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Chiarezza e sinteticità degli atti: cosa cambia?

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Andrea Pasqualin

Con il decreto ministeriale 7 agosto 2023, n. 110, è stata dunque data attuazione all’art. 46 disp. att. c.p.c. così come modificato con la c.d. riforma Cartabia (d.lgs. n. 149 del 2022). Il decreto contiene, tra le altre cose, la declinazione in termini formali del principio di chiarezza e sinteticità degli atti del processo, codificato, con il ricordato d.lgs. n. 149 del 2022, anche nel processo civile con la modifica dell’art. 121 c.p.c., nel primo comma del quale è stata aggiunta la prescrizione secondo cui “[t]utti gli atti del processo sono redatti in modo chiaro e sintetico”.

È noto come la giurisprudenza della Suprema Corte da tempo vada sostenendo che tale principio già vigesse nel processo civile1, talché la previsione dell’art. 1, c. 17, lett. d) della legge delega n. 206 del 2021 2 (che ha trovato attuazione con il ricordato d.lgs. n. 149) non ha fatto che recepire una prescrizione che era già diritto vivente.

Non ci si può peraltro esimere dall’osservare come il legislatore delegante abbia ritenuto di richiamare i principi di chiarezza e sinteticità, variamente coniugandoli con quello di specificità, in una serie di norme del codice di rito, disciplinanti tra l’altro gli atti di impugnazione, anche almeno apparentemente ancorando al rispetto di detti principi l’ammissibilità di tali atti.

Ci si riferisce, tra le altre, alle seguenti disposizioni della legge delega: al comma 8, lett. c) 3, che ha condotto alla modifica dell’art. 342 c.p.c., secondo cui ora “[l]’appello deve essere motivato, e per ciascuno dei motivi deve indicare a pena di inammissibilità, in modo chiaro, sintetico e specifico: 1) il capo della decisione di primo grado che viene impugnato; 2) le censure alla ricostruzione dei fatti compiuta dal giudice di primo grado; 3) le violazioni di legge denunciate e la loro rilevanza ai fini della decisione impugnata”; e, ancora, al comma 9, lett. a)4 , che ha determinato la modifica dell’art. 366 c.p.c., il cui primo comma ai numeri 3) e 4) ora prevede che “[i]l ricorso deve contenere, a pena di inammissibilità: … 3) la chiara esposizione dei fatti della causa essenziali alla illustrazione dei motivi di ricorso; 4) la chiara e sintetica esposizione dei motivi per i quali si chiede la cassazione, con l’indicazione delle norme di diritto su cui si fondano”.

Ora, l’aver aggiunto alla statuizione di principio di cui all’art. 121 c.p.c. questi richiami sparsi in norme del codice potrebbe indurre a chiedersi se la chiarezza e la sintesi da essi predicate valgano ad immutare, aggravandoli, i presupposti (nella fattispecie) di ammissibilità degli atti ai quali si riferiscono.

Limitando la risposta ai due casi ricordati – non è infatti questo il tema del presente scritto, ma la questione è pur sempre attinente alla materia regolata, anche se sotto il profilo formale, dal decreto ministeriale in commento – verrebbe da rispondere negativamente.

Nel senso che queste modifiche non paiono poter incidere sulla giurisprudenza che si è formata e consolidata (almeno tendenzialmente, quanto al giudizio di legittimità) circa i presupposti di ammissibilità degli atti di impugnazione.

E così, quanto all’appello, sulla regola per cui ampiezza e strutturazione del gravame devono correlarsi alle caratteristiche della decisione impugnata5.

E, quanto al giudizio di legittimità, sulla regola secondo cui l’esposizione sommaria dei fatti della causa deve comprendere, sia pure sinteticamente, l’oggetto della controversia, l’indicazione delle parti e delle rispettive posizioni, il contenuto delle sentenze dei gradi di merito, le ragioni sviluppate nelle impugnazioni6, e sulla regola della necessaria specificità dei motivi7, fermo che la mancanza di sintesi è da ritenere che – qualora non si traduca in difetto di specificità – possa rilevare solo sotto il profilo del governo delle spese [art. 1, c. 17, lett. e), della legge delega e art. 46 disp. att. c.p.c.].

Ma venendo ora al decreto ministeriale n. 110, è subito il caso di dire che, anche a seguito delle modifiche indotte dalle reazioni dell’Avvocatura alla prima bozza che era circolata, esso non risulta contenere previsioni particolarmente penalizzanti per gli avvocati.

E che esso può invece essere visto, in una con la codificazione dei principi di chiarezza e sintesi, come un’interessante provocazione ad un aggiornamento dei costumi professionali degli avvocati, da considerarsi quale uno dei fattori di recupero dell’efficienza e dell’effettività della giurisdizione. Mette conto anzi tutto soffermarsi sulla prima considerazione e cioè sull’oggettivamente modesto impatto delle regole dettate dal provvedimento in parola.

Iniziando dai limiti dimensionali degli atti (art. 3), si può rilevare che essi (limitati alle cause di valore inferiore a € 500.000,00; e per quelle di valore indeterminabile?) appaiono sufficientemente congrui (quante volte è capitato di scrivere una citazione di oltre 40 pagine?), anche in considerazione delle parti degli atti che sono escluse da tali limiti (art. 4); e comunque la doverosa, pacifica, superabilità di questi limiti (art. 5) elimina qualsiasi residuo dubbio al riguardo.

Volendo essere pignoli si potrebbe osservare che mentre l’art. 46 disp. att. c.p.c. prevedeva che i limiti dimensionali venissero fissati “tenendo conto della tipologia, del valore, della complessità della controversia, del numero delle parti e della natura degli interessi coinvolti”, il regolamento, nel valorizzare detti criteri quali ragioni giustificatrici del superamento dei limiti in questione, ha fatto riferimento alla sola complessità, della quale gli altri criteri divengono indice. Si tratta peraltro di un rilievo più apparente che reale, posto che tali altri criteri non sono i soli a poter integrare la complessità legittimante il superamento, come emerge dal termine anche che compare nel primo comma dell’art. 5 (“I limiti … possono essere superati se la controversia presenta questioni di particolare complessità, anche in ragione della tipologia, del valore, del numero del- le parti o della natura degli interessi coinvolti”). È piuttosto da apprezzare, quanto al limite dimensionale per le note scritte di cui all’art. 127-ter c.p.c., la precisazione che esso valga “quando non è necessario svolgere attività difensive possibili soltanto all’udienza” [art. 3, c. 1, lett. c)]; del resto, nonostante la testuale previsione dell’art. 127-ter c.p.c. (secondo cui le note scritte devono contenere “le sole istanze e conclusioni”), appare nel sistema che l’adozione di tale modalità di trattazione in certi casi debba consentire lo svolgimento di deduzioni ulteriori rispetto alle mere istanze e conclusioni: si pensi alla sostituzione con il deposito di note scritte della prima udienza di un procedimento ex art. 281-decies c.p.c., nella quale le parti possono svolgere le attività di cui all’art. 281-duodecies c.p.c..

Un (piccolo) appunto riguarda l’esclusione delle note, “salvo che per l’indicazione dei precedenti giurisprudenziali nonché dei riferimenti dottrinari” (art. 6). Un moderato uso delle note, infatti, consentirebbe maggiore fluidità nell’esposizione del testo, senza appesantirlo con argomenti utili, ma di rilevanza complementare, che possono trovare adeguata collocazione appunto in una nota.

Ma qui si entra nel più ampio tema delle tecniche di redazione e del linguaggio del processo, di cui più oltre. Un cenno merita l’art. 2, che, con la rubrica “Criteri di redazione degli atti processuali delle parti private e del pubblico ministero” indica la strutturazione degli atti del processo, elencandone minuziosamente la scansione.

A prima vista può apparire un catalogo inutile, anche perché in buona parte riproduttivo di quanto già prevede il codice di procedura civile. La previsione appare destinata a determinare un certo grado di standardizzazione degli atti del processo.

Con l’auspicio che essa non divenga la premessa per l’applicazione agli atti del processo di principi di intelligenza artificiale, si può cercare di vedere gli aspetti positivi di questa disposizione, considerandola un piccolo incentivo alla maturazione di un nuovo modo di scrivere nel processo.

È infatti da ritenere che la vera portata innovativa della codificazione dei principi di chiarezza e di sintesi sia rappresentata da un forte stimolo all’adozione di modalità di redazione degli atti che si adeguino, in termini di razionalizzazione e di organizzazione del loro contenuto, alle mutazioni della fisionomia della giurisdizione indotte dalle cadenze del processo civile telematico e dalla non condivisibile tendenza al sostanziale abbandono dell’oralità.

Se a ciò si aggiunge la perdurante carenza di risorse, con la conseguente limitazione del tempo che può essere dedicato dai giudici a ciascuna causa, il quadro che ne esce è quello di un processo in cui diviene fondamentale farsi leggere e comprendere nel minor tempo.

Ecco allora che chiarezza e sinteticità significano dire tutto quello che serve, omettendo ciò che è inutile, ripetitivo e sovrabbondante, e farlo in modo razionale. E a tale proposito il catalogo di cui all’art. 2 del d.m. n. 110 risulta rappresentare un piccolo, ma utile, supporto. Il processo è una catena: un atto introduttivo allestito in modo razionalmente organizzato e proporzionato alle caratteristiche e alla complessità della controversia – e perciò non dispersivo o inutilmente ripetitivo e ridondante – consente di individuare e circoscrivere più agevolmente thema decidendum e thema probandum; ne beneficiano le altre parti, che possono concentrarsi sulle questioni rilevanti, e ne beneficia il giudice, che può esercitare in modo più sollecito e proficuo il case management, tempestivamente e opportunamente indirizzando trattazione e istruttoria verso la decisione; valendo poi questo, naturalmente, anche per i successivi gradi del giudizio.

Inutile dire che questo contesto esige anche la fattiva partecipazione dei giudici, non solo in quanto i precetti di chiarezza e sinteticità sono rivolti anche a loro (art. 7 del d.m. n. 110), ma anche, se non sopra tutto, perché l’impegno e la dedizione per assicurare migliore qualità alla giurisdizione devono essere corali.

Quanto precede richiede diverse, da quelle tradizionali, modalità di costruzione degli atti, che, fermo quanto ora detto per quelli introduttivi, nel seguito del processo non si affidino in modo acritico alle abusate tecniche del copia-incolla e si fondino su un’accurata selezione degli argomenti ancora attuali e sulla mirata e specifica contestazione delle ragioni delle altre parti.

Occorre dunque investire nell’accuratezza degli atti, affinché la loro modulazione sia effettivamente funzionale a veicolare nel modo più produttivo e diretto le ragioni difensive e perciò a persuadere, tenendo presente che di frequente un atto breve è più efficace di uno eccessivamente ponderoso.

Di qui l’utilità anche delle parole chiave di cui alla lettera c) del primo comma dell’art. 2 del d.m. n. 110, ma anche dell’indice e della “breve sintesi del contenuto dell’atto”, che il secondo comma dell’art. 5 del decreto prescrive per il caso di (motivato) superamento dei limiti dimensionali, ma che, fatta eccezione per i procedimenti a contenuto vincolato (ad esempio: ricorsi per ingiunzione, convalide di sfratto, procedimenti di istruzione preventiva) e per le cause di maggiore semplicità fattuale e giuridica, possono rappresentare un valido ausilio per un più rapido ed efficace inquadra- mento, da parte del lettore, dei temi trattati.

Ciò richiede sicuramente maggior tempo e maggiore attenzione (è più facile e rapido essere prolissi e disordinati), oltre che capacità di selezione di ciò che è davvero rilevante, nonché di sintesi, ma il beneficio in termini di tempi del processo e di qualità del suo pro- dotto appare certo.

Quanto precede sollecita in modo diretto la professionalità degli avvocati: di quelli maturi, chiamati ad impegnarsi nella direzione indicata, e dei giovani, per i quali sarà opportuna un’attività di supporto e di formazione.

Si è naturalmente consapevoli che non è solo scrivendo atti chiari e sintetici che si otterrà l’auspicato recupero di efficienza e di effettività della giurisdizione e che restano sempre irrisolti i nodi cruciali rappresentati dalla carenza delle risorse, dai problemi di organizzazione, dalla continua, sostanzialmente inutile, riforma delle regole processuali, che appare destinata solo ad aumentare il tasso delle liti sulla loro applicazione.

Tuttavia il messaggio portato dalla codificazione dei principi di chiarezza e di sinteticità è importante e non va trascurato: è un invito a valorizzare al meglio la risorsa (scarsa) della giurisdizione, investendo nella qualità dell’attività difensiva, nell’interesse, almeno in prospettiva, della ragionevole durata del processo e della sua efficienza.


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