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Discorsi per un’etica forense (socialmente responsabile)

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di Andrea Buti

1. Gli aspetti umani nella professione forense

Qualunque avvocato potrebbe riconoscere che il problema, quesito o questione rappresentato dal cliente o l’uso degli strumenti per la sua risoluzione possono:

  • implicare il possesso di competenze e la conoscenza di tematiche non giuridiche;
  • produrre effetti sul piano personale, umano, emotivo, relazionale, economico e d’affari del cliente, dei suoi congiunti, parenti o collaboratori;
  • produrre effetti sul piano sociale, influendo seppure in piccola parte, sulle condizioni e le performance degli uffici giudiziari e delle pubbliche amministrazioni coinvolte.

L’avvocato potrebbe quindi scegliere di accogliere il cliente e di accompagnarlo nella ricerca della migliore soluzione del problema inteso non solo nel suo aspetto giuridico, anche laddove gli obiettivi del cliente appaiano in scienza e coscienza non raggiungibili. Per raggiungere tali obiettivi bisognerebbe riconoscere che il cliente potrebbe percepire o rappresentare come giuridico un problema che in realtà non ha una causa strettamente e specificamente giuridica.

Non è forse vero che l’avvocato agisce nell’interesse del cliente piuttosto che in quello suo proprio o di altri soggetti? Allora, questo interesse non può essere confuso con l’obiettivo reso esplicito dal cliente, a meno che, all’esito dei colloqui appositamente svolti, nel rispetto di un principio di “responsabilità della comunicazione”, non risulti che vi sia perfetta coincidenza e che il cliente non abbia altri interessi che potrebbero essere frustrati o pregiudicati dal raggiungimento dell’obiettivo dichiarato.

* Lo scritto è il risultato di una serie di riflessioni su otto diversi principi che potrebbero ispirare il comportamento di un avvocato moderno che volesse porsi all’interno di un sistema etico di responsabilità sociale. Si tratta di pensieri sviluppati e maturati spontaneamente da un gruppo di avvocati sparso per l’Italia in questo periodo di crisi legato all’epidemia di Covid-19. Per maggiori informazioni su tutti coloro che hanno collaborato e/o per approfondimenti o contributi sui temi dell’etica professionale: http://eticaprofessionale.it/ blog/2020/10/12/la-prima-carta-etica-per-avvocati/

Il discorso è particolarmente delicato quando nello studio legale si agitano questioni che involgono rapporti di famiglia, affettivi o sentimentali soprattutto con i minori.

Le università italiane, tendenzialmente e salvo eccezioni, concentrano la preparazione del futuro avvocato su aspetti essenzialmente giuridici ed anche quando gli studi sono integrati con insegnamenti non giuridici (filosofia, economia, sociologia, criminologia) la gran parte dei contenuti lo è, con l’effetto che l’avvocato (magari inconsapevolmente) percepisce che per svolgere la sua funzione sia sufficiente tale tipo di competenze e, aspetto ancor più grave, che non occorrano altre competenze. In realtà il mondo è ingiusto: docenti universitari ed istituzioni (ivi incluse scuole e ministeri, rettorati) non sono affatto perfette come si potrebbe immaginare; non sembrano avere interesse o capacità di creare una preparazione moderna che richiederebbe un approccio multidisciplinare e interdisciplinare.

Sempre che i docenti ne siano consapevoli, poiché a cagione dell’organizzazione a compartimenti stagni, ognuno di loro conosce in maniera approfondita solo la sua materia: se non conosce bene le materie insegnate dai colleghi all’interno della stessa scuola (la vecchia “Facoltà”) è ancor più improbabile che possa conoscere le materie insegnate in scuole o università diverse.

Un modello di formazione decisamente lontano da quello che ha consentito di creare la London Interdisciplinary School (LIS); un esempio di costruzione di una conoscenza realmente interdisciplinare che cerca di rispondere alle richieste di competenze e saperi adatti ad un mondo in rapida evoluzione se è vero, come riporta anche il Sole 24 Ore, che il 60% dei lavori cambierà nei prossimi 5 anni.

L’avvocatura non è destinata a subire cambiamenti? Così delle competenze assolutamente fondamentali, come quelle trasversali, per qualunque professionista non sono di solito insegnate nelle università in cui in effetti non si insegna:

  • come comunicare (nemmeno a scrivere)
  • come negoziare o trattare con il prossimo
  • come gestire un conflitto o una discussione
  • come affrontare e risolvere un problema
  • come gestire le proprie ed altrui emozioni
  • come prendere decisioni consapevoli

Conseguentemente l’avvocato si costruisce, a partire dall’università, un sistema di credenze o mindset in forza del quale ritiene che possa e debba sapere solo di diritto, con la grave conseguenza di non affrontare professionalmente tutte le questioni e di problemi che giuridici non sono, ma che dall’aspetto giuridico non possono essere scissi, poiché semplicemente fanno capo alla stessa persona in carne e ossa; così l’avvocato nell’affrontare il problema tecnico-legale, potrà ignorare ma non annullare, escludere o impedire che si producano effetti sulla sua sfera emotiva, su quella del cliente o dei suoi congiunti, parenti o collaboratori.

Basti pensare agli effetti sulla sfera relazionale del cliente coinvolto in una questione di vicinato o condominio: la decisione di impugnare una delibera condominiale o di iniziare una causa per regolamento di confini non potrà non avere conseguenze nei rapporti con la controparte con la quale il cliente dovrà continuare a relazionarsi per molto tempo ancora, a meno che non abbia intenzione di trasferirsi o cambiare casa.

Una causa per pochi euro di spese condominiali contribuisce a creare l’immagine e la reputazione del cliente-condomino agli occhi degli altri condomini, contribuendo a definire (in senso positivo o negativo) i rapporti all’interno del condominio. Un avvocato responsabile, invita il cliente a riflettere su questi aspetti, segnalando ad esempio la possibilità di intervenire a monte, sulla reale causa del problema che magari non è la bolletta, ma ai rapporti tra condomini che potrebbero essere gestiti in maniera diversa, ad esempio, con idonee azioni formative proprio all’interno del condominio.

Il cliente ha bisogno di essere ascoltato ed accolto; talvolta si rivolge all’avvocato perché non riesce ad individuare un altro professionista che potrebbe aiutarlo a risolvere il suo problema. L’avvocato anche se non lo desidera o non lo ricerca, finisce per essere un interlocutore privilegiato rispetto ad altri professionisti che non vengono consultati per i più disparati motivi (psicologi, servizi sociali o altre professioni semisconosciute). Mettendosi in posizione di ascolto attivo senza indirizzare o ridurre la comunicazione (v. ancora infra sulla “responsabilità delle comunicazione”) a temi strettamente giuridici, l’avvocato potrà più facilmente individuare i reali interessi del cliente (v. anche “interesse del cliente”).

In questo senso, pertanto il tempo dedicato al cliente è gestito strategicamente al fine di farlo sentire ascoltato ed accettato: l’avvocato eviterà di troncare o evitare discussioni su temi non giuridici che anzi potranno risultare utili nella fase di individuazione degli interessi del cliente. Chi si rivolge all’avvocato vuole comprendere quali siano i suoi diritti o obblighi in relazione ad una determinata situazione o per ottenere conferma della ragione che si autoattribuisce.

L’avvocato dovrebbe riconosce che è essenziale assumere un atteggiamento critico nei confronti di quanto riferito dal cliente che potrebbe, anche in buona fede, omettere o dimenticare di condividere informazioni, dati, interessi, aspettative o timori. È fondamentale quindi adottare un approccio aperto che tenga conto e riesca ad individuare i tutti i possibili interessi che il cliente potrebbe avere anche non chiari nel momento in cui parla con l’avvocato e che potrebbero essere diversi rispetto all’obiettivo dichiarato o a quanto reso esplicito nel corso delle conversazioni.

Il rischio nascosto che l’avvocato potrebbe (anche inconsapevolmente) accettare è quello di una strumentalizzazione del diritto o del processo con sua manipolazione da parte del cliente, specie laddove si tratti di interessi negativi finalizzati ad impedire che la controparte possa raggiungere i suoi risultati; in tali casi è concreto il rischio che il cliente assuma posizioni irragionevoli o usi motivazioni irrazionali (come la logica perversa ed antieconomica del “ho fatto 30, facciamo 31”).

Si tratta di un’estensione del principio alla base del divieto di atti emulativi o di abuso del diritto o del processo: la situazione quindi potrebbe essere prodromica al verificarsi di una di queste ipotesi o insufficiente ad integrarle. Trattandosi comunque di una considerazione etica è chiaro che l’avvocato si adopera per evitare atteggiamenti che, seppure non rilevanti per il diritto, non appaiano meritevoli di tutela in quanto costituirebbero una manipolazione difficilmente foriera di interessi positivi.

Un esempio per essere più chiari. Il cliente lamenta uno sconfinamento da parte del vicino e dichiara di essere intenzionato ad ottenere – quale obiettivo – l’arretramento, con conseguente restituzione dell’area illegittimamente occupata: con tale azione il cliente intende più o meno consapevolmente soddisfare un suo interesse, bisogno o esigenza personale che potrebbero consistere nell’“ottenere giustizia”, “applicare la legge”, essere una “questione di principio” o ridefinire la relazione con l’altra parte al fine magari di ottenere una vittoria nei suoi confronti, quasi che la sentenza rappresenti una sorta di “vendetta legale” a precedenti atti o comportamenti ritenuti ingiusti o offensivi posti in essere dal vicino e del tutto indipendenti dallo sconfinamento, magari risalenti nel tempo.

La sentenza sperata potrebbe dunque nella mente del cliente essere più un mezzo che un fine che, talvolta, è difficile mettere a fuoco, attesa la sua matrice tipicamente emotiva che rende difficile anche solo descrivere – allo stesso cliente – il suo stato interiore. Questo rischio è più probabile nei rapporti che implicano una relazione in essere da tempo e che si è strutturata in maniera negativa come nel caso di rapporti di vicinato, condominio, rapporti di lavoro o societari o nel caso di scioglimenti di comunioni o divisioni tra parenti.

2. Trasparenza

Nel rapporto con il cliente l’avvocato si dovrebbe o potrebbe ispirare a principi di massima trasparenza al fine di ridurre e tendenzialmente escludere l’asimmetria informativa (come l’ha chiaramente definita l’economista Stefano Zamagni anche in un convegno sull’etica forense organizzato dall’Ordine degli Avvocati di Modena) di conoscenze che potrebbero mettere il professionista in una situazione di vantaggio sul piano economico, organizzativo o di gestione del tempo. La fiducia con clienti e colleghi può essere mantenuta solo adottando un atteggiamento trasparente basato quindi sulla totale condivisione di informazioni e dati evitando una loro selezione strategica al fine di ottenere posizioni di vantaggio: un rapporto in cui una delle parti trattenga volontariamente delle informazioni per sé sarebbe come una relazione in cui sono presenti tradimenti o segreti.

Nascondere informazioni è indice di un atteggiamento tipicamente competitivo che si basa sulla sfiducia e può avere un senso unicamente nelle situazioni in cui il rapporto non sia destinato a proseguire, come nel caso di vendite cd. “spot”, ossia transazioni commerciali con una persona “di passaggio” con la quale è improbabile avere rapporti in futuro. L’avvocato potrà condividere così con il cliente ogni informazione circa la fondatezza delle sue pretese sotto il profilo teorico, quello pratico, quello dei tempi, dei costi e degli effetti indesiderati o collaterali derivanti dall’uso delle diverse tecnologie a disposizione, dedicandovi il tempo necessario.

3. Neutralità dei mezzi

L’avvocato si dovrebbe astenere dall’utilizzare o consigliare una forma di risoluzione del problema solo perché è quella che egli personalmente preferisce per motivi economici, di organizzazione o per semplice piacere o facilità di impiego. Al contrario, l’avvocato dovrebbe optare per lo strumento di risoluzione che, sulla base delle informazioni raccolte, ritiene in scienza e coscienza il più adeguato a tutelare e soddisfare i reali interessi del cliente. Le tecnologie a disposizione dell’avvocato per risolvere il problema possono essere, nel rispetto del “principio di sussidiarietà” (v. infra):

  • il supporto o l’assistenza indiretta in una negoziazione diretta tra cliente e controparte: l’avvocato non figura o non compare agli occhi della controparte e agisce come consulente del cliente
  • l’assistenza diretta in una negoziazione tra cliente e controparte
  • la rappresentanza del cliente in una una negoziazione con il collega che rappresenta la controparte
  • o altre forme di ADR o ODR senza l’intervento di terzi neutrali
  • la conciliazione o la mediazione (presso organismi pubblici o privati) o altre forme di ADR o ODR con l’intervento di terzi neutrali
  • l’arbitrato
  • il processo

La maggior conoscenza, fiducia o piacere nell’utilizzare una tecnologia piuttosto che un’altra non dovrebbero avere alcun impatto nella scelta di quella più adatta nel singolo caso concreto; nel caso in cui l’avvocato non si senta padrone di una certa tecnologia, nel rispetto dei principi di trasparenza e cura, ne dovrebbe parlare con il cliente individuando un altro collega da affiancare o a cui delegarne l’uso. Ad esempio l’avvocato esperto o che preferisce l’uso di tecnologie processuali delegherà o affiancherà un collega nella fase delle negoziazione o della conciliazione e altrettanto potrà fare l’avvocato maggiormente vocato all’utilizzo di tecnologie stragiudiziali qualora, in ipotesi di loro fallimento, dovesse essere necessario procedere con un processo o un arbitrato.

4. Limitatezza

L’avvocato potrebbe riconoscere che tendenzialmente, salvo rare eccezioni, non esistono sistemi di risoluzione dei problemi legali che non producano alcun effetto indesiderato sotto un qualsiasi profilo (giuridico, economico, emotivo, relazionale, di opportunità, sociale). Nel rispetto del principio di trasparenza l’avvocato spiegherà al cliente quelli che, nel singolo caso concreto, potranno essere i più probabili effetti collaterali non voluti legati all’uso dei diversi strumenti di risoluzione del problema del cliente. Ogni tecnologia produce effetti positivi e negativi: la soluzione ideale esiste come eccezione e non come regola, pertanto, l’avvocato nel rispetto dei principi di fiducia, trasparenza, cura e responsabilità della comunicazione, valuterà pro e contro di ogni diversa soluzione con il cliente. Nella tabella che segue sono riportati i principali vantaggi e svantaggi delle diverse tecnologie:

L’avvocato, inoltre, si potrebbe adoperare per individuare la tolleranza e la propensione al rischio del proprio cliente in relazione agli effetti o alle conseguenze collaterali non voluti e lo invita a riflettere sulla sua effettiva capacità di assorbirle. Sia in fase di prevenzione che di risoluzione del problema, l’avvocato indicherà tutti i possibili scenari che si potrebbero aprire in seguito all’utilizzo delle diverse tecnologie, sia positivi che negativi, al fine di consentire al cliente di scegliere quello che, all’esito di un bilanciamento tra aspetti negativi e positivi, apparirà il più funzionale al raggiungimento dei suoi interessi.

L’avvocato riconosce ed illustra al cliente che la gravità delle conseguenze dello scenario è indipendente dalla probabilità che lo stesso si verifichi. Si tratta quindi di affiancare il cliente nella scelta degli scenari accettabili sulla base delle oggettive risorse disponibili e della personale propensione al rischio di quest’ultimo. Così, a titolo di mero esempio, una persona benestante con elevata propensione al rischio, in una situazione con bassi o scarsi effetti collaterali sul piano personale, potrebbe accettare il rischio di perdere una causa e dover pagare tra sorte capitale e spese 20.000 euro: lo stesso rischio potrebbe invece essere inaccettabile – per motivi soggettivi – per una persona altrettanto benestante, ma con una bassa propensione al rischio o essere inaccettabile – per motivi oggettivi – per un capofamiglia unico percettore di basso reddito con coniuge e figli a carico, anche se avesse un’alta propensione al rischio.

In generale un avvocato non dovrebbe consigliare o consentire al cliente di accettare rischi estremi. Il professionista altresì potrebbe riconoscere che può esistere una forma di pensiero semplificante comunemente ed inconsapevolmente adottato (anche da insegnanti, professori, amministratori o politici), basato su logiche lineari, come il semplice causa-effetto, che non consente una piena comprensione della complessità del mondo moderno così come chiaramente illustrata nei plurimi lavori del filosofo Edgar Morin o nell’originale “Ecologia del diritto” di U. Mattei e F. Capra.

L’avvocato riflette e prende consapevolezza dell’utilizzo di tale forme di pensiero e, nel rispetto del principio di trasparenza, si adopera al meglio delle sue capacità al fine di far riflettere il cliente sulle conseguenze dell’uso di un simile pensiero al fine di consentirgli di individuare autenticamente i suoi interessi e le soluzioni ad essi più adatte e confacenti. Gli esseri umani decidono anche sulla base di stimoli emotivi e che le motivazioni razionali di volta in volta individuate potrebbero essere delle spiegazioni a posteriori, per cui un professionista moderno dovrebbe apprezzare l’importanza dell’intelligenza emotiva al fine di gestire al meglio le proprie e le altrui emozioni.

Nel 2002 Daniel Kahneman è stato insignito del premio nobel per l’economia “per avere integrato i risultati della ricerca psicologica nella scienza economica, specialmente in merito al giudizio umano e alla teoria delle decisioni in condizioni d’incertezza”. I suoi studi sviluppati in oltre 30 anni hanno mostrato come gli esseri umani prendano decisioni utilizzando (spesso inconsapevolmente) euristiche (scorciatoie cognitive) che rispondo a bias difficili da riconoscere e cambiare, i quali interessano, come ha dimostrato il neuroscienziato Antonio Damasio, strutture cerebrali che governano processi emotivi. In uno studio del 2011 degli allievi di Kahneman (pubblicato sull’autorevole PNAS) è stato dimostrato che la probabilità di ottenere una sentenza favorevole decresce nel corso dell’udienza fin quasi ad azzerarsi nel momento in cui il giudice fa una pausa per un caffè o per il pranzo. Un altro studio del 2008 di C. De Bona dell’Università di Trento, ha mostrato come i giudici donna liquidino a favore delle donne assegni di mantenimento di importi superiori alla media. L’avvocato dovrebbe considerare e – nel rispetto del “principio di trasparenza” – informare il cliente del fatto che la memoria umana può facilmente incorrere in fallacie e che quindi sia la ricostruzione operata dal cliente sia quella attesa da un testimone potrebbero condurre a risultati non soddisfacenti.

5. Complessità comunicativa

L’avvocato dovrebbe riconoscere che la comunicazione interpersonale è strutturalmente complessa e che in alcuni casi può essere realmente difficile capire o farsi capire dal cliente, dalle controparti, dai giudici o dai consulenti, ed essendo egli professionista si farà carico di eventuali problemi o difetti di comunicazione e sia impegnerà per risolverli. “Fraintendersi è più facile che intendersi”: questa è la regola base che conosce ogni buon comunicatore: l’avvocato dovrebbe considerare ed accettare le difficoltà oggettive di intendersi pienamente con gli altri ed il fatto che il linguaggio verbale raramente è univoco e se ne fa carico, ritenendo la conoscenza della comunicazione una componente fondamentale delle competenze che un buon professionista deve possedere e padroneggiare. Un professionista moderno – come un medico ad esempio – non si aspetta che il cliente fornisca autonomamente le informazioni decisive per prendere decisioni consapevoli, anzi, come il bravo medico, si adopera con pazienza e dedizione all’emersione dei sintomi significativi. Al tavolo negoziale si impegna in maniera proattiva per mantenere una comunicazione costruttiva e non reattiva.

6. Preventività

L’avvocato riconoscendo i limiti dei mezzi a sua disposizione, potrebbe e dovrebbe operare per prevenire l’insorgere di problemi legali, ponendo particolare cura, attenzione e dedizione nell’uso di tecniche di comunicazione, negoziazione, gestione del conflitto e redazione contrattuale che consentano di progettare clausole di risoluzione delle liti che abbiano funzione ed approccio costruttivi e collaborativi al fine di massimizzare e tutelare la fiducia che le parti contraenti si stanno reciprocamente scambiando.

Considerato che le tecnologie a disposizione raramente sono prive di effetti collaterali e non sempre sono del tutto risolutive, specie attesa la complessità dei problemi, l’avvocato potrebbe agire con un approccio proattivo invece che reattivo, tentando di prevenire i problemi piuttosto che tentare di risolverli una volta che si sono manifestati.

Questa è attività è sempre possibile in sede di stipula dei contratti: in tale fase le parti contraenti sono in un clima positivo e collaborativo che andrebbe mantenuto e preservato anche nel caso in cui sorgano problemi (prestazione inesatta, incompleta, ritardata, difetti, vizi, o altro): in tal senso è opportuno prevedere forme di risoluzione autonome e stragiudiziali considerato il meta-messaggio assolutamente negativo che viene veicolato dall’introduzione di una qualsiasi procedura giudiziaria.

7. Sussidiarietà

L’avvocato dovrebbe informare il cliente dell’opportunità di optare, quale prima scelta di risoluzione del suo problema, per strumenti stragiudiziali, al fine di impegnare il sistema giudiziario statale solo nel caso in cui sia impossibile addivenire ad una soluzione in via del tutto autonoma, sia nell’interesse del cliente che della collettività. Come notava Pietro Calamandrei (membro dell’Assemblea Costituente): “Il vero avvocato svolge la sua opera più preziosa prima del processo, stroncando con saggi consigli di transazione i litigi all’inizio, e cercando di fare tutto il possibile per evitare di dover ricorrere alla “clinica giudiziaria”. L’avvocato diviene così igienista della vita giudiziaria, colui che attua una quotidiana opera di non litigiosità, colui che dal giudice dovrebbe essere considerato come il collaboratore più fidato”. Solo una motivazione etica può spingere l’avvocato ad impegnarsi più di quanto già fa per aumentare il numero di controversie definite mediante accordo, magari implementando le proprie capacità negoziali nel rispetto del principio di formazione. In linea teorica ogni controversia che ha ad oggetto diritti disponibili può essere definita con una transazione che è dettagliatamente disciplinata nel codice civile a testimonianza della sua sicura rilevanza nell’ordinamento.

8. Coordinazione

L’avvocato dovrebbe riconoscere che, attesa l’attuale complessità delle questioni giuridiche sostanziali e processuali, non è possibile per un solo professionista occuparsi non solo di tutte le materie (tributario, amministrativo, societario, penale, civile, privacy, diritto sanitario, diritto sportivo, proprietà intellettuale etc..), ma anche di tutte le tecnologie che richiedono perizia per essere usate: per tale motivo, consapevole dei propri punti di forza e di debolezza, organizzerà una rete di contatti, relazioni e collaborazioni con i colleghi più abili sulle questioni o gli aspetti o le tecnologie in cui egli è meno performante o competente per fornire al cliente un servizio di qualità adeguata, salvaguardando la propria reputazione ed integrità etica.

L’avvocato soffre talvolta di solipsismo ed è abituato a lavorare in autonomia; esistono grandi studi legali con organizzazione di tipo imprenditoriale, ma tendenzialmente non è diffusa l’idea di “servizi legali in rete” tra diversi colleghi che operano in diversi studi legali. Nel rispetto del principio di fiducia, l’avvocato si potrebbe organizzare, mettendo a sistema diverse competenze al fine di offrire un servizio qualitativamente migliore al cliente ed esaltando le competenze ed il talento personale. Un cliente con un problema che può essere risolto in sede stragiudiziale potrebbe essere condiviso da un collega con più spiccate doti di processualista, attraverso una co-difesa, con un collega più esperto e motivato a condurre trattative; al contrario un avvocato non a proprio agio con procedure giudiziali potrebbe avvalersi della collaborazione di un collega più abituato a muoversi nelle aule del palazzo di giustizia.


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