevolezza della fonte: ma non più di tanto, se si pensa alle plurime similitudini alimentari che ricorrono nella leggenda ria autodifesa del giudice Bridoye davanti alla Corte di Myrelingues nel Tiers Livre di Rabelais (mi sia consentito rinviare, sul punto, al capitolo Il processo come prosciutto del mio La borsa di Miss Flite, che ha avuto l’onore di una traduzione francese, nel n. 47 di Conférence: Le procès comme jambon).
In ogni caso, gli altri due accostamenti sono sicuramente pertinenti, dato che il fumo, come fenomeno fisico, è il prodotto di una combustione, del quale la percezione può essere soprattutto visiva e olfattiva. Quanto all’olfatto, un grandissimo sapiente dell’antichità greca, Eraclito, diceva che «se tutte le cose si trasformassero in fumo, solo le narici riuscirebbero a distinguerle» (frammento A48 dell’edizione Colli). E forse analoga era l’opinione del Profeta Isaia, quando enumerava le virtù del Messia (cito, per la maggiore efficacia e la ineguagliata qualità poetica, la versione inglese detta di Giacomo I): «and he shall not judge after the sight of his eyes, neither reprove after the hearing of his ears» (Isaiah, 11.3).
La vista e l’udito possono essere tratti in inganno, l’olfatto è infallibile. Quanto alla vista, si potrebbe obiettare che il fumo nasconde le cose, e quindi è difficile immaginarlo come un aiuto per il giudice nel ricostruire sia pure sommariamente i fatti controversi. Grazioso Uberti, peraltro, attribuiva dignità di presunzione o indizio, non al fumo come tale, ma al suo colore. E ciò, trattandosi di un avvocato del foro della Rota romana, non può non far pensare alla fumata bianca che preannuncia il gaudium magnum per l’elezione del nuovo papa: rito in vigore almeno a partire dall’elezione del Papa Sisto IV, Francesco della Rovere, nel 1471. Vero è, che la fumata bianca non comunica solo la probabilità, bensì di fatto la certezza del buon esito dell’elezione. Ma è legittimo pensare che gli avvocati, ai quali si doveva la formula del fumus boni iuris, ne facessero appunto uso come patrocinatori – spesso inaudita altera parte – dell’istanza di tutela interinale rivolta al giudice, attribuendole quindi un significato positivo; mentre il difensore dell’avversario (se e quando fosse stato presente) sarebbe stato quanto meno reticente a definire bonum il diritto del quale negava l’esistenza. Dunque è possibile che chi deduceva il fumus boni iuris affermasse con ciò, implicitamente, che gli elementi Eraclito, l’elezione del papa e il fumus boni iuris conoscitivi offerti al giudice avevano la stessa «concludenza» e forza persuasiva della fumata bianca emessa dal comignolo del Conclave.
Tornando infine ai nostri provvedimenti cautelari, come si diceva la dottrina parla poco di fumus boni iuris (l’espressione, anzi, sembra essere entrata nel lessico dei giuristi di lingua italiana, inizialmente, solo per definire uno dei presupposti della concessione del gratuito patrocinio: così ancora, ad esempio, nel Trattato di Mattirolo). In compenso, come secoli addietro nel foro romano, ne parlano largamente i pratici. Vi è tuttavia da dubitare che sia fondata l’opinione comune, secondo cui la cognitio summaria del giudice del cautelare sarebbe una cognizione superficiale, approssimativa, non «piena» o approfondita come quella del giudice del merito. La cognizione del giudice, in realtà, non è una trivellazione, che possa spingersi, a seconda delle esigenze, fino a un metro nel sottosuolo, oppure a cinque o a dieci metri.
Sia il giudice del cautelare che il giudice del merito si trovano davanti un certo stock di dati informativi: documenti, dichiarazioni delle parti e dei terzi, relazioni peritali (dato che anche in sede cautelare può essere disposta una CTU). Si pensa davvero che il giudice del merito debba esaminare e utilizzare tutto questo materiale integralmente e attentamente, e invece il giudice del cautelare possa leggere una riga su due dei documenti, o ascoltare una parola su tre dei testimoni? Tutto quel che si può dire, se mai, è che il giudice del cautelare deve emettere il suo provvedimento sulla base di informazioni raccolte «in fretta e furia», e quindi più limitate, di quelle di cui disporrebbe o disporrà il giudice del merito. Ma la sua cognizione non sarebbe allora inferiore a quella ordinaria qualitativamente, ma piuttosto quantitativamente, in quanto parziale. Ora, può darsi che sia effettivamente così.
Ma non si può escludere che la cognitio summaria del giudice cautelare – quella, beninteso, di cui al primo comma dell’art. 669 sexies c.p.c. – possa essere, non solo equivalente a quella del giudice del merito, ma perfino migliore. In primo luogo, il procedimento cautelare si svolge tendenzialmente, o quanto meno fisiologicamente, in poche udienze ravvicinate e/o con lo scambio di poche memorie (quelle realmente necessarie) ugualmente ravvicinate: non secondo le sclerotiche cadenze dettate dall’art. 183, sesto comma, c.p.c.. Il che favorisce, sia pure senza garantirla, l’identità del giudice, pateticamente prevista dall’art. 174 c.p.c. ma oggetto, come sappiamo, di quotidiano scempio nel processo ordinario. In secondo luogo, la concentrazione del procedimento induce le parti a selezionare il materiale istruttorio, riducendolo agli elementi presumibilmente davvero utili (alla best evidence, se volessimo usare la terminologia americana) anziché ad accumulare nei fascicoli produzioni ciclopiche e deduzioni interminabili, in ossequio al principio che «non si sa dove il giudice andrà a parare », e quindi melius abundare quam deficere.
Ma che, d’altra parte, la cognitio summaria del giudice cautelare non sia e non possa essere di qualità diversa e inferiore rispetto alla cognizione ordinaria del giudice del merito, potrebbe trovare riscontro nel sesto comma dell’art. 669 octies, c.p.c. (introdotto con la riforma del 2005), secondo cui «i provvedimenti di urgenza emessi ai sensi dell’articolo 700 e gli altri provvedimenti cautelari idonei ad anticipare gli effetti della sentenza di merito» conservano i loro effetti anche quando successivamente non venga instaurato il giudizio di merito. Si dovrebbe infatti presumere che in tutti questi casi il giudice del cautelare, sapendo che il suo provvedimento potrà produrre effetti definitivi e stabili (si voglia o no parlare di giudicato in senso proprio), sia indotto ad una ricostruzione attenta ed accurata – e non certo «superficiale» – dei fatti controversi. Dopo di che, una valutazione «sensoriale», e in particolare olfattiva («a naso»), del fumus boni iuris (in ossequio agli insegnamenti di Eraclito e del Profeta Isaia), potrebbe trovare ancora oggi spazio solo nel caso previsto dall’art. 669 sexies, 2° comma, c.p.c., cioè quando il provvedimento cautelare viene concesso senza contraddittorio, tutt’al più («ove occorra») sulla base di sommarie informazioni.
{{slotProps.data.sottoTitolo}}
{{slotProps.data.anteprima}}
{{slotProps.data.autore}}
Categoria