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Sommario: 1. Pari dignità di tutti gli esseri umani e fratellanza reciproca. – 2. Il lavoro: veicolo primario di promozione della pari dignità. – 3. Sviluppo sostenibile. – 4. Le norme non bastano. – 5. Combattere le discriminazioni. – 6. Conclusioni.
1. Pari dignità di tutti gli esseri umani e fratellanza reciproca La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani proclamata il 10 dicembre 1948 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite 1 costituisce una pietra miliare nella storia del diritto internazionale e segna l’inizio di una nuova era.
Si tratta di una rivoluzione giuridica, politica, culturale e sociale perché essa rappresenta il primo atto in cui non un solo Stato, ma una pluralità di Stati si è impegnata «a perseguire, in cooperazione con le Nazioni Unite, il rispetto e l’osservanza universale dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali», muovendo dalla considerazione secondo cui «il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali e inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace» 2 .
Essa trova il suo perno nella dimensione centrale della persona umana 3 come è dimostrato in modo evidente dal suo art. 1 in base al quale: “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”.
Questa solenne proclamazione della pari dignità di tutti gli esseri umani è stata ribadita in tutte le molteplici Convenzioni settoriali che hanno fatto seguito alla Dichiarazione universale e anche in molte Carte costituzionali di singoli Stati (e anche nella nostra, sia pure con una impostazione del tutto peculiare, come vedremo).
Va anche sottolineato che pure il richiamo alla “fratellanza” ha avuto il suo seguito non solo nelle parole di Papa Francesco − che, nella sua terza enciclica, “Fratelli tutti”, dedicata alla fraternità e all’amicizia sociale, è tornato sul tema della fratellanza umana leggendolo anche alla luce della recente pandemia − ma pure nell’ambito della UE.
Non va, infatti, dimenticato che l’auspicio formulato quattro anni prima della presa della Bastiglia dal poeta tedesco Friedrich von Schiller: “Alle “Menschen werden Brüder” − tutti gli uomini saranno fratelli – è stato inserito nell’ultimo movimento della Nona Sinfonia di Ludwig van Beethoven, composta mettendo in musica l’Inno alla gioia, scritto da Friedrich von Schiller.
Questo inno è diventato l’inno dell’Unione europea e dell’intera Europa. Quando lo sentiamo siamo tutti in qualche modo commossi, ma è arrivato il momento di chiederci se in Europa siamo realmente diventati “fratelli”, nella consapevolezza che il concetto di fratellanza in Europa funziona su due livelli: fra gli Stati membri e fra le persone che vivono nei diversi Stati. E credo che dobbiamo anche domandarci se i numerosi Stati firmatari della Dichiarazione Universale dei diritti umani del 1948 – che sono tutti gli Stati che, nel corso del tempo, sono diventati membri dell’ONU – e i loro cittadini siano o meno diventati “fratelli”, nella doppia accezione suindicata.
A fronte dell’aumento delle diseguaglianze e delle pe- santi conseguenze della pandemia, dei mutamenti climatici e delle numerose guerre che vi sono nel mondo (a partire da quella ucraina, in Europa) 4 non possiamo più eludere simili domande né restare inerti. Del resto, in caso contrario dovremmo sentire tutti la responsabilità (quantomeno sociale) di non essere stati capaci. con la nostra cecità e il nostro egoismo, di evitare epiloghi tragici per noi e per le future generazioni, visto che, come affermava Thomas Mann: “la tolleranza diventa un crimine quando si applica al male” 5 ed è indubbio che calpestare, direttamente o indirettamente, la dignità umana e quindi tradire lo spirito di “fratellanza” che tutti proclamiamo nella UE e in sede ONU sia un male.
2. Il lavoro: veicolo primario di promozione della pari dignità Al centro di tutto questo vi è la tutela del lavoro, da sempre considerata lo strumento migliore per onorare i suddetti impegni solenni, quale veicolo primario di promozione della pari dignità 6.
Questa è anche l’impostazione voluta dai nostri Costituenti. È noto, infatti, che la nostra Costituzione – nella quale la persona e il rispetto della persona hanno un ruolo centrale – per una precisa decisione dei Padri costituenti, anziché dedicare un apposito articolo alla tutela della dignità umana, ha seguito una diversa impostazione, che si è tradotta nella solenne proclamazione, al primo comma dell’art. 1, che «l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro».
In tal modo è stato creato un profondo collegamento tra democrazia e lavoro, configurandosi la questione democratica come questione del lavoro, come è stato acutamente osservato 7 .
Secondo la tesi più accreditata 8, una simile scelta è stata fatta nell’ottica di considerare il lavoro dei singoli con- sociati non solo come il mezzo con cui mettere a frutto i propri talenti e procurarsi un reddito, ma soprattutto come lo strumento principale per dare «un contenuto concreto» alla partecipazione del singolo alla comunità e per tutelarne la dignità, la cui inviolabilità non è proclamata espressamente da nessun articolo della Costituzione (diversamente da quel che accade in altre Carte) nell’idea che circoscrivere in una disposizione tale concetto avrebbe potuto equivalere a sminuirne la portata, mentre esso rappresenta il “valore fondante” di tutta la Carta.
Ne consegue che, nel nostro ordinamento, per far vivere la democrazia è necessario favorire l’affermazione – come tipo di lavoro dominante – di un lavoro che sia compatibile con il modello avuto di mira dai Costituenti.
Cioè un lavoro diretto al benessere – materiale e spi- rituale − del singolo e della società e che consenta a ciascuno di coltivare le proprie aspettative personali – anche affettive – programmando, con sacrifici ma con serenità, il proprio futuro, in una condizione in cui vi sia armonia tra lo sviluppo della personalità individua- le, che ha bisogno di certezze e di stabilità, e l’esperienza di vita e lavorativa.
Un lavoro che non è solo un mezzo di sostentamento economico, ma anche una forma di accrescimento della professionalità e di affermazione dell’identità, personale e sociale, come tale tutelato dagli articoli 1, 2 e 4 Cost. (Cass. 18 giugno 2012, n. 9965).
Al riguardo deve essere ricordato che per l’art. 4 Cost.: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto” e che l’art. 35, al primo comma, Cost. stabilisce che: “La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni” e nei commi successivi rafforza e specifica tale tutela.
Va anche sottolineato che la Corte costituzionale, fin da epoca risalente, ha chiarito che il «diritto al lavoro» (art. 4, primo comma, Cost.) e la «tutela» del lavoro «in tutte le sue forme ed applicazioni» (art. 35, primo comma, Cost.) comportano la garanzia dell’esercizio nei luoghi di lavoro di altri diritti fondamentali costituzionalmente garantiti (vedi sentenze n. 45 del 1965 e n. 63 del 1966). E questo orientamento è stato sempre seguito e di re- cente ribadito − specialmente in materia di licenziamenti – nelle importanti sentenze n. 194 del 2018, n. 150 del 2020, n. 59 del 2021 e n. 125 del 2022, di cui è stata relatrice Silvana Sciarra, neoeletta Presidente della Corte costituzionale.
La suddetta impostazione trova riscontro anche nelle disposizioni della Costituzione in cui si fa espresso riferimento alla “dignità” e, precisamente:
• nell’art. 3, primo comma, Cost., ove, a proposito del principio di uguaglianza, si parla di «pari dignità sociale»;
• nell’art. 36, primo comma, Cost., ove il diritto ad un’equa retribuzione è collegato all’obiettivo di assicurare «una esistenza libera e dignitosa» al lavoratore e alla sua famiglia;
• nell’art. 41, secondo comma, Cost., ove si stabilisce che l’iniziativa economica privata non possa «svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana».
In questa ottica la tutela del diritto ad un lavoro di- gnitoso dai nostri Costituenti è stata collegata a quel- la del diritto alla salute – da intendere come “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale” e non come “semplice assenza dello stato di malattia o di infermità”, secondo la definizione contenuta nel Preambolo della Costituzione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità OMS (oppure World Health Organization, WHO, entrata in vigore il 7 aprile 1948, cui tuttora si fa riferimento nei principali atti nazionali e internazionali e che è stata espressamente recepita dall’art. 2, lett. o) del d.lgs. 81 del 2008 − tanto che a questi due diritti è stata attribuita una configurazione similare, essendo stati entrambi delineati in una duplice dimensione sia individuale – cioè come diritti fondamentali delle sin- gole persone – sia anche sociale.
Di conseguenza il principio della pari dignità e quindi dell’uguale valore di tutte le persone umane per i nostri Costituenti viene a poggiare su le due imponenti colonne rappresentate dal diritto al lavoro dignitoso e alla tutela della salute.
Deve anche essere sottolineato che, sia pure con pa- role diverse, i suddetti diritti fondamentali sono intesi allo stesso modo nell’ambito del “progetto europeo”, quali “elementi portanti” dello Stato democratico contemporaneo, visto che l’essenza dei regimi democratici moderni è rappresentata dal fatto che il benessere di ciascuno è la misura del benessere dell’intero corpo so- ciale di appartenenza e sia i singoli Stati membri sia la stessa Unione europea sono fondati sul principio democratico.
Questo emerge in modo evidente nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che:
a) all’art. 31, paragrafo 1, stabilisce che: “ogni lavoratore ha diritto a condizioni di lavoro sane, sicure e dignitose”.
b) all’art. 35 (Protezione della salute) prevede che: “ogni individuo ha il diritto di accedere alla prevenzione sanitaria e di ottenere cure mediche alle condizioni stabilite dalle legislazioni e prassi nazionali.
Nella definizione e nell’attuazione di tutte le politiche ed attività dell’Unione è garantito un livello elevato di protezione della salute umana”.
E la Carta UE, essendo più recente, al riconoscimen- to di questi diritti aggiunge anche, all’art. 37, la tutela dell’ambiente, affermando che: “un livello elevato di tutela dell’ambiente e il miglioramento della sua qua- lità devono essere integrati nelle politiche dell’Unione e garantiti conformemente al principio dello sviluppo sostenibile”.
Tuttavia, pur partendo da un quadro normativo virtuo- so, con lo “scolorirsi”, in Italia e nella UE, del modello dello Stato sociale – come welfare state, ossia “lo Stato del benessere” – è accaduto che, in quella che il compianto Zygmunt Bauman ha definito “società liquida”, anche il lavoro sia diventato “liquido” e cioè sia diventato “occupazione”, termine che si collega ad un’attività che consente di procurarsi un reddito e di vivere o anche solo sopravvivere nel presente, a differenza del “lavoro” che, per come lo intende anche la nostra Costituzione, è uno strumento che consente di vivere – non soltanto di sopravvivere – in una dimensione non solamente legata al presente ma anche proiettata verso il futuro, congiungendo l’obiettivo di perseguire il benessere del singolo unitamente con quello del corpo sociale di riferimento.
In questo contesto si sono inseriti il lavoro nell’econo- mia delle piattaforme digitali e la delocalizzazione nel- la loro attuale configurazione: realtà che pur essendo nuove piuttosto che evocare il futuro nei fatti si manifestano come utili strumenti per la perpetrazione di condotte di violazione dei diritti dei lavoratori se non addirittura di sfruttamento, che affondano le proprie radici nel passato.
Quindi, per combattere in modo efficace le relative di- storsioni oltre ad un appropriato complesso di sanzioni, realmente dissuasive e concordate in sede UE, la strategia migliore – e in genere privilegiata dall’Unione – dovrebbe essere quella della prevenzione, basata su un forte ritorno, nei fatti, all’applicazione dei principi fondamentali in materia di lavoro, salute e ambiente.
Del resto, questa impostazione è conforme a quanto da tempo si sostiene in sede ONU 9 e, in particolarenell’OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro), rilevandosi che per l’Europa – e, specialmente, per l’Italia − il tema in concreto più importante (anche alla luce della Costituzione italiana), collegato agli squilibri delle disuguaglianze, è quello di puntare su “progressi duraturi in termini di creazione netta di lavoro digni- toso”, un’adeguata tutela della salute in un’ottica uni- versalistica nonché sulla tutela di un ambiente salubre. Cioè si deve puntare al trinomio ambiente-salute-lavoro dignitoso, che è essenziale per ottenere uno sviluppo equo e sostenibile.
3. Sviluppo sostenibile La centralità del suddetto obiettivo è stata rafforzata con l’impegno assunto dai Capi di Stato di 193 Paesi ONU con la firma del documento “Trasformare il nostro mondo. L’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile” con il quale sono stati fissati i molteplici specifici impegni per lo sviluppo sostenibile da realizzare entro il 2030, tutti riconducibili alla realizzazione del suddetto trinomio.
Ma da tempo l’OIL aggiunge che l’incapacità mostrata sinora dal sistema economico e politico a tutti i livelli − locale, nazionale e internazionale − di dare risposte concrete alla suddetta sfida “è preoccupante perché strutturale e rintracciabile” senza distinzioni, nelle organizzazioni e negli enti di tutti i settori − del settore pubblico, di quello privato e di quello non profit – ovviamente, in ognuno con la propria quota di responsabilità.
Pertanto, l’OIL considera auspicabile che la “società civile organizzata” faccia da pungolo esterno al processo decisionale in senso stretto, onde sollecitare spinte in avanti, ad esempio chiedendo di spostare l’attenzione dalla misurazione del risultato (il PIL) alla misurazione appropriata della qualità del processo di sviluppo (la produttività), in relazione proprio alla necessità di porre al centro dell’attenzione la qualità del lavoro.
Del resto, la tesi del superamento del PIL per misurare il livello di sviluppo degli Stati fin dagli anni novanta è stata sostenuta da molti autorevoli economisti come il pakistano Mahbub ul Haq, l’indiano Amartya Sen, l’americano Joseph Stiglitz il francese Jean-Paul Fitoussi, nonché la britannica New Economic Foundation (NEF), i cui studi hanno portato all’economia della felicità, sviluppatasi all’incrocio di varie scienze riguardanti lo sviluppo sostenibile, che a partire dalla storica risoluzione dell’Assemblea Generale ONU del luglio 2011 si è tradotta nella diffusione annuale, a partire dal 2012, del Rapporto sulla felicità (World Happiness Report), che monitora la felicità di più di 150 Paesi nel mondo.
E anche la Commissione UE nel 2010, al momento del lancio della strategia Europa 2020, proponeva di promuovere un modello di crescita che non si limitasse semplicemente a far crescere il PIL, rilevando che molti organismi si sono fatti promotori di una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva quale fattore essenziale dello sviluppo economico.
Ma, poi, nel registrare i risultati di medio termine della Strategia la stessa Commissione, nella Comunicazione del 5 marzo 2014 (COM 2014 130 final), intitolata “Bi- lancio della strategia Europa 2020 per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva”, ha dovuto riconoscere che i progressi verso la realizzazione degli obiettivi di Europa 2020 sono stati frenati dalle disparità sempre più forti tra gli Stati membri, e spesso al loro interno, sicché anche se l’obiettivo era quello della convergenza delle economie della UE, invece la crisi ha accentuato il divario tra gli Stati membri più efficienti e quelli meno efficienti e sono anche aumentate le differenze tra le regioni di uno stesso Stato membro e dei vari Stati membri ed anche il generalizzato superamento del PIL non è realizzato.
Nell’occasione la Commissione ha sottolineato che i risultati poco soddisfacenti si erano riscontrati specialmente con riguardo all’occupazione, alla ricerca e sviluppo e alla riduzione della povertà, che sono i settori più sensibili agli effetti della crisi e per i quali occorre un impegno maggiore per compiere ulteriori progressi, pur nella consapevolezza che gli obiettivi di Europa 2020 in questi ambiti si traducono in impegni politici – così come avviene attualmente – nei quali si riflette il ruolo centrale che i Governi nazionali dovrebbero svolgere ciascuno nel proprio Stato, secondo il principio di sussidiarietà.
Tuttavia, nella maggior parte dei settori gli obiettivi nazionali non erano “sufficientemente am- biziosi” da permettere di realizzare complessivamente la Strategia proposta a livello dell’UE. Inoltre, questi diversi livelli di impegno dei Governi si riflettevano anche nel grado variabile di risposta e “ambizione politica” all’interno dell’Unione nel suo complesso, che risultava condizionata dal prevalere delle considerazioni politiche a breve termine sulle strategie a lungo termine.
Da allora sono passati molti anni eppure, ancora oggi, nella UE si continua, nei fatti, a non arginare i suindicati fenomeni e a fare riferimento, per misurare il benessere e lo sviluppo dell’Unione, esclusivamente al PIL ed è significativo che, pochi mesi dopo la suddetta Comunicazione, la UE – e quindi l’Italia – per effetto del nuovo sistema europeo dei conti nazionali e regionali SEC 2010 come definito dal Regolamento UE n. 549/2013 – emanato grazie ad una stretta collaborazione fra l’Ufficio statistico della Commissione UE (EU- ROSTAT) e i contabili nazionali degli Stati membri – ha disposto di includere dal settembre 2014 nel calcolo del PIL degli Stati membri anche i ricavi di prostituzione, vendita di droghe illegali, contrabbando e tutte le altre operazioni finanziarie illecite, al fine di rendere le economie dei vari Paesi membri più comparabili, visto che alcuni Stati già inserivano tali voci nel calcolo delle loro entrate.
Quest’ultima scelta, già di per sé discutibile, è sintomo del fatto che non si è riusciti a liberarsi dalla “tirannia del PIL” senza considerare che pur trattandosi di un buon misuratore per l’attività industriale, commerciale e finanziaria degli Stati, da un punto di vista quantitativo, non solo non è sufficiente a misurare la crescita complessiva degli Stati, ma è del tutto inadeguato, ad esempio, a misurare la “produttività” del lavoro pub- blico, normalmente finalizzato a creare “valore” e non prodotti.
Ciò può comportare che, sull’altare del PIL, si possa determinare il sacrificio di quello che anche l’autorevo- le Corte costituzionale tedesca (sentenza del 9 febbraio 2010) ha qualificato come «intangibile» «super-princi- pio» della tutela della dignità umana, oltretutto dimenticando che l’effettività della tutela dei diritti fonda- mentali, da sempre, è considerata il presupposto della legittimità democratica del «progetto europeo» e il suo tratto caratteristico in ogni settore.
4. Le norme non bastano Peraltro, gli aspetti critici evidenziati dalla Commissione UE nell’applicazione della normativa europea (e di quelle nazionali conseguenti) continuano a registrarsi in modo sempre più evidente nel mondo del lavoro traducendosi nella crescente diffusione del lavoro irregolare con retribuzioni non commisurate all’impegno richiesto, prive di tutele per la salute dei dipendenti, in condizioni spesso mortificanti che possono arrivare a tradursi in situazioni di vero e proprio schiavismo lavorativo (in vari casi accertato in sede giudiziaria).
Per il nostro Paese questo si può verificare non solo nel Mezzogiorno ma in tutto il territorio nazionale, non solo in danno degli immigrati e non solo in agricoltura e nell’edilizia (che sono da sempre i settori più esposti a questi fenomeni).
Ebbene tutte queste situazioni si basano sul mancato rispetto della pari dignità di tutti gli esseri umani e non solo violano i principi posti a tutela del diritto al lavoro, ma violano il fondamentale principio di uguaglianza perché vengono posti in essere nell’idea di considerare i dipendenti come esseri inferiori, idea che − oltre a non trovare riscontro in testi normativi e, anzi, a porsi in frontale contrasto ad esempio con l’art. 41 Cost. – appare il frutto di un pregiudizio.
Si tratta di una prospettiva che, oltre a creare sofferenza, è opposta rispetto a quella di tanti virtuosi imprenditori di successo come, ad esempio, il compianto Michele Ferrero il quale, oltre 40 anni fa, quando divenne capo dell’omonima azienda fondata dal nonno Pietro nel 1946, come prima cosa scrisse ai responsabili da lui nominati un elenco di norme guida per la gestione del personale (chiamate “massime da seguire nei contatti con il personale”) che esordivano con la frase: “Quando parli con un individuo ricorda: anche lui è importante” 10 .
E questo modo di gestione del personale è stato determinante per il successo della Ferrero, così come lo è tuttora per gli imprenditori che seguono il suo esempio.
Certo Ferrero era particolarmente avveduto, data l’epoca cui risalgono le sue “massime”, ma oggi, dopo che sono anni se non decenni che si dice che bisogna investire sul “capitale umano” anche per fare impresa, si deve tristemente riconoscere che la maggior parte delle aziende (anche pubbliche) in Italia nei fatti non applica questa regola.
Eppure “conviene”. Infatti, da molti anni Jeffrey Sachs, commentando i dati riferiti al nostro Paese del Rapporto sulla economia della felicità 11 pubblicato annualmente, ha affermato che il problema dell’Italia è rappresentato dall’aver “disinvestito dal capitale sociale, quel capitale che è fatto di fiducia reciproca, di relazioni solidali”.
Questo ha trovato conferma da ultimo nel Rapporto 2022 in cui l’Italia, dalla 25esima posizione dell’ano scorso, è scivolata alla 31esima, piazzandosi dopo l’Uruguay e prima del Kosovo. E deve essere specificato che parlare di “fiducia” significa parlare anche dell’emergenza denatalità ormai con- clamata nel nostro Paese e quindi di economia.
Questo risulta confermato, fra l’altro, dall’analisi dei fattori che determinano la reputazione degli Paesi stilata ogni anno dal Reputation Institute, che pubblica il Country RepTrak nel quale si classificano i principali Paesi del mondo in base a come sono percepiti dai cittadini degli Stati aderenti al G8.
Il report indica che la reputazione di un paese è la percezione emozionale che ne hanno le persone e che deriva dalla loro esperienza individuale diretta, dalla comunicazione che fa di sé il paese stesso, dall’opinione degli altri e dagli stereotipi condivisi sul paese in questione.
Il tutto nell’idea che una migliore reputazione si basa sulla maggiore “fiducia” nei “giusti comportamenti” dello Stato (principalmente nelle Pubbliche amministrazioni) e significa più esportazioni, più investimenti e più turismo.
Nella suddetta classifica l’Italia è l’unico Paese ad avere una reputazione esterna più forte di quella interna (piace di più all’estero di quanto non piaccia agli italiani) e anche nelle ultime rilevazioni si conferma che il nostro Paese continua a porsi nelle prime posizioni per attrat- tività (paesaggio, beni culturali etc.), mentre delude per quanto riguarda lo sviluppo economico e le politiche pubbliche.
5. Combattere le discriminazioni Da quanto si è detto deriva che per porre rimedio ad una situazione nella quale il diritto al lavoro è di giorno in giorno violato sempre di più sarebbe utile muovere dalla premessa che tutto nasce dalla negazione della pari dignità di tutti gli esseri umani e quindi da una discriminazione, dovendosi ricordare che, a partire dalla seconda parte del XX secolo, si tende ormai a superare (anche in sede giurisdizionale) l’originaria im- postazione secondo cui la discriminazione presuppone un giudizio comparativo fra il trattamento del singolo soggetto ed il gruppo in cui è inserito perché tale impostazione si considera “restrittiva”, mentre si ritiene necessario che la valutazione della situazione del singolo individuo che ha subito il trattamento negativo venga esaminata al di fuori di una comparazione 12 .
In ambito UE sia la normativa sia le sentenze della CGUE si fondano sulla premessa secondo cui quello delle discriminazioni è di uno degli aspetti più delicati della instaurazione e della gestione del rapporto di la- voro, specialmente per le persone considerate “vulnera- bili”, come le donne, i disabili, i minorenni, le persone LGBTQIA+ 13, i cittadini extracomunitari e gli apolidi.
In particolare, dalla Commissione UE è stato ribadito, nel corso del tempo, l’indirizzo secondo cui per la lotta in favore dell’uguaglianza degli esseri umani le leggi sono essenziali, ma una società e luoghi di lavoro che siano espressione di diversità e privi di discriminazioni si costruiscono non solo con le leggi ma con la prevenzione e la sensibilizzazione al di fuori delle aule di giustizia.
Questa, del resto, è la logica cui è ispirata pure la im- portante Convenzione dell’Organizzazione internazionale del lavoro n. 190 sull’eliminazione della violenza e delle molestie sul luogo di lavoro (ratificata e resa esecutiva con la legge 15 gennaio 2021, n. 4) che è il primo trattato internazionale specificamente diretto a combattere la violenza e le molestie nel mondo del lavoro e che, infatti, insieme con la Raccomandazione OIL n. 206 che l’accompagna − fornendo proposte e linee guida sull’applicazione della suddetta convenzione e integrandola, sia pure in un testo non giuridica- mente vincolante − contiene una normativa dettagliata di grande utilità per definire le diverse plurime fattispecie 14 .
In sintesi, quella delle discriminazioni e delle molestie (non solo sessuali) 15 – in generale e, in particolare, nel mondo del lavoro ove ancora oggi nel nostro Paese sono molto diffuse, specialmente in danno delle donne − è una problematica complessa che va affrontata muovendo dall’affermazione di Francesco Carnelutti secondo cui “chi sa solo il diritto non sa neppure il diritto”, in quanto per combattere le discriminazioni in modo efficace, la cosa migliore è quella di acquisire il metodo e la sensibilità per farlo, grazie a strumenti di conoscenza che non sono solo giuridici in senso stretto.
6. Conclusioni In tutta Europa, e quindi anche in Italia, la qualità e la dignità del lavoro hanno cominciato a cedere alle esigenze del mercato a partire da quando, a metà degli anni novanta del novecento, la flessibilità del lavoro è stata considerata come uno strumento per incrementare i livelli occupazionali e non più soltanto come un mezzo per fronteggiare le sfide del cambiamento tecnologico e produttivo riguardanti le aziende, nell’idea che servire a porre un freno alla dilagante disoccupazione, concentrata soprattutto al Sud e, in generale, tra i giovani e le donne, nonché a fare emergere l’ampio settore della economia sommersa e del lavoro in nero (vedi: il rapporto Job Study dell’OCSE del 1994).
Nel corso del tempo non solo si è accertato che quella strategia non consentiva di raggiungere le finalità indicate, ma la situazione è degenerata tanto che oggi, anche in Europa, si registrano condizioni di lavoro schiavistico e, anche quando non si arriva a questo, i diritti dei lavoratori spesso sono calpestati, come può accadere nell’economia delle piattaforme digitali e nelle delocalizzazioni delle multinazionali, per non parlare del lavoro degli immigrati e non solo.
Da anni la Commissione UE propone strategie per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva, ma gli Stati membri non riescono a porsi obiettivi nazionali “sufficientemente ambiziosi” per realizzare tali strategie.
Adesso, anche tenendo conto dell’impegno assunto dagli Stati in sede ONU con la firma del documento “Trasformare il nostro mondo.
L’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile”, è finalmente arrivato il momento di impegnarsi per realizzare entro il 2030, tutti gli obiettivi indicati nel documento, riconducibili alla realizzazione del trinomio ambiente-salute-lavoro dignito- so, che vanno nella stessa direzione degli obiettivi più ambiziosi (di quelli passati) in materia di occupazione, competenze e protezione sociale proposti dalla Commissione UE al fine di costruire un’Europa sociale forte entro lo stesso 2030.
Inoltre, il raggiungimento di questo obiettivo può essere agevolato dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNNR) che siamo chiamati ad attuare facendo prevalere “l’onestà, l’intelligenza, il gusto del futuro” “sulla corruzione, la stupidità, gli interessi costituiti” (secondo le parole del Presidente del Consiglio Mario Draghi alla Camera dei deputati, 27 aprile 2021).
Si tratta di un cammino che, come afferma da tempo l’OIL, coinvolge tutta la società civile e, quindi, ognuno di noi. Penso che valga la pena di non tirarsi indietro perché sono in gioco il principio democratico, i valori e i principi che consideriamo fondanti per la UE e per il nostro Paese e la vita nostra e delle future generazioni.
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